ULYSSES
(non di Joyce)
un racconto di

Cesare Palmieri
(tratto dalla raccolta "Racconti Sangritani")


Come faceva tutti i santi giorni, anche in quel mattino di giugno 1944 Mr. Caesar Pompouse uscì da casa alle ore 9, caricò la piccola pipa di terracotta, a cannuccia lunga, l’accese, ne verificò il tiraggio e la sistemò, penzolante, sul lato destro della bocca.
Dal taschino del panciotto (ingl. Camisciola) tirò fuori l’orologio a cipolla, ancorato ad una catenella di sicurezza che gli attraversava l’ampio torace. Gli diede una rapida occhiata (ore 9 o’ clock) e lo rinfilò dentro, soddisfatto per la precisione delle proprie abitudini; poi, incrociate le mani dietro la schiena, si accinse ad affrontare i ripidi scalini che l’avrebbero portato al punto più alto del paese.
Iniziava, così, la sua passeggiata giornaliera, solitamente ricca d’incontri, di lunghe e piacevoli chiacchierate con gli amici (lo erano tutti), distribuendo, nel frattempo, bonari consigli ed immancabili battute piene di sottile ironia, all’inglese.
Mr. Caesar Pompouse era amato per quella sua naturale bonomia e per quel suo sforzo costante, teso ad addolcire le angustie che ognuno deve affrontare nella vita. Era appena passata la guerra e, col paese distrutto, parlare di angustie è riduttivo: meglio dire “situazioni tragiche” che ognuno doveva affrontare per sopravvivere.
L’incontro con quest’amico, che portava a tutti un po’ di sano ottimismo (di cui c’era estremamente bisogno) era intimamente atteso, anche se “non lo davano a vedere”
Mr. C. Pompouse, dunque, iniziò la salita, ponendo attenzione a non pestare le innumerevoli cacche degli animali che, al mattino, erano passati per andare al pascolo. Ce n’erano di tutti i tipi: da quelle delle pecore e delle capre, nere e piccole come confettini, a quelle via via più voluminose degli equini, sino alle immense pizze delle vacche. Dunque, in quel villaggio abitato da contadini-allevatori, anche quella giornata iniziava inevitabilmente nella merda.
“ Ma, dico io”, borbottava fra sé Mr. Caesar Pompouse “visto che queste bestie stanno andando in campagna, perché non vanno a farla appena fuori dal paese? Fra l’altro contribuirebbero alla fertilizzazione naturale dei campi, con buona soddisfazione di tutti! No, devono farla proprio prima di allontanarsi!
Il bello è che la cosa si ripete anche al tramonto, al loro ritorno: non la fanno in campagna, ma se la trattengono nel culo sino a che non s’imbattono nelle prime case! Sono proprio delle bestie!”
Intanto, fatta una ventina di scalini, giunse all’altezza della casa di Mr. Leonard of Chinese, sul lato sinistro della salita.
- Buongiorno Mr. Caesar- disse Mr. Leonard, che stava legando le sue galline l’una all’altra con una lunga cordicella.
- State facendo una collana ( ingl: scerta) con le vostre galline?
- Eh, beato voi, Mr. Caesar, sempre a scherzare! Devo andare in campagna e le porto con me; se le lasciassi sole, (a parte il fatto che, con i tempi che corrono non ne ritroverei neanche una), cosa mangerebbero? Invece me le porto appresso e, mentre lavoro, loro fanno le spigolatrici in mezzo alle stoppie (ingl: annarraccoije le mùrretèlle), beccano qualche vermetto e perché no, (è già capitato), qualche serpente, di cui vanno molto ghiotte (ingl: vanne-ngorde); così legate non si disperdono.
- State attento - replicò sornione Mr. Caesar - ché, in uno di questi giorni, l’aquila se ne farà un rosario delle vostre galline! Ne prende una e se ne porta via dieci!-
- Che ci provi! - replicò Mr. Leonard, agitando il pugno minaccioso verso il cielo; poi, finita l’impilata (ingl: inflarata), mise la collana dei pennuti in un sacco e la sistemò nella grande cesta a lato del basto (ingl: cajola).
