LEONZIO VITULLO
Il Ricordo di
Antonio De Angelis

Prendano vita


Se il Signore me ne darà forza e tempo tenterò di definire, almeno in brevi tratti, il profilo di alcuni amici che mi sono rimasti ben custoditi in angoli della memoria e li chiamerò così a farci cortese compagnia.
Comincerò, garbatamente, come a lui si conviene, a chiamare al proscenio don Leonzio Vitullo (il don mi è venuto spontaneo), figura schiva , cara a molti in quel di Borrello, piccolo borgo in Val di Sangro, un po’ appartato, tra Quadri, Roio, Rosello, Civita Luparella e Villa Santa Maria, con propaggini sul Verde, uno dei pochi corsi d’acqua ancora intatti, di quella terra D’Abruzzo, tanto cara a D’Annunzio.
Dei miei ricordi di Borrello, delle ragioni che mi portarono a frequentarlo per diversi anni e dei cari amici che mi ospitarono e di altre persone che ebbi il piacere di conoscere, avrò, spero, l’occasione di parlare più in là. Cercherò di farlo utilizzando quei brevi fotogrammi che restano intatti nella memoria lunga degli anziani, cercando di non aggiungere altro di mio, se non riflessioni “ora per allora”.
Borrello; anni cinquanta. Come ogni anno, da qualche tempo, passavo il mese di agosto in Casa D’Auro, ospite dei genitori del mio amico Riccardo, Don Mario e Donna Ascensina, due persone di notevole umanità il cui ricordo affettuoso è dentro di me vivo e reclama di essere raccontato. Cosa che mi riprometto di fare.
Fu lì che mi si presentò l’occasione di conoscere una persona che subito mi colpì per la singolarità della figura e per la simpatia che emanava. Aveva anche nell’abbigliamento (forse nel panama e nel bastone dal pomo d’argento, o negli spessi occhiali da miope, o nel modo calmo di muoversi e parlare) un che di forestiero. Era parente dei D’Auro, avendone sposato una loro zia, Pierina, che gli era anche cugina, una coppia senza figli. Avrei scoperto qualche tempo dopo che Leonzio Vitullo era reduce da un lungo periodo da emigrante in Argentina. Era stato lui stesso a darmi qualche notizia sul suo lavoro di ambulante del commercio e di come attraversava, spesso di notte, lunghi tratti della Pampa tra una fazenda e l’altra con ogni genere di mercanzia che potesse servire. Ma solo dal bel libro di Riccardo, “La speranza nell’ignoto”, ho capito in cosa consisteva l’attività dei Marcacifre e che proprio quello era il lavoro del commercio ambulante di Leonzio Vitullo: miglia e miglia sotto il sole o le stelle e le piogge di quel bel Paese, meta preferita di Italiani, che è sempre stata l’Argentina.
Basta richiamare sequenze di qualche film per potercelo immaginare seduto a cassetta del suo carro tipo Pionieri, andare ogni giorno verso una nuova terra e una nuova avventura. Non saranno stati facili per lui, come per tanti altri, quegli anni nell’incerto destino da immigrato. Ma lui , con il suo carattere, che via via compresi, riservato, non indugiò mai di sua iniziativa su tali aspetti della sua vita, come invece si diffuse su altri, che compresi essere stati la parte della stessa che preferiva. Una sera mi resi conto di cosa si trattava.
Eravamo una sera a goderci la frescura del piccolo salotto del primo piano di Casa D’Auro e io cercavo di trovare qualcosa di interessante alla Radio non tanto per me quanto per la persona che era venuta a trovarmi.
La vecchia Phonola gracchiava di continuo mentre cercavo inutilmente di prendere un canale qualsiasi che con un po’ di musica ci rallegrasse la serata. Lui, lo zio Leonzio, con in testa il suo cappello di lungo corso e lo sguardo attento dietro gli spessi occhiali, se ne stava in punta di divano, il mento sul pomo del bastone, in silenzio. Evidentemente aspettava che riuscissi a trovare una stazione che non si limitasse a fare bizze. E la cosa mi metteva in imbarazzo, perché da quella scatola non venivano che suoni senza senso, Non c’era da meravigliarsene: a quel tempo, primi anni cinquanta, i “ripetitori di segnale” non erano un gran che. Non rientrava un loro rafforzamento tra le priorità del Governo, né in quello della Provincia e le Regioni erano ancora di là da venire.
Quando finalmente riuscii a trovare una Stazione decente, se non ricordo male trasmetteva da Napoli, sentimmo la voce di Beniamino Gigli che ci regalava una romanza dal Trovatore. Mi pare fosse “Di quella pira l’orrendo fuoco…” D’un tratto la metamorfosi: Don Leonzio sorrideva e fischiettava quell’aria tutto compiaciuto.
