RACCOLTA DI VOCI DEL DIALETTO DI BORRELLO
di Gaetano D'Auro


"Dalla presentazione di Eugenio Maranzano" :
Due anni fa, quando l’amico Nino D’Auro mi confidò che stava realizzando la vecchia idea di scrivere un vocabolario del nostro dialetto, mi chiese, onorandomi, di dare uno sguardo alla parte che già aveva compilato. Sapeva della mia passione per il dialetto di Borrello.
Lo accontentai con vero interesse e lo esortai a ultimare, con solerzia, mi permisi di dire, la lodevole impresa, pur consapevole della pazienza certosina indispensabile per un lavoro del genere, delle difficoltà della lunga ricerca e della trascrizione dell’idioma.
Ora lo ha completato, irrompendo, a buon titolo, nella letteratura paesana. Ma non si è limitato alla semplice elencazione di una miriade di lemmi.
Ha voluto arricchire il vocabolario, con l’incastonatura intorno a tante voci dialettali, di ricordi bellissimi di un mondo scomparso. Storielle e “tavette” a volte commoventi, altre volte umoristiche, talora metaforicamente argute, e i tanti, semplici giochi che facevano felice la nostra infanzia. E che dire dei proverbi, sale, come ben sappiamo, di mature riflessioni e deduzioni? Non per niente Aristotele definì i proverbi: “Frammenti della saggezza umana”. Perché allora, chiamarlo semplicemente vocabolario e non anche: “Borrellanario”?
La trascrizione riguarda, ovviamente, il dialetto degli ultimi cento anni. E’ noto, infatti, che il nostro vernacolo (ma non solo il nostro) ha subito una evoluzione profonda nella pronuncia e nella fonetica. Per un confronto basta rileggersi in proposito due nostri racconti (cunde) di successo del secolo diciannovesimo. Sono riportati nella prima parte delle “Novelle Popolari Abruzzesi” di Gennaro Finamore. Novelle pubblicate nel 1882 e ristampate nel dicembre 1979 dall’Editrice Carabba, con una approfondita e lunga nota di Emiliano Giancristofaro. Si tratta di “L’amore nen dure” (L’amore non dura) e di ”Re cunde de ne foèjje de rroé jjecatèore” (Il racconto di un figlio del re giocatore).
Si rimane impressionati da quella fonetica incredibilmente dura, aspra, pesante. Dal tono gutturale. Una parlata roteante nel palato. Un gergo di un altro mondo. “Sermo plebeius et rustichus”, di una società contadina e pastorale, impastata di terra, di boschi, di pascoli.
Il nostro dialetto, tuttavia, nonostante la sua naturale mutazione, conserva, come ci ricorda questo prezioso lavoro, le sue tante caratteristiche onomatopeiche e icastiche dall’efficacia rappresentativa insuperabile. La comunicatività, l’espressività, l’immediatezza lo distinguono in modo particolare. Ma è soltanto un dialetto, le cui parole hanno, comunque, una derivazione certa, un etimo indubbio, una radice indiscussa? Dal greco, dall’osco-sannita, umbro e campano, dal latino, dalle lingue indoeuropee in genere di eserciti e popolazioni che nel corso dei secoli hanno Invaso il nostro Paese? E dalle altre ascrivibili all’emigrazione e all’urbanesimo? E, addirittura, da non pochi vocaboli dalla piacevole assonanza con alcune espressioni delle “Laude” duecentesche, anche abruzzesi?
Il dialetto ha già di per sé natura ambigua. Ma quando di molti suoi termini non si riesce neanche ad Immaginare una qualsiasi origine, assume un modello letterario un po’ diverso. Un modello che va oltre l’idioma di una ristretta comunità. Un modello che sembra assurgere quasi … a … lingua. A tanto mi fanno pensare le numerose, insolite parole che il ricercatore è riuscito a scovare nella memoria! Mi riferisco, per esempio, alle voci: “Cummù” (perché) che le mamme gridavano ai figli discoli (Cummù, cummù fi accscì? Perché, perché ti comporti così?) Alle altre come “Cajjavonë” (Fandonia), “Crijë” (Niente), “Ngèfrëchë” (incomprensibile), “Gna” (Come), “Gna shtì?” (Come stai?), “Crechë” (Forse), ecc., ecc.
Ma tra le parole più … amate, una merita, comunque, particolare citazione. Ed è vera sorpresa - il nome dialettale di Borrello: “Lë Bburrièllë”. Deriva dal francese arcaico, in uso intorno all’anno Mille. Tempi in cui i cosiddetti “Figli di Borrello”, di Origine Franca, che hanno legato il loro nome al nostro paese, venivano … nomati: “Li fill de Burielle”. È quanto ci ricordano alcuni cronisti dell’Abbazia di Montecassino. Ho conosciuto l’impegno, le preoccupazioni l’ansia a volte, dell’amico autore. Ma ritengo che ne sarà ripagato ampiamente, poiché - e sia detto al di là di ogni retorica - ha costruito un tramite insolito che dà sembianza al nostro passato, ci esorta a non dimenticare, ma, a coltivare l’arte della memoria, e, come si suol dire, a fare del passato il futuro.
Cosa, quest’ultima, oggi non difficile, se si considera che il dialetto non costituisce più ostacolo all’apprendimento della lingua italiana. Molti i fattori, come è noto, che hanno determinato questa rimozione. Dai più estesi e nuovi obblighi scolastici ai progressi economici. Dagli eventi politici, sociali e militari, alla massiccia diffusione ed esaltazione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa. A questi, peraltro, va il merito di aver contribuito, in maniera determinante, alla unificazione linguistica del nostro Paese, compiutasi soltanto nella seconda metà del secolo scorso (cento anni dopo l’unificazione politica!).
“Sermo, finalmente, urbanus, diffusus et vulgatus”.
Coltiviamolo, perciò, questo dialetto, innanzitutto nell’ambito della vita familiare. E col parlare contemporaneamente la lingua italiana, cerchiamo di essere paghi dell’innovativo bilinguismo. Non dimentichiamo, infine, che questo nuovo strumento di insegnamento vuole essere anche un vero atto d’amore verso il nostro paese.
Una ragione di più per ringraziare Nino D’Auro.

Eugenio Maranzano

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