In tutto il lavoro era aiutato dall’inseparabile moglie Mrs. Rosaria, una donna minuta, servizievole e silenziosa, sempre vestita di nero, il volto stretto nel fazzoletto dello stesso colore. Nel suo sguardo si intuiva un dolore profondo, senza fine. Era attentissima a suo marito, ma aveva contemporaneamente l’aria assente, perché aveva la mente altrove, a quell’unico figlio già cresciuto, che la morte le aveva ghermito, tanti anni fa. Da allora non aveva più pronunciata una parola, un lamento, un qualsiasi suono.
Il dialogo verbale col marito era, quindi, inesistente; ma di lui intuiva i bisogni e anticipava i desideri: gli era attaccata con tutta la disperazione e la paura della sua patologica solitudine. Lo seguiva sempre come un’ombra, ovunque andasse.
- Buona giornata, Mr. Leonard! -
- Anche a voi, Mr. Caesar!
Intanto Mr. Leonard aveva infilato due bidenti nella cuvella del basto, una bisaccia con spartane provviste alimentari, una fiaschetta col vino, un cècene con l’acqua; infine si “accavallò” sul basto della sua asina Bianchina poi si piegò di lato, col braccio ghermì sua moglie, alla vita e, con un colpo di reni la issò sulla groppa, all’amazzone, come si conviene ad una donna.
Mr. Caesar Pompouse approfittò della pausa per riprendere fiato e per fare un paio di voluttuose tirate dalla pipa, spandendo all’intorno un fumo grumoso e maleodorante.
“Cosa vuoi pretendere se usi un tabacco fatto con le foglie di patate e barba di mais? Maledetta guerra!” disse fra se; poi fu preso dalla nostalgia dei bei tempi in cui poteva aspirare il suo trinciato forte o fumarsi un bel toscano, dopo averne umettata accuratamente la punta con la saliva.
La casa successiva, quella di Mr. Nib si trovava poco più sopra, sulla destra e, quando vi giunse trovò i proprietari, padre e figlio, intenti a segare un tronco di abete. La loro casa era rimasta semi-diroccata e priva del tetto: le tavole ricavate sarebbero servite per la copertura. I due avevano piantato il tronco in una buca del terreno, in posizione obliqua e puntellato con una putrella per assicurarne l’equilibrio. Usavano una grossa sega a telaio, per tronchi, che i due tiravano e spingevano, alternativamente, stando uno sopra e l’altro sotto. Avevano praticato dei segni rossi sopra e sotto, come traccia per il taglio.
L’inconveniente per il figlio Joseph, che stava sopra, era l’enorme sforzo della schiena e delle braccia per quel tira e spingi (ingl: tira e vussa) e, per Mr. Nib senior, oltre allo sforzo della spinta e del richiamo dell’attrezzo, quello di doversi prendere addosso tutta la segatura che gli nevicava in testa e sugli occhi.
Di fronte alle necessità si diventa persone d’ingegno e Mr. Nib, che non ne difettava certamente anche in tempi normali, aveva dato il meglio di sé: si era messo in testa un cappellaccio a larghe falde, vi aveva praticato due fori all’altezza degli occhi e protette le spalle da una vecchia mantellina.
Dopo un paio d’ore di tira e molla l‘abbondante segatura aveva completamente coperto il cappello e la mantellina di Mr. Nib di cui si vedevano ormai solo i fori della falda, con un effetto a dir poco esilarante.
Fu in quel momento che giunse Mr. Caesar Pompouse, il quale, inquadrata la situazione, fece finta di non vedere il vecchio Mr. Mib e chiese al figlio Joseph dove fosse suo padre. Quegli cominciò a far segni col capo e cogli occhi per indicare “il sotto” ed egli, fingendo stupore, disse a senior - alla vostra età giocate ancora a fare i pupazzi di neve!- (ingl: papattùni). Tutti e tre risero divertiti e Mr. Caesar, che non aveva terminata la sua recita, guardando quelle tavole storte (ingl. ’nguppate), già appoggiate al muro, chiese ai due se non dovessero costruire il ventre di un cavallo di legno.
