TESTIMONIANZA DI ANTONIO DE ANGELIS Lo scritto che segue, del caro amico Antonio De Angelis, più che una “Testimonianza” sul mio libro “Tornano le rondini – Memoria sulla ricostruzione in Abruzzo”, lo ritengo un atto di amore per Borrello. Una passione che nacque nel momento in cui scese dal “calesse” e che, dopo oltre 50 anni, è della stessa intensità, oserei dire uguale a quella di noi borrellani.
Ritengo, pertanto, di renderla nota a tutti. (Riccardo D'Auro)
Questo secondo lavoro di Riccardo D’Auro, (il primo: “IX Novembre 1943 - La distruzione di Borrello”), per il più diretto e consapevole vissuto, si segnala per la densità dei fatti narrati, la semplicità del linguaggio e i frequenti richiami a persone della cronaca locale e ad eventi e personaggi della storia e della cultura nazionali, di cui rende conto in una visione di insieme che va oltre lo scopo di descrivere la rinascita di un territorio particolarmente provato dalla guerra.
Ne esce, per così dire, un affresco a più tonalità e perciò, spesso, di grande godibilità per il lettore. Basta che si lasci trascinare dalla narrazione, ad immaginare quei luoghi e quella gente dalla parlata aspra e gentile, che hanno ispirato poeti come D’Annunzio, musicisti come Tosti, pittori come Francesco Paolo Michetti e che hanno prodotto eroi della Resistenza che richiama un tempo di rimembranze e dolori non ancora sopiti.
Lungo tutta la narrazione corre, senza che se ne avverta uno specifico intento, un filo che lega eventi e persone e riporta con immediatezza, non solo quanti come me che l’hanno in parte e da semplici spettatori vissuta, all’atmosfera di quel periodo colmo di tristezza ma denso di speranza e a condividerne le sensazioni.
Quel filo lega ricordi della guerra, le prime fatiche delle famiglie a puntellare le proprie case in attesa dei ritorni dalla prigionia e da altri destini, con la mai sopita solidarietà tra poveri, il bisogno accresciuto di fede attorno alle parrocchie diroccate, la ripresa della vita delle istituzioni locali e i primi vagiti di democrazia, le difficoltà delle aree di montagna a far giungere più in alto le grida dei bisogni, la generosità e l’impegno dei volenterosi, le prime voci dalla Capitale, le prime leggi della ricostruzione, e quando tutto sembrava finito, di nuovo quel dramma dell’emigrazione, mai esorcizzato in queste terre, prima oltre l’Atlantico e poi verso il nord, anche se con una rete più o meno protettiva di rapporti di amicizia o familiari.
I ricorrenti cenni autobiografici e di parentela costituiscono, a mio avviso, testimonianze da cui l’autore non poteva prescindere, senza lasciare in ombra qualcosa di essenziale nel quadro narrativo: suo nonno materno e suo padre, da costruttori quali erano, non erano rimasti estranei all’opera di ricostruzione nel paese e nella provincia di Chieti.
Ciò che può sembrare un neo nella narrazione, il ritornare qua e là ad eventi accaduti in un periodo precedente, è invece un modo per chiamarli a sostegno della comprensione dei fatti successivi e legarli così in una logica consequenziale. In ciò rivelando conoscenza di una moderna tecnica comunicativa.
Interessante al riguardo, il passaggio che collega il risveglio culturale degli anni cinquanta alla ricerca delle radici nell’ottocento e nel primo novecento in terra d’Abruzzo, letteratura, arte, ma anche sport e turismo. Non solo D’Annunzio, ma anche Fangio, il progettato circuito automobilistico Pizzoferrato - Gamberale e quell’estro di organizzazione del Commendatore Melocchi
Debbo confessare che via via che mi inoltravo nella prima rapida lettura di “ Tornano le rondini”, la macchina del tempo, la memoria, mi ha riportato in quei luoghi e mi ha fatto rivedere persone ( alcune di esse non ci sono più ) e risvegliato sentimenti che credevo perduti.
Ricordo nitidamente quell’estate del ’50. La corriera che da Castel di Sangro portava a Lanciano, mi lasciò al bivio di Borrello. La Giulia al calesse e compare Vincenzo a cassetta, mi vennero a prendere e via per i quattro chilometri di tornanti a salire fino al paese. A mezza costa, nel bosco ormai rinfoltito, mi venne segnalato, in alto, un gruppo di alte pietre ad architrave che, per i barbaglii di sole del pomeriggio d’estate mi comunicarono una sensazione di strana bellezza: la Porta dei Saraceni. Quegli stipiti alti nel fogliame, sormontati da una trave anch’essa di pietra, in bilico forse da millenni, qualcosa volevano dire al viaggiatore, ma che cosa ? Un semplice saluto, forse.
