I TRE "DON" di Riccardo D'Auro
Borrello nel tempo ha dato i natali a varie personalità, tra cui tre importanti Funzionari della Pubblica Amministrazione, che raggiunsero i massimi livelli della loro carriera di appartenenza. Sono gli emeriti Dottori in giurisprudenza: Americo Beviglia, Diomede Simonetti e Orlando Di Fiore, nati, nell’ordine, nell’ultimo ventennio del 1800.
L’idea di tracciare il profilo di questi Uomini è scaturita dalla recente dedica di una strada, da parte del Comune di Civitanova Marche, al Dottor Diomede Simonetti. Un alto riconoscimento che andava partecipato ai suoi tanti estimatori, un’occasione propizia per associare alla sua le figure degli altri due colleghi e soprattutto per farli conoscere a molti giovani, che, forse, li hanno sentiti soltanto nominare.
Il merito principale per cui vanno ricordati è l’attaccamento che dimostrarono al paese di origine, del quale in ogni occasione vantarono la storia, le tradizioni e, innanzitutto, la fortezza d’animo della sua gente. In ogni occasione non si risparmiarono nel dare giusti consigli per il bene del Comune; segnalarono agli amministratori, con tempestività, la possibilità di beneficiare di leggi particolari; intervennero, anche di persona, per districare il corso di pratiche importanti impigliate nelle maglie della burocrazia. Dimostrarono la loro disponibilità anche durante le vacanze annuali che abitualmente trascorrevano in paese, con le famiglie, nelle proprie belle case. Una consuetudine, quella di tornare a respirare l’aria natia, necessaria per ritemprare il corpo e lo spirito bisognevoli di quiete e di riposo. Il ritorno dei galantuomini, ovvero delle “mezzecalzette” , era atteso con ansia dai numerosi parenti ed amici, alcuni dei quali, “i più stretti” , andavano ad incontrarli alle porte del paese. Una specie di rito che si ripeteva annualmente, insieme alle visite rese dai parenti alle loro famiglie.
Con la loro influenza, senza compromettere il prestigio delle funzioni che svolgevano, cercarono sempre di aiutare molti giovani nei pubblici concorsi e nel mondo del lavoro in genere. Ascoltarono e guidarono quanti si rivolsero a loro per consigli o altro. La genialità, l’umiltà e la modestia di questi tre emeriti Concittadini furono di esempio a quelli che operavano nella Pubblica Amministrazione.
Averli ricordati, quindi, oltre che piacevole è stato doveroso.
Riccardo D'Auro - Pescara, Febbraio 2007
Per l’elaborazione di queste note mi sono stati di aiuto i familiari dei tre personaggi, nonché un “Ricordo” del Dottor Beviglia a firma del sig. Ignazio Nencha e l’illustrazione del tributo che rese famoso il Dottor Di Fiore dell’amico Eugenio Maranzano.
Li ringrazio vivamente.
AMERICO BEVIGLIA
Americo Beviglia, nato da Giovanni e Cristina Simonetti il 18 marzo 1883, sin dall’infanzia cominciò a sbalordire per la sua straordinaria intelligenza. A nove anni, dopo aver conseguito il diploma di scuola elementare, allora limitata alla 3^ classe, andò a raggiungere il padre in Argentina dove gestiva un florido emporio di merci varie. I continui spostamenti del titolare richiedevano la presenza di qualcuno che sovrintendesse all’attività; si spiega, quindi, la chiamata del figliolo. Non si sbagliò nella scelta perché Americo (chi sa se il nome non fosse derivato dai lunghi anni di presenza del genitore in quel Continente), oltre all’intelligenza, dimostrò subito di avere abilità ed avvedutezza negli affari. Il padre, anche perché appagato dai lunghi anni di emigrazione fatti, capì che il ragazzo avrebbe messo meglio a frutto le sue capacità nello studio, così nel 1897 fecero ritorno a casa.
Il giovane si applicò intensamente allo studio e dopo dieci anni coronò i grossi sacrifici sostenuti conseguendo un ottimo diploma di laurea in legge, al quale seguirono l’abilitazione all’esercizio della professione ed il superamento del concorso di Segretario comunale. La sua prima sede fu il Comune di Castelfidardo dove erano in corso i preliminari per la realizzazione del monumento celebrativo della vittoriosa battaglia combattuta, il 18 settembre 1860, tra le truppe piemontesi del Generale Enrico Cialdini e quelle pontificie, che aprì la strada al ricongiungimento con l’esercito garibaldino. Il Monumento doveva rappresentare il simbolo dell’Unità d’Italia, un’opera imponente e di grande prestigio, che, realizzata dallo scultore di chiara fama Vito Pardo, venne inaugurata nel 1912. Il giovane Segretario, dando prova di grande abilità, riuscì ad ottenere la compartecipazione dello Stato alla ingente spesa.