Perché questa strana domanda? Non se lo spiegava neanche lui: ogni tanto aveva la sensazione di aver fatto esperienze diverse in altri luoghi ed in altri tempi. Gli capitava, ogni tanto, ma non sapeva darsene spiegazione. Come se nel grande crogiuolo dello spirito cosmico, quello dell’Itacense avesse lasciato un microscopico grumo, una piccola sbavatura.
I compaesani notavano quell’anomalia, ma non vi davano eccessivamente peso.
- Dobbiamo coprire il tetto il più presto possibile e non possiamo attardarci in sottigliezze - disse Mr. Mib.
- Ma con quelle tavole storte il vento si insinua facilmente! ( ingl: fuffeije ) -
- Ci faccio una bella coibentazione (ingl: cibbiéte) con un po’ di paglia e calce, o direttamente col letame di vacca -
Per la verità, quella era una pratica largamente diffusa per l’isolamento “termico” dei tetti e non solo per la contingenza del particolare momento: era stato sempre così, dalla notte dei tempi!
- Buon proseguimento e non vi stancate! (ingl. Ne ve stracchète)!-

Superati i Nib, Mr. Caesar giunse al punto in cui la salita si biforcava in due rampe perfettamente simmetriche, che sfociavano in Fright street. Scantonò sulla rampa di destra e si trovò di fronte a Mr. Lucky Pinciar e Mr. Main Kosim che discutevano seraficamente sul significato di alcuni versetti del secondo capitolo dei Salmi.
Tutti lavoravano alla rimozione delle macerie o accennavano ai primi tentativi di riparazione, dove era possibile, e quei due stavano filosofando, incuranti di tutto ciò che avveniva intorno a loro. E dire che da fare ne avevano eccome! Mr. Lucky the pinciar, era socio nonché tecnico di una fornace di laterizi, costituita da poco con tre amici, in previsione di una forte domanda di coppi e mattoni per la ricostruzione del paese. Purtroppo, vuoi per la fretta di produrre, vuoi per responsabilità del tecnico, dopo la prima sfornata, la pincera si guadagnò l’appellativo di “fabbrica pingi cruti.” Per questo motivo si era creata una certa tensione nella Società e Mr. Lucky; più esattamente fra quest’ultimo ed il socio Mr. Antony Mac Luc. Gli altri due soci si tenevano alla larga.
Sotto-sotto, a ben riflettere, l’antipatia fra i due era solo apparentemente di natura tecnica: in realtà, Mr. Antony ce l’aveva nei riguardi di Mr. Lucky perché gli era parente ed allora si vendicava con lui in maniera trasversale, secondo il detto anglosassone “ne putènne vatte suocche vatte sacchétte”.
Anche Mr. Kosim avrebbe avuto da fare, se non altro imbiancare la sua cucina, ma non ci pensava nemmeno, perché quel nero gli aveva risparmiata la casa dall’incendio: i Tedeschi, che erano entrati dal portone con l’intenzione di appiccare il fuoco, avevano vista la cucina ed erano passati oltre. Per la verità, nel passato, aveva speso molte energie per guarire il fumo della sua canna fumaria: ne aveva più volte modificato il culmine, aprendo e chiudendo finestrelle; infine mettendo un gallo girevole alla sommità; ma risultato zero. Il vento, che arrivava sempre “attorcinato”, si divertiva a ricacciare il fumo fin dentro il camino e gli spegneva il fuoco. Niente da fare. “Questo camino è una vecchia baldracca” aveva concluso e da quel momento l’aveva completamente ignorato.
Mr. C. Pompouse salutò i due e riprese la salita, immettendosi in Fright street, ora completamente ingombra di macerie.
