Viaggio col padre
un racconto di
Cesare Palmieri
(tratto dalla raccolta "Racconti Sangritani")


Giù per la mulattiera che porta alla piccola stazione ferroviaria, un uomo scendeva in fretta, tenendo per mano un ragazzino. Erano partiti che era ancora buio ed affrettavano il passo per non perdere il treno.
La strada era stretta e tortuosa, con un fondo discontinuo: tratti in terra battuta si alternavano ad altri con un acciottolato sconnesso, con sassi emergenti e profonde buche scavate dalle unghie degli armenti.
Il piccolo Giulio era rimasto sveglio tutta la notte, in preda ad una forte agitazione: proprio la sera prima il padre gli aveva detto che l’avrebbe portato con sé a Lanciano, sul trenino della Sangritana.
Da quel momento non aveva pensato ad altro: non vedeva l’ora che arrivasse il mattino per iniziare la sua prima, grande avventura; sicché appena suo padre si era avvicinato per svegliarlo non era stato colto impreparato, ma era saltato giù dal letto già vispo.

***

A causa della sua tenera età, non gli era stato mai consentito di allontanarsi dalla piazza. Uno spazio enorme per un bimbo di poco più di cinque anni, dove poteva giocare con i suoi coetanei; ma pur sempre uno spazio circoscritto e sorvegliato da mille occhi scrutatori che consideravano la piazza come la nursery della comunità. La più piccola devianza dal comune comportamento veniva vagliata; ogni azzuffata, ogni parolaccia, valutata e riferita. I ragazzi sentivano a pelle tutto questo e, anche per un naturale desiderio di emancipazione e di avventura, spesso tentavano delle fuoriuscite clandestine fuoriporta. Arrivavano fino alle “fondazioni” dove, a lato della mulattiera, avevano scoperto una piccola trasudazione d’acqua, segnalata da un ciuffo di giunchi. Lì si divertivano ad impastare l’argilla molliccia e davano libero sfogo alla loro creatività.
Quasi sempre abbozzavano figure umane, con lunghe braccia e mani enormi. Alcuni preferivano strappare i giunchi e ne facevano piccole fruste (saijocche). Qualche volta andavano “a sentire l’aria fresca della Maiella”, da una fessura posta più a valle, sul lato sinistro della scarpata: da quella crepa soffiava un venticello fresco e refrigerante. Da lì si poteva vedere la “Fernesca”, col suo “pisciaturo degli asini”, oltre cui la maggioranza dei ragazzi non si era mai avventurata.
Per Giulio, quel pantano maleodorante rappresentava il limite del suo mondo conosciuto, il suo Capo Finisterre.
Naturalmente quelle sortite venivano tenute nascoste ai genitori e bisognava avere l’accortezza di rientrare in piazza per mezzogiorno, un attimo prima delle “grida” delle mamme, che dalla soglia delle loro case sollecitavano i figli a rientrare in casa per il pranzo.
- Fiorentiiiiiii!-
- Cisarììììììììì! –
- Tonìììììììììì!-
- Giuvannììììììììì!–
era il richiamo perentorio, urlato a squarciagola; ma i ragazzi erano troppo interessati ai loro giochi: dovevano finire ciò che era in corso, tirare l’ultimo colpo di zoppola, dividersi i chiodi ed i bottoni, la loro moneta circolante.
Dieci minuti dopo, seconda chiamata:
- Tonììììììììììììì, che ti venisse un accidenteeeeeee!-
- Cisariiiiiiii, si suuuuurd? - (anticipazione divinatoria)
- Giuvanniiii, chetapozzasbattelemaledesantedunateeeee! -
L’ultimo ritardatario veniva afferrato per un’orecchia e riaccompagnato a casa a calci nel sedere.
Quello era stato il mondo di Giulio ed è comprensibile che l’idea di allargare quell’angusto orizzonte avesse elettrizzato il ragazzo fino all’inverosimile.

