Minaccia di scomparsa dei piccoli comuni montani


di Riccardo D'Auro


Lo spopolamento dei nostri comuni di montagna, che si registra da qualche decennio, lascia prevedere la loro possibile scomparsa entro breve tempo. Tra questi vi è Borrello, il mio paese, che vorrei sfuggisse alla sorte incombente. Sono uno dei pochi superstiti della distruzione e della conseguente rinascita che fu possibile per la straordinaria forza di volontà dei suoi abitanti. Si parlò di un miracolo, irripetibile nella malaugurata ipotesi di un evento calamitoso che sopravvenisse adesso che la popolazione è ridotta a qualche centinaio di abitanti.
La fine temuta venne più volte sfiorata nel passato a causa dell’emigrazione che dagli Anni ’70 del 1800 imperversò nel nostro territorio. A Borrello fu sempre scongiurata per la compensazione dovuta all’immigrazione di famiglie forestiere le quali rilevarono, a prezzo di realizzo, le proprietà degli emigrati di cui si erano disfatti per fare fronte alle spese del viaggio. I censimenti parlano chiaro: dal 1881 al 1901 il numero degli abitanti da 2057 scese a 1434 unità.
Un’altra sensibile diminuzione della popolazione ebbe inizio negli Anni ’10 del Novecento per la fuga all’estero delle classi giovani onde schivare la chiamata alle armi per lo scoppio della prima guerra mondiale. Fece seguito un buon numero di famigliari ed anche questa volta la popolazione fu integrata da numerosi arrivi. Alcuni coloni si insediarono nelle case di campagna dei maggiorenti del paese, degli artigiani rimpiazzarono validamente i colleghi espatriati e, inoltre, arrivarono una diecina di giovani leccesi che lavoravano alla costruzione della ferrovia Sangritana. Erano spaccapietre, in particolare addetti alla produzione della ingente quantità di breccia occorrente per la muratura e la massicciata stradale. Si insediarono in tutti i paesi della valle mettendo su altrettante famiglie. Casca qui a proposito un fatto straordinario che accadde durante lo scavo della galleria di San Martino, testimoniato da un certo Tiberine - soprannome dovuto alla sua stazza fisica - parente di Franco Tiberio. Si verificò il distacco dalla calotta di una sacca franosa in cui era in letargo una quantità di serpenti tale da riempire un carrello e che vennero orrendamente bruciati.
Alla fine del conflitto, fra i Caduti, i decessi dovuti alla epidemia di febbre spagnola, nonché a causa della riapertura dell’emigrazione per la grave crisi economica in atto, si determinò un altro calo consistente del numero dei residenti, che si attestò sulle 1200 unità. Numero che, a causa del blocco governativo, rimase stabile fino al secondo dopoguerra quando l’emigrazione riprese intensamente.
La precedenza venne data al ricongiungimento delle famiglie che erano rimaste per molti anni private delle rimesse necessarie, anche per la ricostruzione: un onere straordinario che molte donne sopportarono con enormi sacrifici. Oltre 200 persone lasciarono Borrello e si verificò nuovamente, sia pure in numero limitato, l’arrivo di famiglie forestiere che si integrarono perfettamente nella comunità.
L’esodo più consistente, diretto verso l’Argentina, comprese anche i 22 giovani che costituirono il gruppo dei “Cartai”, del quale fece parte il su citato Franco Tiberio, un minorenne, che ha arricchito di particolari interessanti il racconto riportato nel mio libro sull’emigrazione. 1

Egli ha raccontato che alla fine degli anni ’40 - inizio dei ’50, arrivò a Borrello un signore argentino oriundo, di nome Vittorio Di Fiore cugino di sua madre, che era venuto in Italia per acquistare il macchinario necessario per la produzione della carta, da installare in uno stabilimento costruito a Ringuelet, località vicina alla città di La Plata ubicata sull’estuario del fiume omonimo distante 60 chilometri dalla Capitale. Il giovane industriale arrivava dalla valle del Liri dove aveva visitato delle cartiere e per reclutare il personale specializzato da impiegare nella propria azienda. In paese si sparse subito la voce di questa possibile opportunità di lavoro realizzabile con la intermediazione di Don Leonzio Vitullo, un ex emigrante nonché padrino di battesimo di Vittorio. Fu difficile l’opera di convincimento perché i candidati non erano operai specializzati in quel tipo di lavoro, ma finalmente si convinsero perché loro fu spiegato che se avessero aderito avrebbero compiuto un’azione memorabile; essi sarebbero stati ricordati nel tempo come benefattori della patria e dei propri suoi genitori nel momento cruciale della rinascita del paese.
E il gruppo partì.
All’arrivo si aggiunsero ad essi altri compaesani che li avevano preceduti e la nutrita colonia raggiunse le 60 unità.
Franco continua il suo racconto aggiungendo che una sera, al termine del lavoro, arrivò un’auto di rappresentanza della polizia con un distinto signore in borghese oltre all’autista. Sedutosi al cospetto delle maestranze, questi cominciò a ridere dicendo, in perfetto dialetto borrellano, di essersi sbalordito profondamente, al punto di saltare sulla sedia, scorrendo il lungo elenco di compaesani che erano arrivati nella propria giurisdizione. Aggiunse di chiamarsi Giovanni Di Luca e di essere giunto da bambino coi genitori Pasquale e Rechilde Simonetti e che in famiglia anche i nipotini parlavano in dialetto, divertendosi un mondo quando il nonno ripeteva un certo detto paesano. Da quella sera ebbero fine i frequenti ed estenuanti controlli della polizia.
Purtroppo non passò molto tempo e la Nazione si avviò a vivere il periodo di maggiore tensione politica ed economica della sua storia. La giovane industria del Di Fiore ne risentì i riflessi negativi per cui la maggior parte del gruppo paesano, che era partito con tanto entusiasmo, riprese la via del ritorno in patria. Si concluse cosi, dopo quasi un secolo, l’emigrazione argentina, una terra in cui molti nostri conterranei avevano fatto fortuna.
Ma si era aperto un nuovo esodo verso le nazioni europee, in particolare, Belgio, Francia e Germania, che oltre alla ricostruzione, impiegarono i nostri lavoratori nelle grandi industrie.