Durante l’esecuzione dei lavori si instaurò un sincero rapporto di amicizia tra il Dottor Beviglia e lo Scultore, che portò nel 1914 alla realizzazione nel Cimitero di Borrello, da parte dell’artista, di un ammirevole medaglione di marmo posto ad ornamento della tomba della giovane moglie dell’amico. In virtù di detta amicizia l’insigne Maestro eseguì, per le sole spese di fusione del bronzo, la Lapide in onore dei Caduti di Borrello nella guerra 1915-1918, inaugurata nel 1924.
Gli avanzamenti di carriera del Dottor Beviglia si susseguirono rapidamente: una breve sosta nel comune di Osimo, poi Segretario Generale di Chieti dove lo raggiunse la chiamata alle armi. Nel 1917 lo Stato Maggiore dell’Esercito incaricò il Capitano Beviglia, che era stato insignito di due Croci al valore, di riorganizzare l’Amministrazione civile nelle Terre redente, in particolare della città di Gorizia di cui, alla conclusione della guerra, divenne il Segretario. Vi rimase dieci anni con la famiglia ricostituita nel frattempo. Per la sua eccezionale competenza nel campo amministrativo e tributario guadagnò la nomina a Segretario Generale di Venezia. In questa città, che per l’influenza politica del suo potente Podestà, il magnate Conte Volpi, era destinata a diventare uno dei fiori all’occhiello del Regime, esplose il genio professionale ed organizzativo del Dottor Beviglia. Nei quindici anni di permanenza contribuì alla realizzazione di opere grandiose, le quali, oltre a cambiare l’aspetto della città lagunare, la fecero ascendere al primo posto in Italia nel movimento turistico. Il collegamento stradale e ferroviario con la terra ferma, la ricostruzione del Teatro La Fenice, l’ideazione e la costruzione del Casinò municipale, del Palazzo del Cinema al Lido, della Biennale d’Arte e di tante altre opere. Nel frattempo il comune fece oculati acquisti di palazzi storici. La sua attenta gestione, che era riuscita a risanare il dissestato bilancio comunale, fu considerata di esempio dall’organizzazione di categoria e la sua persona diventò un costante riferimento dei comuni e dello stesso Ministero per la risoluzione di questioni intricate. Il Comune di Venezia, pertanto, venne considerato un modello di amministrazione ed il proprio Segretario non poteva non essere chiamato ad incarichi più importanti.
Nel 1942 venne preposto alla Direzione Generale dell’Istituto Nazionale per la Gestione delle Imposte di Consumo (I.N.G.I.C), al quale facevano capo oltre 2000 Gestioni. Il nuovo Direttore Centrale si dimostrò subito l’uomo ricco di tempra e di preparazione di cui l’organismo aveva bisogno. Purtroppo la guerra interferì pesantemente sul suo lavoro perché, per ordine ministeriale, l’Istituto dovette trasferire la sede centrale al Nord, a Treviglio. A quel punto il Grand’Ufficiale Dottor Beviglia, all’apice di una carriera ricca di onori e di soddisfazioni, avrebbe potuto benissimo chiedere il collocamento a riposo, ma, per la concezione del dovere, rimase alla guida dell’Ente per seguirne le sorti in quel burrascoso momento. Trascorse un periodo faticoso e irto di pericoli, dal quale uscì con l’ampia soddisfazione del ricongiungimento a Roma delle due Direzioni, che, non ostante tutto, avevano superato bene le avversità.
L’Istituto aveva ripreso a navigare sotto la guida salda ed esperta del suo timoniere, quando un pretestuoso ostacolo si parò sulla sua rotta.. Per l’acquisizione delle gestioni delle imposte dei comuni l’I.N.G.I.C. concorreva alla pari con le altre imprese del settore e talvolta accadeva che gli interessi, l’invidia e, non di meno, la politica, diventavano motivi di denuncie per presunte collusioni o slealtà commesse negli appalti. Le responsabilità ricadevano sui capi e, in particolare, sul Direttore Centrale, che si trovò coinvolto in una vicenda giudiziaria. Alla fine l’onestà e la dirittura morale del Dottor Beviglia fecero sì che la sua figura ne uscisse senza una minima ombra e in quella occasione sentì la solidarietà, l’amicizia, la stima dei suoi innumerevoli collaboratori ed estimatori e l’affetto delle persone care. Fu un’amara esperienza su cui subito trovò la forza e lo spirito di celiare come era nel suo carattere.
