La Terra dei Poveri
(tratto dal libro “La Terra dei Poveri: la piccola proprietà terriera a Borrello
in Abruzzo 1798-1868” - pubblicato nell'anno 2009)

di Angelo Ferrari

La Terra del Feudo di Pilo e San Martino
Per scaricare la versione originale di questo capitolo corredata delle tavole dei frazionamenti demaniali e di altre illustrazioni cliccare qui. (Il documento è in formato "pdf" ed ha una dimensione di circa 900 KB)

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La storia del Feudo di Pilo risale alla fine del 1200 quando sulla cima dell’attuale Colle San Matteo, allora noto con il nome di San Martino, venne costruito un piccolo eremo dedicato appunto a San Martino. Fu il primo nucleo di aggregazione di un piccolo borgo agricolo che si sviluppò negli anni seguenti divenendo un piccolo centro fortificato munito di una torre di avvistamento che controllava tutt’intorno la vallata sottostante e le varie strade che l’attraversavano.
Una delle motivazioni che indussero alla fondazione del borgo di Pilo fu la necessità, per pastori e agricoltori, di risiedere presso i terreni che venivano coltivati o utilizzati per il pascolo, fondi valorizzati dalla presenza delle preziose acque del Lago di Pilo, una risorsa sufficiente a fornire un approvvigionamento idrico per tutta l’estate.


Il Colle San Matteo

In passato questo feudo fu assegnato a diversi feudatari, tra i quali Sordello da Goito che non appena lo vide lo barattò subito con Palena, un feudo a suo dire meno selvaggio. Una storia popolare tramanda che il sito venne abbandonato a causa di un evento singolare, la leggenda narra che questo piccolo borgo cedette in seguito alla erosione sotterranea causata dall’azione delle formiche, ma in realtà questa diceria, che si riferiva a diversi centri della valle del Sangro i quali nel corso dei secoli erano stati evacuati a causa di fenomeni franosi, non poteva essere collegata con l’abitato di Pilo che invece sorgeva su un terreno roccioso. Molto probabilmente una delle cause che dettero l’avvio al degrado di Pilo andrebbe ricercata negli effetti disastrosi del terremoto del 1456 che nell’arco di circa cinquanta anni portarono al completo abbandono del borgo fortificato.
All’inizio dell’’800 il Feudo di Pilo possedeva una estensione di 460 tomoli dei quali però circa 330 risultavano incolti a causa delle particolari caratteristiche del terreno, infatti la parte coltivabile distribuita tra falsipiani, colline, valli e ripidi appezzamenti, era alternata a tratti scoscesi, fangosi, con pietre affioranti e pendii poco praticabili. In questa ultima parte del Feudo non essendo possibile impiantare colture di qualsiasi tipo che producessero profitto, erano cresciuti ampie e improduttive aree cespugliose che qua e là lasciavano limitato spazio a qualche quercia e a qualche rado cerro, solo vi era posto per qualche albero da frutta in prossimità degli appezzamenti coltivati. L’area adatta alla coltura invece si prestava alla semina dei cereali, in particolare grano, orzo e, a partire dalla seconda metà del ‘700, grano turco o grano d’India come veniva chiamato allora e da cui deriva l’attuale forma dialettale grandinje. I coloni di Borrello che gestivano in affitto le terre demaniali del Feudo di Pilo pagavano al Comune un canone annuo di 8 ducati per i frutti raccolti nella parte incolta, mentre per ciò che si riferiva all’area coltivabile veniva corrisposto, negli anni di semina, la mezza coverta del prodotto che di volta in volta veniva seminato e raccolto, ovviamente ai coloni andava la spettanza del quinto del raccolto.
La mezza coverta in generale prevedeva il pagamento di mezzo tomolo per tomolo di grano, o semenza, per ogni tomolo di terra seminato, mentre quando veniva seminata la lupinella si era esentati dal canone in quanto questo periodo veniva considerato di riposo e di rigenerazione del terreno.


