La trappola
un racconto di
Cesare Palmieri
(tratto dalla raccolta "Racconti Sangritani")


1

Scendeva veloce attraverso il prato fiorito, leggera nelle movenze e nei pensieri, come se avesse ali ai piedi e levità nell’animo.
Affrontava la discesa, spiccando salti aerei fra distese di origano ed i macchioni gialli delle ginestre, che evitava con destrezza, come una campionessa di slalom. Da buona montanara avvezza a quel terreno scosceso, conosceva il modo per non scivolare: le veniva naturale, dopo il salto, piantare decisamente nel terreno infido i tacchi degli scarponcini e tenere le punte in alto per rendere sicuro l’atterraggio. Gonna ampia gonfiata dal vento, camicetta a fiori che lasciava intravedere un ballonzolare discreto del petto duro e verginale; portava fiorellini di campo tra i capelli corvini, raccolti dietro la nuca in una crocchia voluminosa.
- Attenta, N’Zina, in uno di questi giorni ti scapicollerai se non la smetti di correre in quella maniera! Ma cosa ti sta succedendo in questo periodo? Corri come una capra e con la testa sempre fra le nuvole! - le aveva detto la sua amica, vicina di casa, che da qualche giorno la stava osservando perplessa.
N’Zina non le diede retta, persa nei suoi sogni di diciottenne innamorata. Di cosa doveva preoccuparsi se poco prima aveva avuto, finalmente, il consenso del padre?
Nessun ostacolo si frapponeva, ormai, tra lei e Nicola, quel ragazzo venuto da B. un paese vicino a comprare la legna da suo padre. La prima volta l’aveva guardato (credendo di non essere vista da lui) mentre caricava la legna di quercia sul basto del suo mulo. Un giovane ben fatto, con la faccia onesta; ma non era tanto e solo l’aspetto fisico che l’aveva colpita, quanto la reazione del proprio corpo, pervaso da un languore che finora le era stato estraneo e le erano venute le gambe molli come fosse una convalescente. Anche lui l’aveva notata ed era rimasto di stucco davanti alla sua fuggevole apparizione; poi era andato via, salutando con un cenno del capo.
- Papà, chi era quel ragazzo che è venuto a prendere la legna?- disse N'Zina, con studiata indifferenza, mentre erano ancora a tavola.
- Ha detto di essere di B. Poiché tornava da Ateleta, dov’era andato per suoi affari, ripassando di qua ha pensato di non fare il viaggio di ritorno a vuoto ed ha approfittato per fare un carico di legna per il forno di suo padre. Un giovanotto assennato per la sua età! -
N’Zina avrebbe voluto chiedere ancora tante cose sul conto di quel giovane, ma non volle mettere in sospetto suo padre; perciò si accontentò di quello che era riuscita a sapere. Le cose si fanno un po’ alla volta, senza troppa precipitazione, pensò.
“Per essere bella è proprio bella!” pensava Nicola durante il suo viaggio di ritorno,
“chissà se è anche brava e di buon carattere!” Da quando era ripartito non aveva fatto altro che pensare a lei e quando giunse alla Fernesca aveva già deciso che sarebbe tornato presto per un altro carico.
- Siamo circondati dai boschi da tutti i lati e tu vuoi andar fuori a comprare la legna? - gli disse il padre un po’ per celia un po’ per convinzione - e poi il posto mi sembra abbastanza lontano -
- papà, hai visto ch’è tutta legna di quercia, che rende il doppio di quella solita di carpino nero, e poi non è affatto cara; già tagliata a misura di forno ed abbastanza secca. In quanto alla lontananza non è un problema: se parto al mattino presto, potrò essere di ritorno per mezzogiorno. - Il padre rimase sorpreso da quest’ultima affermazione.
- Se ti piace tanto alzarti presto perché non lo fai sempre, invece di obbligarmi tutte le mattine a sbatterti giù dal letto? Se dipendesse da te, tireresti volentieri mezzogiorno: cos’è questa bella novità?
- Domani no, perché ho l’allenamento per la partita di domenica, ma dopodomani vado sicuramente - disse Nicola, seguendo il filo dei propri pensieri e dando l’impressione di parlare più a se stesso che al padre, con una determinazione insolita per lui.
Il padre gli lanciò uno sguardo indagatore, poi pensò che suo figlio era quasi adulto: anch’egli, alla sua età, aveva la testa piena di grilli e fu comprensivo con lui.
- Il negoziante di legna è stato molto gentile con me; perciò, la prossima volta, vorrei portargli in omaggio un panello di pane. Sai, c’è il razionamento, i tempi sono duri ed il pane bianco può essere gradito da tutta la famiglia -
- Ah, conosci già tutta la famiglia? Non dirmi che questo negoziante ha anche delle figlie… non riuscirei proprio ad immaginarlo! - fece il padre, sornione.
- Io ne ho vista una sola! - gli scappò di bocca; poi si morse il labbro ed arrossì violentemente: ormai la frittata era fatta. Il padre sorrise dentro di sé: “ci sei cascato come un pollo.”
- Se proprio ti piace quella legna, fai come vuoi! - gli disse infine.