Era ormai settantenne, se pure ancora di aspetto e di spirito giovanile, era quindi giunto il momento di lasciare, di vivere finalmente senza l’assillo del lavoro e delle grandi responsabilità di cui era stato oberato. Desiderava poter trascorrere più tempo del solito a Borrello, ospite benvoluto della sorella Elena, non disponendo più della sua bella casa distrutta dagli eventi bellici. Egli amava il paese natale e voleva rivivere il lungo tempo che ne era rimasto lontano, i ricordi della fanciullezza che aveva dovuto interrompere.
Durante la sua lunga permanenza lontano da Borrello non vi fu estate in cui non vi avesse fatto ritorno. “Don Americo”, come tutti lo chiamavano, sentiva il suo richiamo, forte come quello della madre e dei familiari, e la gentile Donna Giulia lo aveva assecondato in pieno, senza parlare dei figli Nino e Mario. La casa paterna accoglieva anche le famiglie dei due fratelli medici e per un mese regnava in essa allegria e spensieratezza, che facevano la felicità della vecchia padrona. Tornavano anche i numerosi cugini e gli altri galantuomini per trascorrere una parentesi di distensione, un breve lasso di vita semplice: il giornale, la passeggiata, gli incontri e le lunghe chiacchierate con amici e la gente comune, qualche visita e l’intrattenimento serale presso lo zio Riccardo per l’immancabile partita a carte. Giungevano anche molti amici da fuori a fargli visita e, spesso, per sentire il suo parere su questioni amministrative. Ma, Borrello e la sua gente egli li aveva avuti nel cuore ovunque si trovasse e stravedeva quando qualcuno passava a salutarlo considerandolo un legame con la terra di origine. A Venezia una volta un gruppo di minatori che faceva ritorno in Istria bussò alla sua porta, non senza un certo timore reverenziale, ma lui, che se li trovò davanti, esultò di felicità e li intrattenne a lungo come se fossero dei suoi parenti. Don Americo era fatto così, dimostrava la sua affabilità alla stessa maniera, che fossero uomini importanti o comuni.
Negli ultimi anni della sua esistenza quando qualche amico borrellano di passaggio gli telefonava manifestandogli rincrescimento per non poter andare a salutarlo, andava ad incontrarlo alla stazione Termini, dove passeggiando a lungo gioiva delle notizie del paese. Era una delle forme con cui manifestava il proprio attaccamento alla sua gente.
Don Americo tornò a Borrello fino alla morte avvenuta il 16 luglio del 1967. Ancora d’estate compì il suo ultimo viaggio per godere il riposo eterno nel suo Cimitero tra le tante persone care che lo avevano preceduto.
DIOMEDE SIMONETTI
Diomede Simonetti nacque a Borrello il 18 agosto 1891 da Tommaso e Maria Rossetti, terzogenito di una nidiata di figli, tre dei quali maschi. Il padre, agronomo, fu prima insegnante all’Istituto Tecnico Agrario di Scerni, e poi preside in quello di Cerignola. Il richiamo del paese e della bella casa avita facevano sì che la famiglia vi tornasse ogni anno per trascorrervi l’estate. Giungevano con una grossa carrozza “…dai cui finestrini sporgeva una “morra di cuccetelle” (testoline)…” così come ha scritto il nipote Cleto in uno dei suoi mirabili “Ricordi” . Un’abitudine conservata dai figli fino alla morte del capofamiglia, avvenuta in quella fatale notte di domenica 25 luglio 1943 che fu il preludio della distruzione del paese.
A 24 anni conseguì la laurea in giurisprudenza e subito dopo l’abilitazione ad esercitare la professione nonché le funzioni di Segretario nelle amministrazioni delle province e dei comuni. Intanto, la guerra incombeva e venne chiamato alle armi. Terminato il corso Allievi Ufficiali, con la nomina a Sottotenente di Artiglieria - batterie a cavallo -, venne spedito al fronte. Combattè valorosamente, ferito durante la ritirata di Caporetto, fu insignito di tre Croci al merito e congedato con il grado di Tenente. La dura esperienza gli valse per la formazione della sua personalità basata sull’ordine, sulla disciplina, sul rispetto degli altri e della gerarchia. Ne derivarono anche l’attaccamento alle istituzioni militari ed il rispetto delle stesse. Caratteristiche che trasferì, insieme all’entusiasmo ed alle capacità, nell’ambito della Pubblica Amministrazione quando decise di intraprendere la carriera di Funzionario dello Stato.