I muri a secco denominati “macere”

Spesso i contadini, specie quando i contratti di affitto dei terreni erano di breve durata, non si preoccupavano molto di rispettare la natura del fondo per preservarne la fertilità e il loro atteggiamento tendeva a favorire i seminativi a scapito degli alberi da frutta e da legname in quanto per molti contratti vigeva l’uso in base al quale i frutti degli alberi spettavano al proprietario del terreno. Non tutti però si comportavano allo stesso modo, c’erano anche coloro che avevano cura del fondo loro concesso apportandovi migliorie come la costruzione di piccole case rurali, la realizzazione di macere, i muri a secco che oltre a delimitare i terreni sostenevano i terrazzamenti e i fondi delle strade interpoderali, lo scavo di piccoli canali per meglio gestire l’irrigazione dei terreni ed altri accorgimenti che influivano beneficamente sul rendimento agricolo. Tra i coloni volenterosi concessionari delle terre del demanio del Feudo di Pilo, che si adoperarono per modificare e migliorare i loro fondi e per i quali pagavano un canone annuo, sono da ricordare: Falco D’Orfeo che a Pilo teneva 2,2 tomoli di terreno adibito a vigneto e a prato, Giuseppe Tiberio concessionario di 30 tomoli sui quali aveva impiantato un esteso vigneto e aveva costruito anche una casa, Domenico Di Leonardo Di Fiore che coltivava un appezzamento esteso 2 tomoli, Carmine Di Giacomo Spagnuolo che sui 4 tomoli che aveva in affitto coltivava la sua vigna, Francesco Saverio Elisio che possedeva anche lui un vigneto su 2 tomoli di terra, Domenico Di Giambattista Di Luca il quale accudiva una vigna su 4 tomoli di territorio a lui concessa. Con il frazionamento dei terreni demaniali sorsero ovunque sul territorio del Comune piccoli casali di campagna, chiamati casini, che non raggiunsero mai, salvo qualche eccezione, dimensioni ragguardevoli. Nel corso di tutto l’’800 e fino alla prima metà del secolo successivo, le campagne intorno al paese videro il rapido diffondersi di questo tipo di costruzione ad architettura spontanea che, in diverse forme e in diverse tecniche di realizzazione, costituì un valido supporto all’attività agricola e questi manufatti ancora oggi potrebbero dare molto se restaurati e inseriti in un programma di fruizione del patrimonio rurale.


Un casino nelle campagne di Borrello


Il casino dell’Arciprete della fine dell’’800


Il tholos del Montalto ricostruito nel 1908

Uno dei pregi di gran parte della terra di Pilo era costituito dal clima e su questi fondi, situati ad una altitudine tra i 450 e i 650 metri, era possibile impiantare vigneti, anche di uva bianca, che nel corso della stagione giungeva agevolmente a maturazione. Differentemente le aree situate presso il centro abitato, come le contrade della Chiusa e delle Pareti, consentivano eccezionalmente la coltivazione della vite, con prevalente produzione di uva nera che produceva un vino veramente aspro. Vigneti di un certo interesse si riscontravano pure nelle contrade Colle delle Rocche, le Scosse, le Macchie e le Cese, quest’ultima chiamata anche Vignale.
Complessivamente tutti i terreni di questa zona che nel primo decennio dell’’800 erano stati oggetto da parte dei coloni di migliorie significative ammontavano a circa 45 tomoli e dato che le terre migliorate non potevano essere sottratte agli affittuari rimanevano liberi per una ulteriore assegnazione 85 tomoli di territorio.

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Nel corso degli anni ’30 dell’’800, esaminando la situazione dei fondi che venivano coltivati da diverse generazioni dai coloni di Borrello nella vallata di Pilo, ci si rese conto che complessivamente queste terre, per le quali da tempo immemorabile i contadini pagavano al Comune un canone in generi raccolti e in contante pari a 20 grana per ogni tomolo di terra sul quale era stato impiantato un vigneto e la mezza coverta per i terreni seminati a cereali, oltre ad essere coltivate erano adibite anche ad un’altra importante funzione collettiva. Su tutta l’area i cittadini esercitavano il diritto di pascolo, specie dopo il raccolto e talvolta tale diritto veniva esteso anche ai forestieri dei comuni limitrofi e questo diverso uso del territorio dimostrava che esso in realtà non apparteneva ai singoli agricoltori ma bensì al demanio del Comune.