Al mattino di venerdì, Nicola, come si era ripromesso, s’era levato presto e, quando a B. si suonava il mattutino, egli si stava già dissetando alla fonte dei lamenti. Nonostante il fresco dell’ora, aveva la gola secca, emozionato al solo pensiero di rivederla.
“E se lei non c’è? Non sarà troppo presto? Stupido che sono, avrei potuto almeno darle qualche segnale che, in un modo o nell’altro sarei ritornato!”
Più pensava, più la sua gola tendeva al secco.
Nicola non conosceva abbastanza le donne, né la loro sagacia. N’Zina, già dal giorno prima presidiava l’area del magazzino e si aggirava tra le cataste di legna tutta speranzosa, anche se mostrava un’ aria indifferente. Aveva colto, dalla sua espressione, che il giovane l’aveva notata, anche per un solo attimo, e l’aveva poi visto com’era rimasto interdetto, quando l’aveva spiato attraverso i buchi della catasta.
Il suo arrivo nello spiazzo davanti al capannone non la soprese, anche se la rese oltremodo felice.
- Al tuo paese non si trova la legna? Perché vieni a prenderla da noi? - disse N’Zina, muovendo alcuni passi verso di lui. Audace e provocatoria. Nicola capì che quello era proprio il momento giusto e ribatté prontamente:
- la legna c’è, ma non ci sei tu –
N’Zina divenne rosso-porpora. Non si aspettava un attacco così diretto. Si guardarono negli occhi e Nicola si perse nelle misteriose profondità di lei attraverso quelle iridi dilatate.
Restarono muti, uno di fronte all’altra, sorpresi per l’importanza di ciò che era stato detto.
Ora l’imbarazzo li attanagliava e Nicola, per uscirne fuori, non trovò di meglio che aprire la bisaccia che pendeva dal basto della sua cavalcatura ed estrarne il pane confezionato da sua madre.
Lo porse a lei con un gesto antico, come se fosse un dio, consapevole della sacralità del dono, più ancora che della sua utilità pratica.
- Ve lo manda mia madre, perché le ho detto che siete gente simpatica –
N’Zina sgranò gli occhi di fronte alla bellezza di quel pane che splendeva fra le sue mani come il disco del sole e per la sorpresa di quel gesto così nobile, ma anche tanto naturale, con cui quel giovane la stava gratificando.
Prese il pane e corse subito in casa, senza dire una parola.
Tornarono in quattro: la madre, lei e le sue due sorelle più giovani. N’Zina glie le presentò. Sua madre era il ritratto di lei, ovviamente più matura; le sue sorelle erano anch’esse di una bellezza non comune: se N’Zina era nel massimo splendore di una rosa appena sbocciata, la seconda era ancora in bocciolo lì lì per aprirsi, ma prometteva di essere ancora più bella; la terza sembrava appena uscita dalla gemma di un ippocastano, una tenera fogliolina ancora circondata da bambagia. Quattro splendori di donna.
- Perché vi siete disturbati tanto? Proprio non dovevate! Come faccio ora a disobbligarmi? Sono tempi brutti, lo sapete, e se questa maledetta guerra durerà ancora per un po’ sarà sempre peggio! Intanto accomodatevi: mio marito non c’è ancora; ma tornerà fra poco! -
Sicché l’inesperto Nicola aveva fatto ciò che altri avrebbero impiegato mesi.
Nel tempo di dieci minuti aveva fatto la più fulminante dichiarazione d’amore che si ricordi, presentato un dono risultato gradito ed accettato, conosciuto i parenti di lei, ed ora stava seduto nella loro cucina a sorbirsi il “caffè”, come in quei tempi grami veniva chiamata la mistura di orzo e ceci tostati.
Un vero record per un timido!
Dal modo con cui l’ospite guardava N’Zina e ne era ricambiato, la madre capì subito che c’era qualcosa fra i due. “E brava N’Zina! Me l’hai fatta proprio sotto il naso! Ma come diavolo sei riuscita a combinare tutto in un paio di giorni? Aspetta che vada via questo giovanotto, poi farai i conti con me!”
Nicola stava chiacchierando del più e del meno con le donne e rispondeva alle loro domande sul suo paese, dove esse, da quando erano nate, non avevano mai messo piede. La conversazione fu interrotta dall’arrivo del padre e Nicola si alzò prontamente in piedi, quasi scusandosi per essere entrato in casa sua.
- La legna è piaciuta a mio padre e, se siete d’accordo, ne vorrei un altro carico -
- certo che sono d’accordo, questo è il mio mestiere! - Poi volse uno sguardo di velato rimprovero alla moglie, per l’imprudenza di aver fatto entrare in casa uno sconosciuto in presenza delle figlie. La moglie capì al volo e lo rassicurò prontamente: - questo bravo giovane si è scomodato con un omaggio per la nostra famiglia - e col gesto della mano gl’indicò quel pane dorato che campeggiava nel centro della tavola. - Oh, grazie, perché ti sei disturbato tanto? –
- Poca cosa – gli rispose Nicola – e poi è stata un’iniziativa di mia madre. Spero solo che non Vi offendiate; ma noi siamo abituati a fare le cose col cuore. –
“Questo ragazzo comincia proprio a piacermi: è una persona a modo ed ha una faccia onesta” pensò. Non c’era altro da dire. Nicola si alzò, salutò le donne ed uscì fuori, seguito dal capofamiglia. N’Zina uscì anch’essa e li seguì. Colse il momento giusto per avvicinarsi a Nicola e, mentre il padre pesava la legna dando loro le spalle, gli disse rapidamente e sottovoce - tornerai? -
- Ci puoi proprio contare, ormai non ti mollo più! -