***

Avevano percorsa la prima parte della discesa in mezzo al bosco, nel buio quasi assoluto, ed il piccolo Giulio vedeva mostri minacciosi in ogni cespuglio, in ogni masso o albero e stringeva a pugnetto la sua manina in quella enorme di suo padre.
Oramai l’alba incipiente allattava la volta del cielo e spegneva le stelle in progressiva dissolvenza. Ad est, alle loro spalle, si profilava l’alta rupe sdentata, con le case costruite sul suo margine estremo, aggrappate ad esso come nidi di uccelli. Tutta la valle sangrina sfumava le sue ombre notturne.
Giulio poteva ora distinguere nettamente il profilo delle cose e dissipare i timori che gli aveva suscitato il buio circostante. Si sentiva più sicuro con la luce, e distese la sua piccola mano in quella di suo padre.
Ancora una manciata di minuti ed erano giunti sul ponte che attraversava il fiume. Sull’altra sponda, proprio alla fine del parapetto, potevano scorgere il casellante fermo davanti alla sua postazione.
Aveva già abbassata la sbarra del passaggio a livello, segno che l’arrivo del treno era imminente e se ne stava tutto impettito nel suo ruolo, vestito di panno scuro, con una lanterna in una mano e due bandiere, una rossa l’altra verde, nell’altra mano.
- Fate presto, il treno sta per arrivare!-
Curvarono la testa sotto la sbarra ed attraversarono i binari. Il padre entrò nella piccola stazioncina e fece un biglietto, uno solo, perché il bambino non arrivava al metro di altezza. Un lungo fischio precedette l’arrivo del trenino che si arrestò con uno sferragliare assordante. Il bigliettaio di un minuto prima si era trasformato in Capostazione, ora portava un berretto con la greca ed aveva in mano una minuscola tromba.
- Signori, in carrozza! -disse il Capostazione tuttofare.
Giulio si girò istintivamente all’indietro per guardare i signori appena nominati, ma non vide anima viva; c’erano solo suo padre e lui: concluse che i signori sollecitati a salire erano proprio loro due.
Che soddisfazione, era la prima volta che si sentiva dare quel titolo!
I gradini, ripidissimi, erano incassati sull’alta fiancata del vagone. Giulio si sentì afferrato per la vita, sollevato da terra e deposto all’interno della vettura. Uno sbattere di porte e la trombetta del capostazione diede il segnale di partenza. Il padre lo riprese per mano e lo sistemò vicino al finestrino, poi gli si sedette a fianco ed egli si sentì rinfrancato dalla sua vicinanza, ma aveva ancora il cuore in tumulto: “cosa succederà adesso”?
Uno strattone ed il treno partì senza indugi. Giulio si ritrovò sballottato in tutte le direzioni. Pian piano prese confidenza con quella situazione precaria ed accostò la faccia al vetro del finestrino.
Sino a quel momento aveva fatto le sue esperienze di viaggiatore stando appeso al paraurti posteriore delle rare auto di passaggio; ma l’ebbrezza durava solo pochi secondi, finiva sempre con la caduta a faccia a terra, al momento dello sgancio, e si rialzava immancabilmente con le ginocchia ed i gomiti scorticati. Più spesso, insieme ai suoi compagni, si appendeva dietro il calesse del postale; ma anche quest’avventura era di breve durata perché arrivava puntualmente il colpo di frusta di zì Gaetano.
Viaggiare comodamente seduto era tutt’altra cosa! Davanti ai suoi occhi pieni di meraviglia era tutto un susseguirsi di cose in movimento. Il trenino scivolava su un tracciato pieno di curve e dietro ognuna di esse si scoprivano paesaggi diversi.
Ora stava attraversando un ponte altissimo che univa le due sponde di un torrente e da lì poteva osservare una distesa di rossi calanchi, digradanti verso la valle. Infine ebbe la sensazione che il treno si fosse infilato sotto terra e ne ebbe grande timore. Il padre gli pose amorevolmente la mano sulla testa e lo rassicurò - non è niente, stiamo passando sotto la galleria; fra poco ne usciremo!-
La cosa si verificò puntualmente e ciò aumentò la fiducia in suo padre.