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Il Casino di Panfilo

Tutti coloro che coltivavano le terre più fertili di Pilo e San Martino quando ebbero sentore delle decisioni che il Comune di Borrello stava per deliberare riguardo alle querce di questo demanio, il 3 luglio del 1838 redassero un reclamo per ribadire che essi lavoravano i fondi di Pilo da oltre cento anni e da altrettanti anni versavano al Comune la mezza coverta e di conseguenza anche la nettatura delle querce era un loro esclusivo diritto.
Il 18 luglio del 1838 nella riunione del decurionato di Borrello, alla presenza del signor Nicola Villa, Agente Demaniale delegato per il Comune di Borrello, venne deliberata la divisione tra i cittadini del demanio della Terra del Feudo di Pilo e San Martino e l’uso delle querce situate nel medesimo demanio, sia sulle terre coltivate che su quelle incolte. All’epoca buona parte di questi terreni, in particolare quelli considerati più fertili e più facilmente accessibili, era in effetti coltivata dai coloni da molti anni, nel corso dei quali vi avevano apportato numerose migliorie. Dati il clima e il terreno favorevoli, si era provveduto ad impiantarvi vigneti e frutteti, oltre ad un buon numero di ulivi, inoltre erano state edificate delle modeste case rurali caratterizzate da una interessante architettura spontanea e il tutto era stato delimitato e sostenuto con solidi muri a secco localmente chiamati macere. Per queste ragioni il Consiglio Comunale molto saggiamente decise che, essendo tali fondi già coltivati da molte famiglie povere del paese, era inutile procedere ad una assegnazione che a grandi linee avrebbe riproposto la situazione già di fatto esistente.
Tra le terre coltivate di Pilo vi erano anche 60 tomoli di terreno che, con le querce che su di essi crescevano, erano stati venduti illegalmente in quanto non ne erano proprietari, dai coloni di Borrello ai cittadini di Villa Santa Maria. Costoro si davano un gran da fare per abbattere gli alberi e in particolare le querce al fine di ricavarne legname da costruzione e da ardere.
Nella stessa assemblea del 18 luglio del ‘38 i Consiglieri Comunali decisero di dividere questi 60 tomoli tra le famiglie più bisognose di Borrello, sottraendole all’uso illegittimo dei Villesi per ristabilire l’ordine sociale in queste contrade che veniva periodicamente turbato ogni qualvolta si presentava il problema della riscossione delle tasse.

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I periti che furono incaricati dell’attuazione della delibera comunale, riguardo al demanio della Terra del Feudo di Pilo e San Martino, proposero di assegnare le singole quote innanzi tutto a quei contadini che già di fatto le coltivavano e di aggiungervi anche piccole parti di terreno incolto e improduttivo, che sino ad allora nessuno aveva voluto, con lo scopo di non lasciare nulla di indiviso in questo demanio: di qui il nome di Terre Aggiunte.

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L’ultimo reclamo per le Terre di Pilo e San Martino venne inoltrato in data 2 febbraio 1853 da Antonio Zocchi, Emanuele Di Luca e Domenico Torio e, anche se venne compilato in modo alquanto vago e impreciso nei riferimenti, sintetizzava in maniera chiara i sentimenti di tutti coloro, e non erano pochi, che si ritenevano trattati ingiustamente o comunque insoddisfatti da come erano state gestite le assegnazioni delle terre demaniali del Comune di Borrello. I tre cittadini denunciarono per l’ennesima volta le parzialità che l’amministrazione comunale, con la compiacenza più o meno palese dei vari delegati distrettuali e provinciali che si erano succeduti, aveva attuato riguardo alle assegnazioni delle terre demaniali e in particolare per quelle di Pilo. Erano state favorite innanzi tutto le famiglie dei capi del paese, con riferimenti ai membri che amministravano il Comune, poi le famiglie benestanti, le quali pur possedendo già terreni a sufficienza poterono acquisire gli appezzamenti migliori e più estesi dell’area demaniale, poi i parenti e gli amici e infine tutti gli altri.