N’Zina era rientrata in casa, e sua madre, che aveva già provveduto, con un pretesto, ad allontanare le altre due figlie, le si piantò davanti ed affrontò subito l’argomento che le stava a cuore.
- Senti, figlia mia, tu proprio non me la fai e non provarci nemmeno: io non ho niente contro quel giovane, ma che ne facciamo di Giovanni? Anche se non s’è mai dichiarato in modo esplicito, sappiamo tutti, tu, noi ed i genitori di lui che è lui il promesso. Vi conoscete da quando siete bambini, siete stati sempre insieme e non avete mai litigato; tutti, anche in paese, la ritengono la cosa più naturale di questo mondo. Aggiungi che tra le nostre famiglie abbiamo fatto sempre i progetti in questo senso. Ora non ti sembra di fare un affronto a tutti, compreso Giovanni che ha sempre mostrato attaccamento a te e protetta come una sorella? -
- E’ proprio questo il punto, mamma, per me è come un fratello, gli voglio bene anch’io, ma da qui a sposarlo ce ne corre davvero! Giovanni non mi dà emozioni! -
- Sfacciatella, liquidi così le nostre speranze ed i nostri progetti su di voi? Con un’uscita così banale!? Il matrimonio è fatto d’altro: rispetto, comprensione e condivisione e tu mi parli di emozioni! E poi che ne sai tu di emozioni, le hai provate? Mi vuoi spiegare come sono? -
- Mamma, le sto provando in questi giorni per Nicola, e mai per Giovanni. -
- Vuoi spiegarti meglio? -
- Mamma, ogni volta che lo vedo, ho lo stimolo di fare la pipì. -
La madre allibì. “Ma è proprio un difetto di famiglia!” E ricordò che anche a lei, quando vedeva il suo Andrea, succedeva la stessa cosa. Capiva ora, in modo chiaro, che sarebbe stata una battaglia dura e persa in partenza.
- Chi lo dice ora a tuo padre? -
- Glie lo dico io, ma tu devi darmi una mano. -
“Diavolo di una ragazza, riesce sempre ad avere la meglio con me. Sa che ho una debolezza per lei e ne approfitta: ora ha invertito le parti e, da giudice, mi sta trasformando in complice.” Un alibi per la sua cedevolezza; ma sapeva bene che sua figlia si stava giocando la propria vita, perciò aveva diritto di farlo in piena libertà. Ai buoni consigli, come mamma non poteva sottrarsi anzi ne era prodiga; ma poi si arriva sempre ad un punto in cui bisogna sapersi fermare, un punto oltre il quale si passa dall’amore alla negazione della libertà altrui. E lei non avrebbe mai osato o consentito ad altri di privare sua figlia di un bene tanto prezioso.
Forse… se la sua soglia di fermezza fosse stata più alta, il destino della sua famiglia sarebbe stato diverso. Forse. Chi può dirlo? Il mondo va come deve andare.
- Domani tuo padre ed io andremo a far legna alle Murelle: a mezzogiorno vieni su con la colazione e ne parliamo. -
Avevano parlato, alzata la voce, minacciato, moderato, pianto, menate le mapple, ragionato, convinto, sospirato, poi sorriso. Infine N’Zina aveva abbracciato i suoi ed ora correva a rotta di collo, giù per il prato scosceso, felice e leggera, ebbra di felicità.
Si sa che la felicità è uno stato di grazia che arriva quando meno te l’aspetti; ma la sua durata è breve, magari il tempo di metterti a cantare i primi versi di una canzone, improvvisamente, senza motivo; poi tutto torna normale.
E’ logico che sia così, perché una durata maggiore denunzierebbe uno stato di estraneità dal mondo, dalla realtà, dalla vita; solo un idiota può essere perennemente felice.
La felicità di N’Zina era durata per tutta la discesa su quel prato fiorito: ma quando arrivò a casa quello stato di grazia aveva già ceduto il passo alla speranza.
La speranza che la guerra finisse prima che il suo Nicola venisse chiamato a combattere; che la vita riprendesse il suo il suo ritmo naturale, senza odio, senza le morti, senza le violenze, senza quelle assurde privazioni che stavano trasformando la vita di tutti in un girone infernale. La speranza è ansia, fiducia che un sogno s’avveri; ma è anche timore che non sempre le cose possano andare come desideriamo.