Era la prima volta che stava da solo con lui e si sentiva molto importante, in quanto destinatario unico delle sue attenzioni. A casa non aveva mai avuta quella sensazione; si sentiva marginale, perché i grandi avevano da fare continuamente, sempre presi da lavori impellenti, da scadenze improrogabili e, vuoi per stato di necessità, vuoi per tradizionale scelta culturale, non avevano tempo per dargliela ad intendere. I bambini non potevano parlare: ogni intrusione nei discorsi dei grandi non solo veniva immediatamente troncata, ma censurata come comportamento irriguardoso.
Ora aveva il padre tutto per sé ed anche se egli era di poche parole, poteva prendere l’iniziativa col fargli domande, senza tema di venire ignorato.
L’occasione si presentò dopo la stazione di Villa. Alla fermata era salito un uomo elegante che si sistemò sul sedile difronte a loro. Giulio l’osservò a lungo, con curiosità, poi si accostò all’orecchio di suo padre:
- papà - disse a voce alta per sovrastare il rumore del treno
- quell’uomo è di Villa?-
- Probabilmente sì-
- E pecché ne squacce le fichere? - (perché non schiaccia i fichi?)
Suo padre represse a fatica un moto di riso; ma, temendo che l’uomo avesse potuto sentire, mimò la minaccia di uno schiaffo nella direzione di suo figlio.
Il villese, invece, sorrise e - lasciate perdere - disse –ha parlato un innocente; so che voi ci chiamate così. I bambini ascoltano dai grandi e prendono tutto per vero, di conseguenza, data la premessa, l’osservazione di questo bambino ha una sua logica. Senza saperlo ha creato un sillogismo! Complimenti, avete un figlio perspicace! Vedete di farlo studiare e ne ricaverete soddisfazioni!-
Padre e figlio si scambiarono un’occhiata interrogativa, come a significare: “ma che cazzo sta a dire questo ficraro”? La parola “complimenti” lasciava intendere tuttavia che non si trattasse di un’offesa.
L’occasione di quel piccolo incidente aveva creato un contatto fra i due uomini, che presero a parlare, scambiandosi osservazioni sul viaggio, sul tempo e sulla loro destinazione. Risultò che il viaggiatore era un professore universitario che insegnava filosofia a Bari ed ora stava rientrando in sede.
Giulio rimase con la faccia incollata al finestrino e non finiva di stupirsi. Il treno fece sosta in altre stazioncine e finalmente entrò nella pianura.
Ora lo sballottamento era finito e il convoglio filava in un lungo rettilineo, in parallelo alla strada rotabile. Procedeva quasi in silenzio, rotto solo dal susseguirsi ritmato delle giunture dei binari. Il ragazzo non aveva mai visto una pianura così ampia, ma ciò che lo meravigliava era che il mondo circostante fosse in continuo movimento. Gli alberi lungo la ferrovia, per sua esperienza sempre attaccati terra, ora filavano verso la coda del treno. Non solo essi, ma tutti gli oggetti: le case, le persone e le loro cavalcature, i calessi, le donne con le scarpe in mano e i loro carichi sulla testa correvano tutti velocemente all’indietro. Solo in lontananza il movimento era inverso e tutto si spostava in avanti, descrivendo un ampio cerchio.
- Papà, perché la gente cammina a cur’arrete? (a marcia indietro?)
- Paravedé, sembra! - rispose laconicamente suo padre.
- Ottima risposta! - commentò il villese - la realtà è tutta apparente, perché ognuno la percepisce dal proprio punto di vista; ed il tuo (disse rivolto al bambino) è un punto di vista inconsueto, perché ti stai spostando nello spazio più velocemente degli altri -
Padre e figlio si guardarono ancora tra loro e, del compagno di viaggio, pensarono la stessa cosa di prima.