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Finalmente dopo tanto protestare nel 1857 vennero incaricati di misurare nuovamente le terre demaniali di Pilo e San Martino e le Terre Aggiunte, con un compenso di 49,40 ducati, l’agrimensore forestiero Domenico Franceschelli di Castiglione e gli indicatori Annibale Simonetti e Tito Di Luca di Borrello, quindi il Cosigliere Provinciale principe Andrea Pignatelli Cerchiara poté essere delegato alle questioni sul demanio di Borrello e inviato sul posto. Il principe giunse a Borrello nella calura dell’estate del 1858, il giorno seguente al suo arrivo convocò il Consiglio Comunale, al quale espose il metodo che intendeva adottare per risolvere definitivamente la questione dei reclami relativi alle terre di Pilo e alle Terre Aggiunte, esaminò i risultati dell’agrimensore Franceschelli e fece gettare un bando pubblico per avvisare tutti i cittadini interessati ai reclami sulle assegnazioni demaniali di presentarsi in Comune per essere ascoltati e nei giorni seguenti li ricevette uno alla volta. Nel corso delle settimane successive il Pignatelli mise intelligentemente insieme un gruppo di lavoro che oltre a se stesso era composto da alcuni dei Consiglieri Comunali interessati, dall’agrimensore Franceschelli con i due indicatori nominati, come coadiutori dei periti nominò alcuni coloni che, nei vari reclami presentati, maggiormente si erano dichiarati insoddisfatti dalle precedenti assegnazioni, infine aveva chiamato anche alcuni dei cittadini maggiormente esperti di conoscenze agrarie e tra i più stimati del paese. Costoro accompagnarono il principe Pignatelli in ogni contrada di Pilo dove erano situati i fondi oggetto dei reclami e furono verificate tutte le misurazioni degli appezzamenti eseguite l’anno precedente. Fatto ciò, vennero sorteggiate alcune assegnazioni per le quali non vi erano state proteste e anche per queste vennero controllate le misurazioni già eseguite. Il risultato fu che i calcoli relativi alle quote di Pilo e San Martino si rivelarono esatti per la gran parte, anche se per alcune delle concessioni più antiche vi furono degli scostamenti che comunque non riguardavano i tenimenti oggetto di reclamo. Il saggio comportamento del Pignatelli riscosse l’approvazione del Consiglio Comunale, dei contadini assegnatari e persino degli oppositori.

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La relazione del Pignatelli unitamente alle richieste del Comune di Borrello dovette aspettare oltre un anno prima di essere esaminata dal Consiglio di Intendenza Provinciale, il quale in data 7 novembre 1859 approvò alcune norme riguardo alle quote demaniali di Pilo e San Martino. In particolare vennero definitivamente approvate le nuove misurazioni verificate dal Pignatelli e le intestazioni ai relativi coloni, inoltre, in seguito ai tanti reclami presentati sull’esosità del canone che il Comune aveva applicato sulle terre di Pilo e San Martino, gli assegnatari avevano ottenuto la sospensione del pagamento di un terzo della quota. Poi però fu stabilito che, essendo i calcoli risultati esatti, il canone andava pagato per intero e dopo il solito tira e molla per gli arretrati fu decurtato il 50% e successivamente venne del tutto condonato.

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Finalmente il 10 settembre 1861 il Consigliere della Gran Corte dei Conti Vincenzo De Thomasis, figlio di Giuseppe, emise l’ordinanza che, sotto la scritta Vittorio Emanuele II, per grazia di Dio e per volontà della Nazione, Re D’Italia, approvava lo stato delle terre del demanio di Pilo e San martino così come si trovava nel 1859 dopo il descritto sopralluogo del principe Pignatelli.

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Il 5 luglio 1862 a Torino il Ministro dell’Agricoltura rendeva esecutivo il decreto sulla distribuzione delle quote demaniali di Pilo e San Martino nel Comune di Borrello in Abruzzo Citra e ne indicava il canone pari a lire 984,62, mentre quello per le Terre Sparse di Pilo ammontava a lire 132,22 e la Prefettura dell’Abruzzo Citra rendeva esecutiva la sentenza sul territorio. Erano trascorsi sessanta anni dalla promulgazione della legge sull’eversione della feudalità.


Le terre di Borrello nella contesa tra il Comune e il Barone Mascitelli

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A Borrello l’abolizione della feudalità e la conseguente riforma terriera dovevano tenere conto di una situazione che si trascinava ormai da molti anni, attraverso un contenzioso che appariva di fatto inconciliabile. In particolare tra i motivi del contendere vi era un mulino di proprietà dell’Università, cioè del Comune di Borrello, situato sui terreni presso il fiume Sangro. In seguito alle Capitolazioni, gli accordi del 1621, era stato concesso in affitto al Feudatario Giovanni Antonio Maluccio il quale corrispondeva al Comune un canone annuale di 6 tomoli e 1/3 di grano. Ad essere più precisi il terreno in questione, che aveva una estensione di 18 moggia, apparteneva al beneficiato della chiesa di S. Lucia che a sua volta l’aveva concesso con un contratto enfiteutico al Comune di Borrello e solo allora l’amministrazione aveva provveduto a farvi costruire il mulino.