2


La notizia che era stato firmato l’armistizio aveva scatenato un’euforia incontenibile per tutto il Paese. Pochi capirono che da quel momento si sarebbe cominciato davvero a ballare di brutto. N’Zina viveva in grande apprensione: era attanagliata da un’oscuro presentimento che le aveva tolto il sorriso.
Le prime avvisaglie le dettero quegli andirivieni continui di sidecar tedeschi che sfrecciavano per il paese, attraversato proprio dalla fondovalle sangrina; pochi giorni dopo passarono i camion militari, mezzi corazzati che trainavano cannoni.
Seguirono le razzie degli animali domestici, i manifesti minacciosi, la cattura degli uomini che non avevano avuto il tempo di nascondersi.
Nicola era venuto di notte nella loro casa, e li aveva avvisati che, per un po’ di tempo non si sarebbe fatto vedere perché troppo pericoloso. Non aveva ottemperato alle ingiunzioni di presentarsi al distretto e, come tutti i ragazzi della sua leva, si era dato alla macchia. Ripartì la notte stessa, tenendosi cautamente distante dalla strada rotabile.
Le cose precipitarono: i due paesi vennero rasi al suolo, prima del ritiro dei crukki sulla riva sinistra del Sangro. La gente si aggirava stremata fra le macerie in cerca di cibo e di qualche coperta per ripararsi durante la notte.
Nicola aveva avuto la sua casa distrutta e si era sistemato col padre e la madre in un locale sopra il forno. Scalpitava per sapere quale sorte avevano avuto N’Zina e la sua famiglia e, nonostante il padre avesse messo in atto tutta una tattica dilatoria e cercato di dissuaderlo dal fare quel viaggio pericoloso per via delle mine e dei cecchini, partì ugualmente.
Del paese di N’Zina non era rimasto più nulla: solo qualche cane randagio si aggirava fra quei mozziconi di muri ancora fumanti. Si aggirò come un automa, in cerca di un’anima viva alla quale chiedere informazioni. Trovò una vecchia vicino al cimitero e seppe da lei che la famiglia di N’Zina era stata vista vagare nel bosco delle Murelle; non avevano più casa, anche il magazzino della legna bruciato: probabilmente avevano trovato riparo in qualche grotta che si trovava da quelle parti. Le chiese come potesse fare per raggiungere quel luogo e la donna gl’indicò la direzione da prendere.
- Vai da quella parte e sali su per una buona mezz’ora: dopo aver attraversato la zona delle ginestre entra nel bosco che sta sopra. -
Il giovane partì senza indugi e quando ritenne di essere arrivato nel luogo indicato s’inoltrò nel bosco ed iniziò a chiamare ad alta voce. Si spostava in tutte le direzioni, non avendo alcun punto di riferimento e dopo qualche ora di quella ricerca senza esito la sua voce non era più una chiamata ma un’invocazione.
- N’Zina, N’Zina rispondi! Dove sei? Dove siete tutti? Perché non rispondete? -
Li trovò, che era pomeriggio inoltrato. Si abbracciarono tutti, presi da indicibile commozione. Nicola si guardò intorno e chiese dov’era il loro rifugio.
- Qua e là, da tutte le parti e da nessuna parte. Dormiamo all’addiaccio, stretti l’un l’altro per scaldarci, ma non ce la facciamo più.-
- Anche del mio paese è restato poco o nulla, ma ci sarà sempre una sistemazione migliore di questa. Noi abbiamo perso la casa, ma abbiamo ancora il pagliaio che non hanno bruciato, forse perché addossato alla Chiesa; lì c’è almeno la paglia per dormirci sopra e per ripararsi dal freddo: per il resto faremo come Dio vorrà. -
Sulle prime il padre di N’Zina, schivo per natura e per educazione, si mostrò reticente; ma la situazione della sua famiglia era talmente disperata da farsi convincere presto ad accettare l’offerta.
Arrivarono a B. verso sera. Era il trenta dicembre. Mangiarono qualcosa in quel rifugio di fortuna degli ospiti, ma preferirono recarsi subito al pagliaio per riposarsi dopo quella giornata faticosa. Gli ospiti li lasciarono andare anche perché era cominciato a nevicare a larghe falde ed avrebbero corso il rischio di non arrivare a destinazione. Nicola andò con loro. Si sistemarono sulla paglia ammucchiata su un soppalco della stalla. Padre, madre e figlie affiancati l’un l’altro; Nicola di traverso sulle teste di tutti. Una collocazione che evitava promiscuità sconvenienti, ma che gli permetteva di tenere la mano di N’Zina nella sua.