Fu così che venni poco dopo, a conoscere la sua storia. Militare a Venezia gli capitò di essere per qualche tempo l’attendente di un alto ufficiale cui piaceva molto la musica lirica. Ebbe perciò modo di frequentare con lui la Fenice e godersi interi “cartelloni” di opere. Col tempo, in riconoscimento della competenza acquisita, fu chiamato dalla Direzione del Teatro, a far parte della “claque” e poi addirittura a dirigerla. Il che gli valse l’entrata gratuita a tutte le serate del prestigioso Teatro e a imparare quasi tutto quello che c’era da sapere su opere, libretti e musica, Autori e Interpreti. Verdi, Puccini, Rossini, Mascagni, Leoncavallo, Bellini e altri maggiori, anche stranieri come Massenet, Toti Dal Monte, Beniamino Gigli, Di Stefano, col tempo sembrava fossero divenuti dei vecchi amici del giovane Leonzio da Borrello, che avrebbe oggi potuto, a buon diritto, fregiarsi dell’appellativo di “melomane”.
Il racconto del nostro amico mi impressionò molto in quanto le mie conoscenze della lirica che pure mi piaceva molto, erano al confronto meschina cosa. Anche se, lo confesso, me ne rimangono impresse in memoria le emozioni. In effetti solo qualche serata con mio Padre e Vincenzo mio fratello, al S. Carlo di Napoli, (a biglietto ridotto del Dopolavoro), per la Cavalleria Rusticana, L’amico Fritz e il Barbiere di Siviglia e nel dopoguerra, alle Terme di Caracalla per La Gioconda del Ponchielli per la voce ancora limpida di Beniamino Gigli, e quel “mattone“ (per me) del Nabucco di Verdi; oltre naturalmente ai programmi di lirica che negli anni cinquanta e sessanta la Rai era solita inserire nei suoi palinsesti. Buona abitudine persa poi per strada !
E naturalmente questa sua competenza lo aiutò non poco anche negli anni da emigrante in Argentina. Non gli poteva sfuggire occasione per fare una corsa a Buenos Aires, in occasione di qualche prima importante. Passione che aumentò quando si ritirò a lavorare in città: la Fenice di Venezia gli valse come una specie di lasciapassare per capeggiare gli “esperti” del loggione del Colon, uno dei teatri più importanti del mondo, e preziosa in quanto gli alleviava almeno in parte, le pene del sentirsi un immigrato. Ci tenne a chiarire, che in Argentina per il suo mestiere di commerciante, molto apprezzato, specie dalle massaie delle Fazendas, si era fatto diversi amici, non solo tra i molti italiani e conterranei abruzzesi.
Durante la trasmissione, come ho detto, zio Leonzio (come presi a chiamarlo anche io) era diventato un’altra persona. Da riservato che era, divenne espansivo. Il suo bastone aveva preso a picchiettare sul tappeto, seguendo il ritmo dell’orchestra mentre lui fischiettava le arie e di tanto in tanto ne canticchiava un brano: sapeva tutto a memoria. La cosa mi impressionò talmente che alla fine della trasmissione gli chiesi di raccontarmi un poco della sua vita.
Lui non si fece pregare. L’atmosfera resa molto cordiale dalla musica, agevolò la nostra conversazione, che ora potrei definire una amichevole intervista.
Molte delle cose che mi raccontò le ho ritrovate in quel bel libro citato di Riccardo che non le ripeterò. Mi piace ricordare invece che un giorno che eravamo insieme ebbi modo di intercettare una conversazione con un giovane, credo della zona. Compresi che il vecchio amore per l’Argentina, in Leonzio Vitullo, non si era spento: aiutare col consiglio e le sue conoscenze altri compaesani, specie giovani a tentare la sua stessa esperienza, gli pareva un modo non solo di sentirsi utile, ma anche , penso, di mantenere ancora vivo il filo dei ricordi e degli affetti.
Cosa ne aveva in sostanza tratto di beneficio proprio e della sua cara moglie donna Pierina D’Auro, oltre al bagaglio di umanità raccolto nell’altro continente ? Da quel che ne potetti intuire da qualche suo accenno, era un piccolo appartamento a Roma che gli consentiva una modesta rendita, di cui era soddisfatto e in qualche modo fiero. Anche se a volte qualche grattacapo con l’inquilino e il condominio gli mettevano ansia. Non era assolutamente adatto al disbrigo di “complicate” questioni burocratiche. Qualcun altro della famiglia, però, ci avrebbe pensato. Tanto, lui aveva la sua musica e i suoi ricordi e qualcuno ancora cui dare una mano ! Questo era, da come ho potuto conoscerlo, lo “zio Leonzio” da Borrello.
Tocca fermarmi qui scusandomi se la memoria mi abbia fatto incorrere in qualche errore ed esprimendo sommesso invito a inserire queste noterelle nel Borrello-Site che ho visitato nei giorni scorsi, che mi ha molto colpito per la quantità e l’interesse delle notizie e mi ha emozionato per i ricordi che mi ha risvegliato. Apprezzabile soprattutto, quello che i Borrellani “fedelissimi” hanno saputo fare per una ”ricostruzione” che per le caratteristiche geologiche delle aree interessate, pareva una “scommessa impossibile“. Conto di scriverne qualcosa più in là quando avrò recuperato l’audio del mio Computer.