Fu Segretario di prima nomina, nel 1923-24, nei comuni di Barbara e Ostra Vetere dove conobbe la gentile signorina che doveva diventare la sua consorte. Quindi fu Segretario Capo, dal 1925 al 1927, del comune di Senigallia e poi di Loreto dal 1928 al 1929. Raccontava che nel ’29 venne attivata una linea aerea per passeggeri Loreto-Venezia e al volo inaugurale fu invitato insieme al cugino, Dott. Americo Beviglia, segretario della Città lagunare. Ma lui declinò l’invito ricordandosi che da militare rifiutò di partecipare ad un corso di pilota a causa dell’impressione subita da un incidente occorso all’aereo su cui doveva salire. Il Podestà di Venezia, il Conte Volpi, incontrandolo successivamente se ne rammaricò, ma non potette fare a meno di dirgli che il viaggio presentò notevoli difficoltà.
Nel 1930 il Dott. Simonetti vinse il concorso di Vice Segretario Generale di Ancona dove rimase fino al 1936, anno in cui fu incaricato dal Ministero degli Interni di reggere il comune di Terni. Contemporaneamente vinse il concorso indetto per lo stesso comune e per quelli di Forlì e di Macerata. Scelse quest’ultima città per motivi familiari.
Nel 1938-39 venne nominato Commissario Prefettizio ad acta di Civitanova con il preciso incarico di unificare i due comuni di Civitanova Porto e Civitanova Alta nell’unico comune di Civitanova Marche. A testimonianza della stima, della simpatia e dei consensi generali, e direi del ricordo duraturo della sua straordinaria personalità, quel Comune, con deliberazione del 22 marzo 2005, gli ha voluto intitolare una strada. Una riconoscenza onorifica tributata a così grande distanza di tempo dice tutto del Dott. Diomede Simonetti, che lo qualifica come un vero personaggio della Pubblica Amministrazione.
Prestò servizio ininterrottamente a Macerata dal 1937 al 1957, amato e stimato da tutti per il suo alto grado di preparazione, dignità professionale ed umiltà, superando le difficoltà del periodo fascista e della dominazione tedesca durante la quale riuscì a salvare gli archivi, la biblioteca ed il ricco patrimonio mobiliare del Comune.
Nel corso degli ultimi anni di attività rifiutò di ricoprire incarichi e funzioni di elevatissimo grado gerarchico offertigli dal Ministero degli Interni (Prefetto di Bologna, Piacenza e funzioni in altre sedi del Nord). Sempre per quel senso di umiltà e per rimanere legato allo svolgimento della sua funzione primaria ed alla famiglia, declinò anche l’invito della Facoltà di Giurisprudenza della Università di Macerata a svolgere lezioni di Diritto amministrativo ai corsi di specializzazione. Per la profonda conoscenza di detta disciplina avvocati di grido ricorrevano a lui per chiarimenti e suggerimenti quando si trovavano di fronte a casi complessi.
Oltre alla particolare intelligenza ed alle elevate qualità professionali, il Dottor Simonetti possedeva eccezionali doti di umanità, cordialità, signorilità e simpatia che manifestava nei rapporti con chiunque, ma anche fermezza e determinazione nell’espletamento del suo ufficio, il classico comportamento del funzionario vecchio stampo. Per questa sua personalità così ricca sotto ogni profilo, fu amato da quanti ebbero rapporti con lui e fu insignito dei titoli di “Cavaliere al merito del Regno d’Italia” e di “Cavaliere Ufficiale al merito della Repubblica Italiana”.