Nelle stazioncine, da Archi in poi, fu tutto un affollarsi di nuovi passeggeri, che portavano al mercato ogni ben di dio: dai pomodori, alle verdure, reste di agli, frutta fresca e polli, alcuni nelle stie, altri semplicemente legati per i piedi ed appesi a testa in giù. Erano per lo più donne, vestite di foggia diversa dalle montanare: gonne multicolori e di stoffa leggera, i capelli raccolti da fazzoletti sgargianti e legati come bandane, alcune a piedi nudi. Belle donne, comunque, con facce abbronzate e petti voluminosi. I pochi uomini calzavano chiochie e portavano la camiciola (gilet tipico della valle) su camicie bianche, senza colletto e con maniche arrotolate. La parlata era diversa, meno asciutta e comunque concitata e piena di allegria.
- Stazione di Crocetta. Per Guardiagrele ed Orsogna si cambia! - Aveva annunciato il capostazione dopo un colpo di trombetta. Nessuno scese: erano tutti diretti a Lanciano.
In una mezz’oretta erano ormai giunti a destinazione. - Buon proseguimento, professore; è stato un piacere! –
- …Tutto mio – rispose squacciafichere.
Giulio fu sollevato dal padre e, dopo un disordinato sgomitare, fu deposto a terra, sul marciapiede della stazione.
Per la prima volta vedeva una città, (!) con piazza, strade ricoperte da piastrelle nere e portici con tanti negozi dalle vetrine scintillanti. E la gente? Quanta!
Era forse la festa di sant’Antonio? -
- Macché - gli rispose suo padre, divertito per quella domanda -
- Qui è sempre così; se fossimo alle feste di settembre, allora sì che ci sarebbe gente, altro che questa! In quei giorni suonano le bande musicali, tutti vanno a vedere le corse dei cavalli a Villa delle Rose e, alla sera, fuochi d’artificio che durano fino al mattino del giorno seguente.-
Fu il discorso più lungo che avesse mai fatto a suo figlio, poi tacque. Represse dentro di sé i sentimenti di tenerezza che provava quando parlava con suo figlio; ma non si dà troppa confidenza ai figli, sennò addio rispetto! Il bambino era felice perché suo padre gli aveva fatto un discorso come si fa tra grandi. Intanto aveva ancora infilato la sua manina in quella di suo padre e questi glie l’accarezzava col pollice. Poi si pentiva per quella sorta di debolezza e, per ristabilire l’autorità paterna, gli diceva “ cammina!”
Stavano scendendo per il corso e Giulio rimase sbalordito nel vedere un grosso muttillo, (megafono) fissato al muro di un negozio, da cui usciva una voce che cantava Giovinezza. Mai vista una cosa simile!
- Altoparlante! - gli disse suo padre, cui si era rivolto con la faccina interrogativa e meravigliata.
“Sto allevando un piccolo selvaggio“ pensò suo padre “in futuro me lo devo portare appresso più spesso questo ragazzo.”
Sotto i portici il padre si arrestò e disse al bambino - entriamo da Polzinetti ché ti faccio fare una fotografia e la mandiamo al nonno in America. - Papà, che cos’è una fotografia? - Il padre sollevò gli occhi al cielo e non gli rispose. Una volta dentro, parlottò con un uomo alto e allampanato. Quello fece un cenno d’assenso, poi prese il bambino e lo mise in posa, con un cerchio in mano; infinesi appostò dietro un grosso treppiede, infilò la testa sotto un telone nero e gli disse:
- guarda in alto l’uccellino e sorridi. -
Un’improvvisa vampata di luce lo avvolse e Giulio, spaventato, cercò di scappare sulla strada.
Lasciati i portici, si trovarono in una piazza su cui si affacciava una grande chiesa - E’ la Madonna del ponte - prevenne il padre. Attraversarono la piazza in tutta la sua estensione e giunsero di fronte al monumento ai caduti: una figura di donna che sorreggeva l’eroe morente; ma l’uomo era nudo di fronte alla morte.
Giulio si bloccò. In presenza di suo padre era fortemente imbarazzato. Si mise una mano davanti agli occhi, poi scoppiò a ridere
- ma che ti prende? -quill’ome tè la pincanella dafora- (quell’uomo ha il pisello fuori).-
- Cammina! - gli disse il padre, strattonandolo un po’ per il braccio.