Ricordo la strada ghiaiosa segnata ai due lati da solchi di carriaggi e la nuvola di polvere che non accompagnava solo la corriera come uno strascico grigiastro, ma vi penetrava prendendone possesso e disturbando alquanto i viaggiatori. Era una strada, mi disse compare Vincenzo, come tante della zona distrutte dai tedeschi e ricostruite a furia di braccia e di sudore nel dopoguerra. E aggiunse: ” .…grazie all’impresa D’Auro e ai suoi lavoranti”.
Dopo i tornanti, la spianata e il paesino lindo, con case allineate ai bordi della via principale. A metà strada la chiesa di S. Antonio, più in là uno spiazzo arioso che stentava, per i radi alberelli ai lati, a farsi credere una piazza; in fondo sulla sinistra il palazzo del Comune e sul frontale, il monumento ai Caduti della guerra del ’15 -’18.
Quasi tutte le case e gli edifici pubblici ricostruiti, con solo qua e là qualche ferita che appariva fuori posto, dell’ultima e più feroce guerra. Tutt’intorno altri paesetti e boschi a chiudere il breve orizzonte.
Intorno ancora il senso della campagna antica di questa parte d’Abruzzo. Ancora campi di grano a distese per il pianoro e lungo il declivio, ancora suono di campanacci e belare di greggi, ancora feste della trebbia rinate dopo anni di paure, lutti e fatiche. Ma ancora incertezze e ricerca di nuovi orizzonti con l’ufficio postale come luogo di frequenti, ansiosi pellegrinaggi. Non era ancora il tempo dei viaggi della speranza verso le fabbriche del nord, ma quelli ben più dolorosi al di là dell’Atlantico. L’Argentina, il Paese che più si sentiva nei discorsi delle mogli, delle madri e dei giovani senza una prospettiva di lavoro nella propria terra. Dopo le fatiche della ricostruzione di ponti, viadotti, case, l’imbrigliamento di alvei di torrenti della valle del Sangro, la via amara della emigrazione.
Vidi e compresi fin da quella prima volta, che quel piccolo paese aveva vissuto una sua storia molto diversa da altri, ma che era rinato, deciso a non darla vinta alle ombre dolorose dei ricordi. Quella storia, di un paese distrutto e rinato, cercai di farmela raccontare. Vi tornai volentieri per molte estati, finendo quasi col sentirmi preso da un profondo senso di appartenenza non solo civica, ma sentimentale. Ed ora che ne sto, per vicende di vita, da parecchio tempo lontano, me ne resta nostalgico il ricordo.
Ci si può immaginare cosa provassi quando il mio amico Riccardo, mi confidò l’intenzione di scriverla, quella storia, prendendo spunto da preziosi appunti di suo padre, don Mario. Lo spronai a farlo e venne fuori il primo dei due volumi, che non trattò solo della triste sorte di Borrello, ma, anche di altri paesi della valle del Sangro. Se quello costituì l’omaggio alla sofferenza senza alternative della gente del suo e di altri paesi, il secondo, “Tornano le rondini”, può dirsi una testimonianza e un omaggio alla forza della volontà e alla tenacia di quelle genti, e alla loro capacità di scrollarsi di dosso, con un duro lavoro, quell’amara esperienza e aprirsi alla speranza.
Riccardo D’Auro è riuscito a darne una corale immagine di umanità e di senso della vita che fa sembrare solo un pretesto l’enorme sforzo, che pure emerge, della ricerca delle fonti circa i fatti salienti di quel periodo.
Sembra importante rilevare che le valutazioni espresse dall’autore su quei fatti via via narrati, non risentono di pregiudizi ideologici, e ciò è certamente un valore per chi si voglia cimentare nell’analisi di un tempo non ancora sufficientemente lontano. Il forte senso di appartenenza alla sua terra e alla sua gente, traspare, invece, in tutto il corso dell’opera.
Sarebbe bene consigliarne la lettura, non tanto alle persone più in là con gli anni, che certamente vi si ritroverebbero come in uno specchio, ma soprattutto ai giovani, che ne potrebbero ricavare elementi di riflessione, su eventi lontani e le ragioni che li determinarono. In buona sostanza, una umile lezione di etica per l’oggi e per il domani e di ciò saranno grati a Riccardo D’Auro che ha saputo dargliene l’occasione.
Pescara, 15 aprile 2003
Antonio De Angelis, per una testimonianza
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