3


La neve era caduta in tale quantità che a mezzanotte aveva superato abbondantemente il metro; poi il tempo cambiò in peggio. Il cielo era squassato da lampi e tuoni, simili alle deflagrazioni del tritolo che l’esercito in ritiro aveva posto alla base delle fondamenta delle case. Il vento aveva cambiato direzione e natura: ora era la borea che si abbatteva come una valanga su quelle povere rovine. Se non incontra ostacoli la borea impazza in una danza di mulinelli ed improvvisi salti di direzione, accumula la neve in modo disordinato, costruisce dune dalle forme spettacolari, spiaccica la neve sui muri come fa un muratore con la malta. Se l’ostacolo è grande lo carica con sua forza distruttiva e cerca di abbatterlo.
E l’ostacolo lo trovò. Sembrava che l’attendesse, quel muro solitario alto tre piani, unico resto della casa di Addolorata, rimasto conficcato a terra come una lama di coltello e separato dal pagliaio di Nicola solo da una strettissima rua. In quella notte da tregenda sembrava una grande vela alla mercé di un tifone; ma priva dell’albero che la sorreggesse e delle sartie che la tenessero ben salda ai bordi.
La borea annusò quella vela come un toro infuriato, l’aggirò poi la caricò con tutta la sua forza e l’abbatté sul tetto che proteggeva quei sei sventurati. Infine, paga della sua impresa passò oltre, lasciandosi dietro, se ancora possibile, un paesaggio di rovina e di morte.
Aveva ripreso a nevicare e, a mattino inoltrato, le famiglie cominciarono a scuotersi sotto due metri di neve. Nessuno aveva voglia di uscire, ma alcune necessità elementari, come prendere l’acqua dal fontanino, spinsero qualcuno ad aprirsi un varco nella neve: operazione difficoltosa per la quantità caduta durante la notte. Era quasi mezzogiorno e la madre di Nicola cominciò a preoccuparsi.
- Perché non prendi una pala e vai loro incontro? - disse al marito - loro non hanno alcuna attrezzatura per la neve; solo quel mozzicone di pala del letame; e la neve è tanta – Il marito partì brontolando. Dopo molta fatica riuscì ad aprirsi un varco verso il pagliaio e solo a poche decine di metri si bloccò allibito. Non esistevano più né il pagliaio, né il muro di Addolorata, ma soltanto la distesa della neve.
Intuì quanto era accaduto ed emise un grido disperato.
La notizia si propagò con molta difficoltà ed altrettanta lentezza. Piano piano, alla spicciolata si formò una squadra di soccorso fatta prevalentemente dai parenti e da qualche coetaneo di Nicola. Le difficoltà erano enormi perché scarseggiavano le pale e il materiale da scavare era enorme: l’ultimo metro di neve caduto dopo l’abbattimento del muro, il materiale del muro stesso, il primo strato di neve, ormai compresso, infine il tetto con le sue travature ed i coppi schiacciati.
Si scavava freneticamente con qualsiasi attrezzo, ma prevalentemente a mani nude. Verso sera, la stanchezza, la fame e lo scoramento ebbero la meglio. Ormai si era fatto buio e faceva anche freddo: nessuno era più in grado di proseguire.
Che fare? I soccorritori si guardarono in faccia, ma nessuno aveva il coraggio di dire la verità. Alla spicciolata, alcuni si allontanarono scuotendo la testa in segno di resa, altri si accingevano ad imitarli. Il padre di Nicola s’inginocchiò e si prese la testa fra le mani.