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in seguito nel 1743 fu istituito il Catasto della Terra di Borrello e le nuove interpretazioni e i recenti accordi tra i contendenti indicavano il Comune a pieno titolo proprietario del terreno indicato come Coste del Mulino.
Nei secoli passati i contadini di Borrello potevano macinare il grano presso tre mulini, dei quali uno era situato, come è stato appena detto, presso il corso del fiume Sangro ed era stato oggetto di liti e contese, mentre gli altri due erano situati lungo il Piano del Verde. Più precisamente uno si trovava presso il Ponte del Verde nel territorio attuale del comune di Rosello e l’altro circa un chilometro più a nord prima dei grandi salti della cascata, dove si notano ancora alcuni resti di un certo rilievo. Questi due mulini non potevano essere utilizzati con continuità nel corso degli anni in conseguenza delle consistenti variazioni della portata d’acqua del fiume Verde dal quale, mediante delle opere di captazione, veniva ricavata la forza motrice. La carenza d’acqua si faceva sentire soprattutto in estate quando maggiore era la necessità di far lavorare i mulini. Questa situazione venne superata già dal ‘600 con la costruzione del mulino sul fiume Sangro e con la realizzazione di una larga strada che da Borrello scendeva al fiume, ampia tanto da consentire il passaggio incrociato di muli e somari con i relativi carichi di grano e farina.


I resti del mulino al Piano del Verde

L’amministrazione comunale di Borrello inoltre rivendicava nella stessa località delle Coste del Mulino, in prossimità del fiume Sangro, 10 tomoli di territorio che il feudatario dell’epoca Giovanni Randisio Mascitelli aveva occupato per costruirvi una tintoria, una pinciara per la fabbricazione delle tegole dei tetti, una cartiera e una gualchiera per i panni. Quest’ultima attraverso la follatura consentiva di rendere i panni più resistenti e impermeabili per mezzo del lavoro di magli di legno azionati ad acqua. E ancora il Comune rivendicava dal barone un vasto terreno il quale in passato era sempre stato destinato a pascolo pubblico, cioè dei cittadini e talvolta anche dei forestieri, che il feudatario aveva recintato e da anni lo utilizzava come proprio fondo agricolo. Infine il Comune chiedeva la restituzione della terza parte del Feudo di Pilo pari a 300 tomoli di territorio che il barone nel corso degli anni aveva usurpato alla pubblica amministrazione.
Contrariamente alle pretese del Comune il barone Mascitelli, dal canto suo, sosteneva che l’amministrazione cittadina non possedeva la documentazione relativa al terreno prima destinato a pascolo e poi da egli stesso recintato, mentre relativamente alle rivendicazioni comunali su parte del territorio del Feudo di Pilo riteneva che si trattava di una porzione diversa da quella posseduta da egli stesso, avendola il barone acquistata dal marchese Benedetti, che a sua volta l’aveva acquistata dal fisco.


Gli edifici del mulino e della gualchiera presso il Sangro

Partendo da queste divergenti posizioni il giudice Pedicini stese il rapporto per la causa, che arrivò alla Suprema Corte Feudale sotto il regno di Gioacchino Napoleone Re di Napoli, tra il Comune di Borrello patrocinato dall’avvocato Paolo De¹ e l’ex feudatario Signor Giovanni Saverio Randisio Mascitelli patrocinato dall’avvocato Francesco Fumarola.

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Il 4 gennaio del 1810 la Suprema Commissione Feudale emise la sentenza relativa all’annosa causa tra il barone e il Comune per le diverse liti in corso, la quale fu firmata dai giudici di Napoli Martucci, Croce, Pedalini e dal cancelliere della Commissione Feudale G. De Marinis. Fu una sentenza che favoriva in modo chiaro la pubblica amministrazione del paese, d’altra parte non va dimenticato che la legge sull’eversione feudale aveva come scopo principale l’abolizione dei privilegi baronali, il rafforzamento delle municipalità locali e una più diffusa parcellizzazione del territorio del demanio a favore dei contadini. In conseguenza delle decisioni della Commissione Feudale al Comune di Civita Borrello vennero restituiti la proprietà del mulino presso il fiume Sangro e il possesso dei terreni oggetto delle capitolazioni del 1621 che, come è stato prima accennato, erano stati concessi dal Comune all’allora feudatario di Borrello Giovanni Antonio Maluccio e sui quali in seguito era stato edificato il mulino in questione.

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¹ Il cognome risulta praticamente illeggibile.


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