LE CONSEGUENZE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE
SUL REGNO DI NAPOLI

(tratto da Borrello tra i vicini comuni della Val di Sangro di Eugenio Maranzano)

Verso la fine del 1700 la situazione politica stava di nuovo cambiando. L’intelligente e illuminato riformismo del primo periodo borbonico subì un brusco arresto. La proficua collaborazione tra la monarchia e la borghesia illuminata cominciò a rompersi.
I rivolgimenti causati dalla Rivoluzione francese si abbatterono anche sul Regno di Napoli. Nella guerra della Francia contro la Coalizione (la prima) costituita da Austria, Inghilterra e altri Stati europei, il Regno di Napoli, anche per l’influsso della Regina Maria Carolina, si alleò con l’Austria e l’Inghilterra.
Si fece, quindi, ricorso a una ulteriore stretta fiscale per sostenere la guerra.
Si incominciò con una tassa straordinaria di Relevio (successione); poi con una tassa sia sui beni pii ecclesiastici sia su quelli secolari, che erano esenti; poi ancora con un Donativo che fruttò un milione e quattrocentomila ducati.
Nel 1796, proclamata la guerra, si giunse a un’altra imposta straordinaria chiamata Decima, a larga base imponibile (il dieci per cento di tutto ciò che colpiva, e cioè: "tutti quei beni fondi e capitali che non fossero a pesi pubblici soggetti"). Inizialmente il gettito di questo nuovo tributo fu quasi di quattro milioni di ducati.
Alla fine, tra i provvedimenti di carattere finanziario più importanti fu fatta l’operazione Banchi, "sia togliendone -dice il Bianchini nell’opera già citata- il danaro depositato (dai privati e dallo stesso Governo), sia rilasciando fedi di credito per le quali niun deposito erasi fatto", con un conseguente, incredibile aumento della circolazione di moneta cartacea.
A questa operazione se ne aggiunse un’altra indubbiamente più disperata. Fu ordinato ai luoghi pii locali ed ecclesiastici, e "alle persone", di portare alla zecca per la conversione in moneta, tutti gli argenti e l’oro che avevano. Si faceva eccezione per gli arredi sacri e per gli oggetti di ornamento personale. Il capitale corrispondente fu... pagato con "carte bancali "e con l’assegnazione di partite di Arrendamenti, "alla ragione del cinque per cento".
Napoleone, intanto, aveva avuto il comando della spedizione in Italia. Nel 1796, erano trascorsi pochi mesi dall’invasione francese quando, già nel mese di giugno, Ferdinando IV fu costretto a dichiarare la neutralità e a ritirare dalla lotta il contingente che vi aveva impegnato.
Nel 1798, riprese le armi. Inviò verso Roma le proprie truppe contro i Francesi, occupando la città. Ma fu sconfitto dal Generale Championnet che, con il collega Duchesme, marciò poi alla volta di Napoli. Al Generale Duchesme, però, non tutto andò per il verso giusto. E proprio in Abruzzo.
Le idee vero- anche se represse, si diffondono egualmente. Ma la conoscenza, nel caso nostro, del nuovo spirito della Rivoluzione francese e degli Illuministi napoletani, non aleggiò certo tra le masse analfabete della nostra Regione (e non solo della nostra, ovviamente) e neanche, purtroppo, tra molti di coloro che sapevano leggere e scrivere. Da gran parte delle nostre popolazioni la Rivoluzione francese fu vista come il Diavolo venuto sulla terra. I Repubblicani di conseguenza, con i loro sentimenti liberali, come spiriti del male, rinnegati e assetati di sommosse, rivoluzioni e potere.