La distruzione delle case era stata quasi totale, salvo qualche pezzo di muro rimasto pericolosamente in piedi, a testimoniare quello che c’era stato e che ora non c’era più.
Nonostante ciò, il paese non appariva morto, ma vivissimo. Come in un termitaio su cui si sono appena abbattuti gli unghioni di un formichiere, le termiti si mettono subito all’opera per ricostruire, così apparivano gli abitanti del paese: dappertutto c’era una frenetica attività, una lotta contro il tempo per ricostruirsi un tetto.
Si era ancora nella fase di sgombero e di separazione dei vari elementi dei fabbricati: alcuni ammucchiavano le pietre grandi da una parte, quelle piccole (ingl zavòrre) dall’altra; altri setacciavano i calcinacci e frantumi di intonaco (ingl: sterratura) altri ancora, spesso ragazzi, liberavano i dorsi dei mattoni dalla vecchia calcina, con colpi di roncola. Si liberavano le travi e le tavole dei tetti crollati, le grondaie, i balconi e i vecchi mobili che avevano arredato gli interni, si recuperava ogni pezzo di ferro e di legname perché tutto era destinato ad essere riciclato: non si buttava nulla.
Mr. Caesar Pompouse si era portato al livello del boulevard Argentino dopo aver risalita la bella ed ampia scalinata, delimitata da due larghi bordi in lastroni di pietra viva (ingl: sciucrarella) su cui, ai tempi felici, i ragazzi avevano praticato la “preta-splash”, lasciandosi scivolare su di essi con una pietra sotto il sedere.
La discesa era eccitante, ma l’atterraggio problematico perché si finiva immancabilmente con uno schianto pauroso sul masso posto come fine corsa (col rischio di cambiare voce) o direttamente nel fontanino; infine, nel peggiore dei casi, si finiva fra le braccia di Mr. Caesar Moses senior, che afferrava al volo il malcapitato e lo subissava di sonori ceffoni (ingl. Schaffatùni), di cui nessun ragazzo ha mai capito il motivo.
Ora si trovava in Carenn Square, il centro nevralgico della City, una bella piazza a forma di goccia, contornata da secolari ippocastani e ricoperta da un manto di camomilla nana, pianta endemica che ne faceva un unicum, sia dal punto di vista naturalistico che estetico.
Durante la guerra i maestosi alberi erano stati risparmiati dalle potature devastanti di Mr. Zamièrtre ed ora offrivano le chiome frondose ai cardellini (altra peculiarità di quel luogo unico), tornati numerosi a nidificarvi, allietando l’aria con i loro gorgheggi amorosi.
Per quella piazza era passata la storia della city. Tutti ne avevano fruito: le scuole, come palestra per preparare i saggi ginnici; i contadini, per “spandere” il grano ed il mais su ampi teloni (ingl. Ràcne;) per seccare la conserva di pomodori sopra assi di legno (ingl spirnatrilli); stendere la biancheria ad asciugare.
Soprattutto i ragazzi, padroni incontrastati dell’area, che vi praticavano antichissimi giochi come la mazza-e-lippa, la zoppola, il calcio. Le ragazze vi giocavano a caselle e a palla prigioniera, fingendo disinteresse per i maschi, ma lanciavano occhiate oblique e rapide, parlottavano fra di loro come cospiratrici, ridendo a mezza bocca.
Oltre che bella, la piazza era un formidabile luogo di incontro e di socializzazione, aperta a tutti. Lo stesso non poteva dirsi dei “vicinati”, gelosamente presidiati da bande di ragazzi, che se le davano di santa ragione per ogni piccolo scantonamento.
Ora la piazza era un luogo deserto. Abbandonata dai ragazzi, impegnati anch’essi in uno sforzo solidale con le proprie famiglie; era rifuggita dalle ragazze, ancora sotto shock dalla recente incursione aerea, che aveva falciato, con una raffica, una bellissima bimba, loro compagna di giochi, nell’atto in cui saltava la casella.