A Borrello trascorse sempre una parte delle sue ferie, anche dopo la guerra, ospite della sorella e del cognato medico condotto. Di solito il periodo di riposo coincideva con quello del cugino Americo e degli altri familiari; si ricomponeva, così, la fragorosa brigata che dedicava ore ed ore alla conversazione fuori al fresco e presso i parenti, alle lunghe passeggiate ed alla partita a carte. I ricordi del passato tenevano maggiormente banco, fatti ed episodi della nostra storia locale, alcuni dei quali sconosciuti e quasi tutti arricchiti di particolari inediti. Una fonte alla quale possiamo attingere e di cui siamo loro grati. Ma commentavano anche gli avvenimenti e le notizie dei quotidiani, la vita del paese che stava risorgendo con una ricostruzione che si allargava sempre di più nelle nuove zone di espansione. “La Carenna” , arricchita di altri alberi e di verde, stava diventando un bellissimo giardino pubblico, adatto per le loro conversazioni alle quali partecipavano, oltre agli amici, anche gli amministratori che avevano sempre qualche questione da porre. Egli era soltanto “Don Diomede”, un vero signore benvoluto e rispettato per la semplicità e la cordialità che dimostrava con tutti, caratteristiche che si riscontravano anche negli altri componenti della famiglia, professionisti validissimi, che non avevano mai fatto pesare le loro origini.
In virtù dell’affetto che lo legava alla sua terra d’origine aveva espressa la volontà di essere sepolto nella tomba di Famiglia, al cospetto del Montalto e del Monte San Luca. Morì l’11 luglio 1957 e la raggiunse salutato dal profondo rimpianto dei numerosi estimatori e della popolazione della sua Città di adozione.
ORLANDO DI FIORE
Il più giovane della triade dei superburocrati borrellani, Orlando Di Fiore, nacque l’8 luglio 1899 da Michele e Ninetta Spagnuolo. Un ex emigrato lui, ostetrica condotta lei, figlia di un genitore estroverso che aveva esercitato molte attività, tra le quali anche quella di esattore comunale. Era sorella di un prete, emerito professore di lettere nei licei, e di un valente insegnante elementare. Furono questi congiunti a consigliare i due coniugi di avviare allo studio Orlando ed il fratello più piccolo Cesarino, che si laurearono rispettivamente in legge ed in medicina. Il giovane medico, purtroppo, morì appena laureato vittima di contagio da malattia infettiva contratta nel Policlinico di Napoli durante il praticantato. La gravissima perdita sprofondò la famiglia in un immenso dolore ed incise molto sul carattere del primogenito. Egli trovò conforto nello studio intenso conseguendo l’abilitazione all’esercizio dell’avvocatura ed il superamento del concorso al Ministero delle Finanze con la nomina a Procuratore delle Imposte di Registro. Ufficio che sovrintendeva, oltreché alle tasse sulla registrazione degli atti civili e dei contratti, anche a tutte le altre tasse e imposte indirette.
La sede del primo Ufficio del Dottor Di Fiore fu la cittadina di Brunico, in provincia di Bolzano, molto lontana dal suo amato Abruzzo. Raccontava di sentirsi uno straniero, in un mondo diverso e con uno stipendio che gli permetteva appena di vivere. Si divise tra il lavoro ed uno studio massacrante che gli fece vincere, dopo qualche tempo, il concorso indetto dal proprio Ministero presso la Direzione Generale delle Tasse e Imposte Indirette sugli Affari. Indubbiamente, raggiungendo Roma, compì un notevole salto di categoria.
Dotato di una intelligenza non comune, di un incredibile senso pratico e, ormai, di un ricco bagaglio professionale, il giovane funzionario diede impulso e regolamentazione ferrea ad una nuova imposta sui consumi e sui trasferimenti a titolo oneroso, sostitutiva della tassa sugli scambi non più al passo coi tempi. La legge 19 giugno 1940, n.762, istituiva la famosa I.G.E., cioè l’Imposta Generale sull’Entrata, ed allargava la base imponibile con forme di tassazione più elastiche e moderne, colpendo l’entrata. Con l’accortezza, la tenacia e l’acutezza del Dottor Di Fiore, costituì presto la spina dorsale della imposizione indiretta. Dimostrò grande capacità non solo nella ricerca della maggiore economicità nella riscossione del tributo da parte dell’Amministrazione Finanziaria, ma anche della maggiore facilità e scorrevolezza per i soggetti d’imposta. La condotta del Dottor Di Fiore manifestava la serietà del ligio funzionario dello Stato, disposta soltanto a concessioni comunque convenienti per il Fisco.
