LE UALANE
di Riccardo D'Auro



Le ualane, o gualane, era così chiamato nel nostro dialetto il contadino specializzato nell’aratura dei campi, in genere con l’ausilio di bovini; un lavoro in disuso da oltre mezzo secolo per la diffusione dei mezzi meccanici. Nei paesi ricchi di boschi prevaleva l’impiego dei buoi, i quali dopo il periodo dell’aratura assolvevano al trascinamento dei tronchi e al trasporto della legna con i carri o con slitte speciali. A Borrello quei pazienti animali non esistevano e allora si arava con vacche di razze idonee al lavoro, non assiduo, però, per non renderle sterili.
Per l’assenza in zona di industrie casearie gli allevatori, anche di pecore e capre, si associavano per la lavorazione turnaria del latte che avanzava dall’alimentazione dei capi giovani e dalla vendita al minuto, una quantità, in vero, alquanto ridotta. Il latte conferito presso la casa di ciascun socio, portato sempre col solito recipiente, veniva misurato con una bacchetta sulla quale si incideva una tacca di volta in volta, un sistema arcaico ma abbastanza preciso. Addette all’operazione, chiamata “de le latte m’briestete”, erano le donne, che andandosene chiedevano: “che cuoje appriesse?” .

Ma torniamo al tema dell’aratura della terra con gli animali, una pratica che fa ormai parte della storia.
Le ualiene in genere provenivano da Capracotta oppure da le Pajshe (masserie) de Santagnere dopo la mietitura del grano. Si rimettevano anche a coltura i prati dopo qualche anno di riposo: ze scuppeve le necchiere, terreni forti, lavoro classico dei buoi.
Avevano in paese un referente, che curava le prenotazioni ed offriva alloggio ad essi e ricovero agli animali. Un recapito presso il quale gli interessati prendevano cognizione del proprio turno e del nome di chi li precedeva. Ai ragazzi, poi, toccava il compito molto impegnativo di stare attenti allo svolgimento preciso del calendario fissato, che spesso era suscettibile di variazioni. A qualcuno di essi capitava anche di essere presente nel tardo pomeriggio all’arrivo del ualane, che destava meraviglia se era la prima volta.
Questo contadino speciale giungeva a cavallo con tutta l’attrezzatura, l’ardenghe in dialetto, accompagnato da un assistente che conduceva i buoi. Era ben vestito - senza giacca, ma col panciotto e col cappello di feltro – e ostentava il portamento di una persona convinta dell’importanza del proprio ruolo. I giovani presenti davanti al caffè avevano fatto qualche ironico commento al passaggio della carovana, paragonandola ad un team sportivo guidato da un caposquadra al quale era dovuto un trattamento particolare, così ai buoi paragonati a macchine potenti che andavano soltanto a benzina super (fieno scelto, s’intende)!
Intanto nelle famiglie che dovevano servirsi della sua opera, fervevano, in un clima di notevole apprensione, i preparativi per la giornata a loro destinata. Un rituale lungo ed impegnativo: la colazione ed il pranzo da portare in campagna, insieme alle sigarette e al fieno per gli animali e infine la cena in casa quando la giornata di lavoro era piena. Tutto ciò, sommato al pagamento, aveva un costo alto che spesso superava il valore del prodotto reso della campagna.

La mattina prestabilita il padrone si trovava presto in campagna con l’attrezzatura, che era andato a caricare la sera precedente, e tutto il resto, mentre l’operatore giungeva con comodo giustificando il ritardo per aver fatto mangiare un po’ di erba fresca ai buoi. Le ualane dopo averli aggiogati, operazione durante la quale dava ordini pacati alle bestie, quasi un colloquio, iniziava il lavoro con il tracciamento del primo solco sul confine. Un’operazione che i proprietari seguivano con attenzione, che cadde man mano incoscientemente in disuso con l’avvento dei trattori. Allora la perdita di qualche metro quadrato di terreno significava perdita di pane per la famiglia!
Tra l’uomo e le bestie vi era una forte intesa. Lo ubbidivano alla voce e sembrava che gli mostrassero gratitudine perché non faceva uso del pungolo, non premeva sul vomere - n’apprettave, si diceva - e ogni tanto allentava il morso per fare na salgiccia, tralasciava, cioè, un solco o un pezzo dello stesso. Si limitava spesso a chiamarli per nome, ora l’uno ora l’atro (Palazzuole o Perzecrille) lanciando imperiosi “a sulcre” che i buoi non sentivano perché marciavano sempre con lo stesso passo. Quando arrivavano a capo, girando liberavano il fiato come se sospirassero mentre il loro padrone approfittava per accendersi una sigaretta. Qualche altra volta si fermava per prestare “meglio” orecchio al padrone del terreno che gli diceva qualcosa. Espedienti del mestiere, questi, ai quali i gualani facevano ricorso specie quando i segni della stanchezza erano più forti.

Spero che altri frequentatori del Sito facciano seguire scritti del genere per tenere vivo il ricordo dei mestieri scomparsi.


Dicembre 2011


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