4


Dopo venti ore dal crollo, all’interno della trappola un cuore batteva ancora, anche se debolmente. Il tempo era trascorso tra brevi momenti di coscienza ed altri di deliquio. La vita e la morte si contendevano N’Zina in un alternarsi il cui esito dipendeva ormai solo dalla rapidità della sua liberazione dalle macerie; ma i margini di tempo si stavano assottigliando.
Dopo alcune ore dal crollo N’Zina non era ancora cosciente di vivere: il dolore tardava a trovare un soggetto che lo percepisse. Poi, ad ogni risveglio N’Zina iniziò a diventare il soggetto di quel buio, della pressione fortissima sul suo corpo, dell’impossibilità di fare qualsiasi movimento, del senso di soffocamento, della sua solitudine. Col passare delle ore riuscì gradatamente a ricostruire la propria identità ed infine a capire di essere una sepolta viva.
La mano di Nicola aveva dei piccoli fremiti ma stringeva ancora la sua e le trasmetteva un po’ di calore e di conforto. “Dove sono mamma, papà e le mie sorelle?” Poi ancora l’ennesimo deliquio. Alla ventesima ora N’Zina si era risvegliata ed aveva completamente ripresa conoscenza ed il controllo pieno della realtà.
Quella mano ora era inerte e fredda. Ebbe paura. Il suo mondo stava definitivamente crollando: le sovvenne che mamma, papà e le sorelle non avevano mai dato segni di vita.
Si sentì sola e disperata e dal profondo del suo essere uscì un grido di terrore e di disperazione.
Il padre di Nicola lo percepì. Si fece più attento. Accostò istintivamente il suo orecchio su quelle macerie per accertarsi se non stesse impazzendo. Ora il grido si era trasformato in un lamento continuo anche se più flebile. Si rialzò di scatto e corse a richiamare gli ultimi soccorritori che si stavano già allontanando. Tutti tornarono indietro, ma dalle loro facce si leggeva solo scetticismo; poi il lamento fu percepito anche da loro.
La notizia questa volta corse rapida in tutto il paese e fu un accorrere di tanti. Alla luce delle lampade ad acetilene si riprese a scavare febbrilmente. Alla ventunesima ora fu estratto il primo corpo, purtroppo senza vita: era Tenera Fogliolina d’ippocastano, la piccola dal carattere mite. Il secondo fu quello di Bocciolo di Rosa, la bella sognatrice. Ora che il lamento si sentiva più vicino si poté meglio localizzarne la posizione: gli sforzi si concentrarono su quel punto.
Alla ventiduesima ora il corpo di N’Zina, martoriato ma vivo, fu estratto e, avvolto in alcune coperte, fu portato immediatamente sopra il forno di Nicola.
Lo scavo si fece più frenetico; ma il risultato fu quello di estrarre altri tre corpi senza vita.
I cinque erano stati portati nella chiesa vicina ed ammucchiati disordinatamente sui gradini dell’altare di san Rocco. Quei corpi seminudi e scomposti mostravano vistosi ematomi: solo una nuca mostrava un grosso grumo di sangue rappreso.
Così li vide un ragazzo di undici anni che si era avvicinato all’altare.
- Questo ragazzo non può stare qui - disse qualcuno, e fu prontamente allontanato.


fine


Pescara, 12 maggio 2015


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