Un altro tabù era caduto fra loro: a casa il bambino non avrebbe mai pronunciato quella parola in sua presenza!
Aggirarono il monumento e scesero nella piazza del ”mercato della verdura”. Una meraviglia di colori e di profumi! Dentro quella piazza c’era il meglio della produzione orticola delle contrade lancianesi, roba fresca, colta di primo mattino ed arrivata sulla piazza dopo poche ore.
Le venditrici, tutte donne, erano accosciate a fianco delle loro ceste e declamavano la bontà e la qualità dei loro prodotti.
- Jamme, Jamme signò! Accattàte sti belli pipindùni, sti belli pupuni, sti belle pummadeure, sta scarola fresca fresca. Jamme belle, camòz’scuorte!
Assagge, assagge pure, signora mé, arfatte ssà bella vocca! … Ecche ce stà solamente la robba bbona! E cominciavano a mettere la merce sulla bilancia, prima ancora che la cliente ne avesse fatta richiesta.
Giulio era rimasto a bocca aperta davanti a tanto ben di Dio e frastornato da quel vociare tumultuoso delle venditrici.
Suo padre acquistò della frutta, che mise in una retina, portata da casa e sempre tenendo per mano il bambino, entrò in una tabaccheria dove acquistò un po’ di banane: roba sconosciuta nel loro paese.
- Beh, adesso basta con la vacanza e andiamo a lavorare!-
Risalirono sulla piazza e si diressero verso il corso Bandiera. Lì c’era un grossista, da cui suo padre si riforniva di materiale per il suo lavoro. Quando uscirono erano quasi carichi. Il padre portava due grandi scatoloni, legati con uno spago robusto; quindi aveva impegnate tutt’e due le mani e fu giocoforza che Giulio portasse la rete con la frutta.
Il bambino mostrò di esserne felice, perché si sentiva utile, importante. Arrancava dietro suo padre e cercava di non mostrare la fatica.
Giunsero a Villa delle rose, vicino alla stazione ferroviaria.
Qui posarono la roba ai piedi di un muretto ed il padre disse al bambino di aspettarlo, di non muoversi da lì, perché sarebbe tornato presto.
Tornò, di li a poco, con uno scartocchio, (un sacchetto di carta), fra le mani: tirò fuori due panini con la porchetta e una bottiglietta di gassosa, di quelle con la pallina di vetro.
- Intanto che aspettiamo il treno, mangiamoci qualcosa; dopo, quando saremo a casa, mamma ci farà trovare un bel piatto di sagne e fagioli e ci riempiremo bene la pancia.
Mangiarono i panini con appetito: oltretutto quella porchetta era proprio buona! Il padre premette con forza l’indice nel collo della bottiglietta e quella emise un soffio prepotente, accompagnato da un getto di schiuma: ne bevettero, passandosela alternativamente l’un l’altro. “proprio come fanno due uomini”, pensò Giulio, ed in quel momento si sentì cresciuto di un metro.
Il padre volse lo sguardo verso l’orologio, sulla facciata della stazione.
- Abbiamo ancora un po’ di tempo a disposizione - disse al bambino; poi lo prese per la vita, e lo sollevò sul muretto. Gli prese la manina nella sua e cominciò a farlo correre avanti e indietro.
Giulio correva su e giù sul muretto e rideva felice; avrebbe voluto che quel gioco non avesse mai fine.
Durò fino a che il padre non si avvide che suo figlio aveva il fiatone. Allora arrestò la corsa, lo prese in braccio per farlo scendere, ma indugiò più di quanto fosse necessario per quell’operazione.
Rimase con suo figlio stretto al suo petto e sentì il battito impazzito del suo piccolo cuore; si meravigliò che anche il suo battesse in sincronia. Giulio l’abbracciò con forza e affondò il viso nell’incavo tra la spalla ed il collo di suo padre.
Fu un attimo magico che non si sarebbe più ripetuto nella vita. Poi, una volta a terra, s’incamminarono verso la stazione, senza parlare.