Quel bombardamento tardivo ed incomprensibile aveva fatto altre vittime, ma la morte di quella bambina aveva scosso tutti in maniera particolare. C’era ormai, anche fra i ragazzi, la consapevolezza che la vita non sarebbe stata più la stessa e che niente sarebbe tornato come prima. Ora anch’essi aiutavano nel lavoro di sgombero.
Le donne svolgevano all’aria aperta le attività più disparate: dalla spidocchiata dei bambini, (propri e degli altri che si erano aggregati) mediante vigorose frizioni dei loro crani, con stracci imbevuti di petrolio; alla disinfestazione delle reti dei letti, invase da torme di cimici, passando, sotto le loro giunture, torce accese, fatte con carta di giornale (l’ineludibile promiscuità della macchia aveva diffuso fra la gente ogni tipo di insetti, dai pidocchi, alle cimici, agli acari della scabbia). Altre, come i cercatori di oro, setacciavano i calcinacci (ingl. Sterratura) con un vaglio (ingl. Crivella) immerso nell’acqua, nel tentativo di separare i chicchi di grano che vi si erano mischiati, in seguito al crollo degli edifici.
Proseguendo il suo cammino, s’imbatté in mr. Onion, che parlava tra se e scuoteva la testa in segno di disapprovazione.
- Cosa c’è che non va?-
- Ma guarda tu come sono fessi questi Americani! Ho sentito dalla radio che stanno noleggiando centinaia di navi per mandarci la farina: non sarebbe stato meglio portare gli Italiani in America a mangiare le sagne sul posto? Avremmo anche potuto optare di rimanere lì!-
Mr. Caesar Pompouse si era poi avvicinato ad un gruppo di curiosi che attorniava il castratore di maiali (ingl: sanapurcielle).
Questi aveva piantato in terra l’insegna della ditta: un lungo bastone da cui pendevano i testicoli di un maiale, castrato in precedenza, e stava ora armeggiando col suo coltello (una vera sterrazza) attorno ad un altro malcapitato, tenuto fermo a terra da alcuni uomini. Gli aveva già inciso lo scroto ed introdotto in quell’apertura un dito sporco e, uncinati i testicoli, con uno strappo glie li asportò con tutte le aderenze (dotto ed epidimio). Con l’altra mano sciolse i nodi del tovagliolo (ingl: mildina) che conteneva già altri reperti (testicoli e trombe di Falloppio) e vi aggiunse i nuovi; poi ricucì l’incisione con ago e filo, aprì con i denti il tappo di una bottiglia di sublimato e ne versò un’abbondante schizzata sulla ferita.
-Stasera si mangia alla grande!- gli disse mr. Caesar Pompouse, che lo conosceva ormai da molto tempo - come te li cucina tua moglie Circe, alla vissora o con le patate al foglio? –
-Sono ottimi in tutti e due i modi - gli rispose il sanapurcielle, strizzandogli l’occhio, mentre si nettava le dita insanguinate sulla gamba dei suoi calzoni lerci.
Più avanti, un piattaro-ombrellaro, seduto per terra era intento a traforare cocci di spase e piatti, tentandone una ricostruzione approssimativa con punti di ferro (ingl. Ciappette) e mastice bianco.
Nella little Carenn, mr. Brownlyon era intento a svitare pazientemente le tavole del pianale di un camion, residuato di guerra, per riparare il tetto della sua casa incendiata.
- Ma come, un artista del legno come te, sta perdendo tempo per questo lavoro!?-
- Cosa potrei fare d’altro se questo cacciavite è l’unico attrezzo superstite? Ho scritto a mia sorella, che sta in America e mi ha promesso di mandarmi qualche attrezzo, per poter riprendere il mio lavoro -.
Mr. Caesar proseguì oltre, verso la bettola, ma gli fu tagliata la strada da N’donio che stava rincorrendo suo cognato e lo insultava pesantemente – Pèe, se ti prendo ti sbudello (ing: Jseppe, se t’acchiappe te cacce ‘le videlle!- gli urlava dietro.