I tempi sono ora cambiati radicalmente e di conseguenza le possibilità di vita che il paese allora offriva sono del tutto scomparse mentre la diminuzione della popolazione difficilmente si arresterà. A mio parere la sua sopravvivenza dovrebbe essere connessa all’aumento dell’occupazione giovanile basata sul turismo, cioè con la creazione di altre attività attinenti quelle attuali. Un progetto valido perché basato sull’eccezionale posizione naturale del paese che ha permesso il suo sviluppo, nel rispetto preciso delle norme urbanistiche, dalla metà del 1800 circa e continuato nel dopoguerra sulle vaste aree esistenti a Sud del suo territorio.
Tra le opere realizzate originariamente risaltano la comoda viabilità interna spaziosa ed alberata; la Fond’a balle con il lavatoio, un’opera architettonica di grande interesse, e la sistemazione generale ricca di pietra lavorata; la grande Piazza Risorgimento, trasformata in parte a giardino pubblico, sulla quale si erge imponente la roccaforte dei Borrello, sede del Comune, con il prospetto principale nel lato opposto dei giardini e nel cui largo antistante è posizionato il pregevole Monumento ai Caduti della Grande Guerra. Da qui si dipartono le due strade di accesso al centro storico, la prima delle quali immette nell’antica Piazza del Plebiscito, il centro del paese antico distrutto dalla guerra e in cui soltanto poche case sono state ricostruite. Nella sua vasta superficie, che si affaccia sulla valle, è sorto il Parco della Rimembranza con il Complesso Monumentale di San Egidio.
Una vasta gamma di beni che offre la possibilità di incrementare le attività turistiche esistenti: quella principale potrebbe essere una società addetta alla gestione delle case da adibire al soggiorno di famiglie in vacanza. Ad essi si aggiungono i beni ambientali del territorio frequentato da una moltitudine vasta di appassionati della natura, che potrebbero trovare un’assistenza qualificata per le escursioni. Oltre alla Riserva naturale e alle Cascate del Verde, a breve distanza dall’abitato trovasi infine la Porta dei Saraceni, una dolce altura a ridosso di alte balze - in dialetto le Valzere - sulle quali si erge un portale naturale formato da massi ciclopici. Un posto incantevole che si affaccia sulla valle del Sangro. Il panorama che si gode è eccezionale: la Maiella, i monti Pizi e del Parco Nazionale dai quali il fiume proviene. Sulla sinistra, a confine con il Molise, i boschi del Marsimone e del Montalto dove è allo studio una zona archeologica di forte interessere. Continuando con il vasto patrimonio boschivo, girando verso Est, dopo le cascate, il Verde scorre verso la confluenza con il Sangro. È questa una valle ricca anche di boschi privati confinanti con i tenimenti di Villa Santa Maria e di Giuliopoli. Eccellono i boschi di Pilo e dei colli San Giovanni e San Matteo dove si incontrano i resti di un antico paese che la leggenda vuole essere stato abbandonato per l’assalto delle formiche. Il tutto costituisce un vasto patrimonio naturale, servito in gran parte da strade rotabili e comode mulattiere comunali, nel quale si incontrano grandi e piccoli fabbricati rurali, casette e “casitti”, descritti e localizzati nel libro “I luoghi della macchia” elaborato da chi scrive e da Pietro Di Luca. Un insieme di beni di grande interesse turistico ed ambientale, purtroppo in disfacimento, ai quali è stata ridata vita soltanto nella frazione San Martino e resi abitabili a scopo turistico.

Un altro campo da considerare per l’occupazione potrebbe essere l’agricoltura biologica e l’impianto di frutteti, da praticare nelle contrade migliori, purtroppo invase dal bosco e minacciate dalle frane. Si pensi a quella gigantesca che interessa il versante Est, tra il Verde ed il Sangro, e che continua a sconvolgere terreni e boschi al punto di cancellare i confini e la strada comunale per San Martino. Si tratta di un grosso problema idraulico-forestale la cui competenza dovrebbe riguardare la Regione.
Un settore interessante, inoltre, potrebbe essere l’allevamento del bestiame, in particolare i cavalli da utilizzare anche per le cavalcate dei turisti.
Tutto questo darebbe vita alla ospitalità rurale.

Penso che la lunga disamina delle possibilità di vita di Borrello dovrebbe fare da preliminare di un incontro organizzato dal Comune per sentire il parere dei cittadini, dei giovani innanzitutto. Perché è inutile sentire il melanconico ritornello: “il paese è morto”, “non si incontra anima viva”, “le tasse sono gravose” …ecc. affermazioni, queste, che fanno male agli anziani, che hanno fatto tanto per realizzare e mantenere queste proprietà, alle quali non si attribuisce più il loro valore reale.
Pertanto, incontriamoci per discutere della sopravvivenza del nostro caro Paese.


Pescara, Maggio 2020


1 La speranza nell’Ignoto Pagine sull’emigrazione da Borrello verso il Nuovo Mondo – Sigraf Pescara 2006


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