Il primo bombardamento di Roma, avvenuto nel mese di luglio del 1943, divise il Dottor Di Fiore dalla famiglia che aveva fatta rifugiare a Borrello. Una scelta dimostratasi disastrosa alla luce della tragedia che si abbatté sul paese in cui rimasero invischiati anche numerosi altri sfollati. Ne soffrirono le conseguenze fino a giugno del 1944 in cui avvenne la liberazione contemporanea del territorio medio-alto del Sangro e di Roma. Anche la sua bella casa venne distrutta ma, dall’alto della sua carica, nel Ministero che insieme a quello dei Lavori Pubblici soprintendeva alla ricostruzione della nazione, egli potette dare soltanto dei buoni consigli. Ricordo l’impeccabile stesura del ricorso che fece con la collaborazione di mio padre, per la parte tecnica, avverso al rimborso della spesa sostenuta dallo Stato per la ricostruzione diretta di molti fabbricati, compreso il proprio. Si sosteneva che il pagamento fosse indebito in quanto i materiali impiegati, la maggior parte di recupero e di qualità scadente, avevano compromesso le strutture al punto che, già qualche anno dopo, fu necessario eseguire costosi lavori di consolidamento e di ristrutturazione dei fabbricati. Una battaglia sostenuta dai sinistrati invano per decenni, che sortì soltanto il beneficio della svalutazione delle somme dovute.
La carriera del Dottor Di Fiore registrava, intanto, prestigiosi successi. Con coraggio stabilì nei primi anni cinquanta, e questo è solo un esempio, che il passaggio dei giocatori di calcio da una squadra ad un’altra doveva essere assoggettato all’I.G.E., intendendosi l’operazione una normale cessione di beni. La risoluzione ministeriale, a sua firma, destò incredibile e comprensibile scalpore! Non per niente era noto come “Il Re dell’I.G.E.” . Le sue alte qualità ed il prestigio raggiunto gli valsero l’unico Ispettorato Generale delle Tasse e Imposte Indirette sugli Affari, un premio che in quel periodo non fu una cosa da poco.
Il Commendatore Di Fiore, di carattere schivo per natura e lontano dalla politica, aveva conseguito i prestigiosi traguardi della carriera solo in virtù della sua preparazione e delle ottime doti personali. Ma i tempi cambiavano, la Pubblica Amministrazione stava subendo profonde modifiche nel suo ordinamento, che sfociarono, addirittura, nell’inopportuna incentivazione del prepensionamento dei superburocrati. Le promozioni al vertice delle carriere avvenivano sempre più in virtù di compromessi politici e lui ebbe la convinzione, alle soglie della pensione, che la nomina a Direttore Generale sarebbe stata difficile. Forse, però, gli sarebbe bastato telefonare personalmente all’allora Ministro in carica che era un suo grande estimatore. Accettò così, come un compromesso, la più remunerativa carica di Conservatoria dei Registri Immobiliari della Capitale.
Dopo il pensionamento Don Orlando trascorse a Borrello, con la sua gentile consorte, lunghi periodi di riposo. Prolungò anche la durata della abituale passeggiata mattutina, che faceva quasi sempre da solo, arrivando al “fontanino” del ponte del Verde dove rimaneva seduto a lungo, anche sul greto del torrente. Godeva molto quando qualcuno si fermava a salutarlo e a parlare con i pastori che scendevano dal monte per l’abbeverata del bestiame. Raccontava con gusto che uno di essi, vedendolo per la prima volta, vestito alla buona e con il cappello di paglina calcato in testa, sotto il quale scendeva un fazzoletto che gli riparava il collo dai raggi del sole, gli chiese, scambiandolo per un collega, dove tenesse i suoi animali.
Al pomeriggio si recava al bar per il tressette e vi tornava spesso anche dopo cena, intrattenendosi a conversare al fresco. Gli amici qualche volta gli chiedevano di parlare di qualche episodio interessante della sua lunga carriera, degli uomini importanti che aveva conosciuto, che spesso, con i loro consulenti, diventavano al suo cospetto degli uomini normali. Egli li ascoltava, spiegava e, alla fine, specie quando si trattava di ricorsi, raramente modificava le determinazioni a cui era giunto durante l’istruttoria. Ma, si divertiva di più ad assistere alle chiassose “passatelle” dei giovani, molti dei quali amici dei figli, seguendo anche i loro scherzi vivaci arricchiti di colorite espressioni dialettali.
Don Orlando era rimasto un uomo normale, che non aveva mai fatto pesare la sua personalità. Amava Borrello, ricambiato della stima generale, dove aveva fatta costruire anche la sua ultima dimora in cui riposa dal 20 febbraio 1973.
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