“Ci mancherebbe solo l’omicidio” pensò mr. Caesar “come se non bastassero i morti della guerra!” S’informò fra i presenti. Jseppe, che aveva già tre figlie, stava aspettando in cucina che uscisse la levatrice dalla camera-parto: quando quella gli ebbe annunziata la nascita della quarta, era entrato in camera e, invece di baciare la moglie, le aveva rifilato un paio di ceffoni. Il cognato l’aveva saputo ed ora lo stava rincorrendo per lavare l’onta di quell’offesa a sua sorella.
Mr. C. Pompouse aggirò il palazzo baronale e si portò nello spiazzo della bettola, semi-diroccata dalla guerra. In quel piccolo slargo, la gerente aveva apprestato alcuni tavolini, attorno ai quali i pochi avventori, seduti su vecchie sedie impagliate, si giocavano a tressette il mezzo litro di vino.
Mr. Pompouse era un frequentatore abituale, insieme ad altri tre inseparabili compagni di scopa: Mr. William the guard, Mr. Angelnick the smith, già seduti ad aspettare, e Mr. Vincent Butcher, che stava arrivando. Quest’ultimo era sempre in ritardo, perché era solito fare prima un giretto, giù alle porte Scee, per barattare, con qualche Troiana sopravvissuta, la mezza cuccetta, nascosta nella tasca interna della giacca (ingl: baliscia). Talvolta variava l’offerta con un torcinello, ma lo scambio avveniva sempre con patate raggrinzite ed onuste di cacchi.
Solo al suo arrivo si dava inizio alla partita.
All’arrivo del vino sul tavolo si procedeva a riempire i piccoli bicchieri esagonali, uno per ciascuno. A quel punto si consumava il rito del prosit. Appena il fedele Mr. William si portava il bicchiere alle labbra ed il primo sorso di vino scendeva nella sua gola come un nettare, Mr. Vincent Butcher, ancora fresco di baratto, alzava il calice e brindava: “alla salute delle nostre mogli!” Puntualmente la discesa di quel nettare si arrestava nella strozza del buon William, risaliva veloce verso l’esterno e si spandeva tutt’intorno con uno spruzzo pernacchioso. Mr. William tossiva, con gli occhi fuori dalle orbite ed, appena riuscito a calmarsi, esplodeva con un “vaffanculo a te e loro!” Il rito si ripeteva, puntualmente, ogni giorno.
Si era fatto tardi. Mr. Caesar Pompouse cavò fuori l’orologio dal taschino del suo panciotto: ore dodici (o’clock!), mentre il campanone della torre annunciava il mezzogiorno, in concomitanza con l’orologio della municipality.
-Statevi bene, ci rivediamo domani!- (ingl. Stateteve ‘bbuone, ciarvedème dumane!)
Mr. Caesar Pompouse riprese la via del ritorno.
Ripercorse la discesa con cautela, per evitare scivolate rovinose.
Si era alzato il vento che aveva già asciugato completamente le cacche del mattino e liofilizzate quelle del giorno precedente. Veloci mulinelli alzavano quel pulviscolo giallo fino a raggiungere il naso e gli occhi, insinuandosi nel colletto della camicia. Il viaggio terminava così com’era iniziato.
Mr. Caesar rimpianse il suo meltemi: costante, fresco e profumato di salsedine.

A casa trovò la moglie, intenta a lavorare al telaio.
L’apostrofò direttamente in inglese:
- Che te menesse ‘na funa ‘nganne, mbèce di coce le sagne, sti tissènne la tela!?-
(- Che ti possano impiccare! Invece di cucinare le sagne, stai tessendo la tela?) -
- Tramiende aspetteve ca tu arminisse…-
(- Mentre attendevo che tu tornassi…) -

The end



Nota dell’Autore:
i fatti narrati sono un assemblaggio di episodi noti, patrimonio di tutti.
Nessun intento irriguardoso, ma di affetto, in riferimento a personaggi mitici della nostra comunità, per il loro esempio di coraggio e determinazione, in tempi davvero difficili.


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