Roma - 23/08/2014

Antonio De Angelis



Alcuni frequentatori di Borrellosite hanno conosciuto Antonio De Angelis a Borrello dove è venuto per molti anni, altri per aver letto le sue testimonianze e le riflessioni che mi inviò nel 2003 e nel 2007, in occasione delle pubblicazioni di “Tornano le rondini” e “La speranza nell’ignoto”. Due scritti, da cui emergono l’amore per la nostra terra e la sua gente e tanta, tanta nostalgia, che ritenni di doverli mettere sul sito.
Sentimenti vivissimi che ora ritornano in questo nuovo lavoro dedicato a “Zio Leonzio”, un personaggio del nostro mondo antico da me ricordato in diversi miei scritti. Grazie Antonio, per questo bellissimo ritratto di un nostro conterraneo, che spero non sia il solo. Scusandomi per la sua pubblicazione ritardata, ti chiedo di poter aggiungere qualche particolare alla meravigliosa descrizione della passione per la musica e del bastone dal manico d’argento.
Egli possedeva un monumentale grammofono a tromba, marca “Voce del Padrone”, che forse aveva riportato dall’Argentina, poggiato su una capiente discoteca in cui erano custodite varie opere, le più famose, di cui era molto geloso e che lui solo manovrava con grande cautela. Con la zia le ascoltava sovente sorseggiando il “mate” o un “porto”, in particolari occasioni in cui fumava anche un mezzo sigaro. Ma al rientro dalla macchia cercò invano quel tesoro tra le macerie della sua casa. Trovammo i suoi miseri resti nella nostra, dove le SS lo avevano portato e, novelli Nerone, lo ascoltavano la notte dopo il rientro dalle intense giornate dedicate alla distruzione del paese. Per molto tempo frammenti di quei dischi riemersero dalla terra del giardino, ma non la tromba, pure lì scaraventata dall’esplosione delle mine, di cui qualcuno si era appropriato. Parlo di questa grave perdita, che addolorò a lungo gli zii, in “IX Novembre 1943 - La Distruzione di Borrello”.
Infine, il bastone dal manico di argento, che affermava fosse stato donato dal Generale Garibaldi al giovane combattente Alessandro Michelangelo D’Auro. Questi era uno studente universitario, figlio del farmacista Domenico, cospiratore locale di primo piano, che sacrificò la vita alla causa dell’unità d’Italia. Ho ricordato la vicenda del padre nei miei scritti e quella del figlio, che fu vittima di un incidente in Patagonia connesso alla sua passione per la ricerca scientifica, nel libro sull’emigrazione. Erano delle storie vere che zio Leonzio aveva spesso sentite raccontare da sua madre Luigina D’Auro sorella di Alessandro

Riccardo D'Auro



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