Nel loro scompartimento trovarono quasi le stesse persone con le quali avevano fatto il viaggio dell’andata. Erano ancora più ciarliere e si scambiavano battute; avevano le facce contente perché avevano venduto tutto.
Una donna frugò nel suo petto e ne cavò fuori una moneta da cinque lire d’argento; la rigirò più volte fra le sue dita, se la mise sotto i denti, le diede un piccolo morso e, tutta soddisfatta, se la rimise nel cavo situato fra i suoi enormi seni. Giulio credette che le donne di jest-abball avessero le fessure nelle tette, come i salvadanai.
Si rilassò e, vuoi per la notte passata in bianco, vuoi per le emozioni della giornata, presto fu assalito dal sonno. Suo padre lo fece distendere sul sedile e gli appoggiò la testa sulle sue gambe. Ora che il bambino dormiva, poteva accarezzarlo senza tema di apparire un padre debole, un cacò.
Mentre lo faceva, gli tornò in mente la frase del villese. Una cosa assurda per le sue risorse economiche e quasi audace per gente del suo ceto; ma, se il figlio gliel’avesse chiesto, sarebbe stato disposto a togliersi il pane di bocca, pur di aiutarlo.
Alla stazioncina d’arrivo presero il postale, non avrebbero potuto risalire a piedi a causa dei pacchi. Come viaggiatore pagante, questa volta zì Gaetano lo trattò con tutti i riguardi: niente frustate, anzi giunse perfino a farlo accomodare a cassetta, al suo fianco.
Al rientro in paese si sentì orgoglioso come doveva esserlo stato un imperatore che avesse fatto ritorno a Roma, dopo una campagna vittoriosa contro i barbari.
Sulla soglia di casa l’attendeva la mamma, che al suo apparire gli corse incontro, ansiosa. A casa se lo mise sulle ginocchia e non finiva mai di baciarlo.
- Dimmi, dimmi tutto, com’è andata? Ti è piaciuta Lanciano? Dai, raccontami tutto!-
Giulio scese giù dalle sue ginocchia e le si mise di fronte, rimanendo in piedi: non era più un bambino, ormai era cresciuto.
Senza riuscire a formulare compiutamente il concetto, sentiva dentro di sé che il rapporto duale ed esclusivo con sua madre si era modificato; ora c’era un socio in più che era entrato nel loro mondo asfittico ed escludente, per aprirlo anche agli altri: suo padre.
- Allora - gli ripeté sua madre – mi vuoi raccontare tutto?-
- C’era tanta gente… Polzinetti mi ha detto di guardare l’uccellino, ma io sono scappato… c’era un uomo con la pincanella dafora… le donne andavano a cur'arrete e si mettevano i soldi in mezzo alle tette… -
La madre impallidì; le mancava il respiro e si portò istintivamente la mano alla gola. Cominciò a tremare tutta, poi si alzò di scatto e si diresse verso la stanza, dove si trovava suo marito.
Si fermò sulla soglia, con le mani ai fianchi… “Ahi-ahia”, pensò suo marito, che conosceva quell’atteggiamento: “temporale in vista!”
- Si può sapere dove diavolo hai portato quel povero innocente?-
- A Lanciano -
- Ah si, a Lanciano? Svergognato!-
Tornò indietro, sui suoi passi; prese il bambino e se lo rimise con forza sulle ginocchia. “Ma come poteva essere successa una cosa simile? Mai se lo sarebbe aspettato da suo marito, dopo tutta la fiducia che aveva sempre riposta in lui e nella sua integrità!”
Strinse il bambino contro il suo petto, come se volesse avvolgerlo con tutto il suo corpo per proteggerlo, difenderlo dal male di questo mondo crudele e senza Dio.
- Mai più, mai più! - diceva tra i singhiozzi - la mamma non ti lascerà più andare via da solo! -
Intanto lo copriva con le sue braccia, come fossero due ali; se avesse potuto, se lo sarebbe ricacciato dentro il ventre.
Infine si calmò un poco e, quasi impercettibilmente, iniziò ad emettere dei suoni strani:
- Co-cò, co-cò, cococò,cò,cò,co-cò…


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