Come se non bastasse, con un Proclama dell’otto dicembre 1798, il Re, già fuggiasco verso la Sicilia, così si rivolgeva agli Abruzzesi (1): "Pensate che voi avete a difendere il proprio paese che la natura stessa difende con le vostre montagne, dove nessuna armata si è mai avanzata senza trovarvi il sepolcro. Pensate Abruzzesi, che voi nelle vostre Province siete settecento mille abitanti e che non dovete farvi soggiogare da qualche migliaio di nemici. Voi più di ogni altro avete dovuto vedere lo stato di miseria nel quale sono i Romani. L’inimico gli ha tolto tutto, niente gli resta che la propria disperazione, e la fiducia che hanno in Dio e in me. Coraggio, bravi Sanniti, coraggio paesani miei; armatevi, correte sotto i miei stendardi: unitevi sotto i capi militari, che sono nei luoghi più vicini a voi, accorrete con tutte le vostre armi, invocate Iddio, combattete e siate certi di vincere".
Ma chi erano questi capi militari? Non pochi erano veri e propri briganti; gli altri che briganti forse non erano, da tali si comportarono. Michele Pezza, soprannominato Fra Diavolo, è noto a tutti, così come è famoso Giuseppe Pronio di Introdacqua (un ex chierico che aveva buttato la tonaca alle ortiche). Questi furono tra i più audaci Capi-massa, ai quali furono attribuiti anche i più alti gradi dell’esercito.
Di essi il Re si servì per cercare di ostacolare con ferocia l’avanzata francese. E fu proprio Giuseppe Pronio che sostenne un audace e duro scontro con le truppe del Generale Duchesme nella gola di Castel di Sangro dove il Francese buscò un paio di ferite. Le Masse seguiranno ancora Fra Diavolo e Giambattista Rodio (politico ex-repubblicano passato ai Sanfedisti) nel 1806, ma in quell’anno stesso furono presi e giustiziati. Pronio, invece, sarà pure ucciso, ma... in privato.
Numerosi furono i centri ribelli ai Francesi: L’Aquila, Teramo (di cui era stato Preside il Capo-massa Rodio), Sulmona, Popoli, Guardiagrele, ecc..
Nella nostra provincia fu Guardiagrele il paese più avverso ai Francesi. Affrontò per questo la reazione del Generale Coutard forte di duemila uomini. La vendetta causò la morte di una quantità notevole di guardiesi, tra cui tredici ecclesiastici (tra questi capitò anche Benigno di San Prospero, di Guilmi, Arciprete di Villa Santa Maria, che era solo di passaggio). Al contrario, Chieti, Ortona, Lanciano, Orsogna, Vasto, e altri Comuni, li accolsero favorevolmente; e qualcuno con giubilo e festa.
Anche il Clero partecipò vivamente. Si era diviso però. Se da un lato diecine di Preti morirono per la causa borbonica, dall’altra altre diecine si sacrificarono per quella liberale. Da ricordare, poi, che, una volta propagatesi le nuove idee, quelle, per intenderci, cosiddette giacobine, furono anche i Preti a impadronirsene per primi (erano tra i pochi a saper leggere e scrivere ed erano i più anche poveri). Non di rado le predicarono dall’altare.
Dopo tre giorni di accaniti combattimenti, la plebe napoletana (i famosi Lazzari) fu vinta. Ma chi erano i Lazzari? Il loro nome era in ricordo, con le loro misere nudità, del Lazzaro del Vangelo. Si vuole che Michele ‘o Pazzo, un Lazzaro che, invece, passò poi ai Rivoluzionari (e per questo impiccato anche lui) una volta così disse ai figli che gli chiedevano con chi stavano i Lazzari: "I Lazzari stanno contro tutti quelli che vogliono mettere in discussione le cose, che le vogliono cambiare, sempre per la paura che tengono di perdere chi gli dà da mangiare e che, secondo loro, sono sempre quelli che stanno in alto". (2)
Si sbagliava Michele ‘o Pazzo? Forse no. Ed è importante tenere presente quanto disse ai figli. Serve a comprendere la ragione per cui forse le masse contadine, povere e analfabete, dei nostri paesi, pur non essendo costituite da Lazzari, si comportarono in modo altrettanto feroce. E non solo in quello stesso anno 1799, ma anche in seguito. A Borrello, per esempio, anche nel 1860 quando uccisero barbaramente il giovane avvocato Giuseppe Calvitti.
 
 
L’EFFIMERA REPUBBLICA PARTENOPEA NELLA PRIMA METÀ DEL 1799


 

Occupata Napoli dai Francesi il 13 gennaio 1799, il Generale Championnet vi creò un Governo provvisorio repubblicano, costituito da venticinque cittadini illustri.
Nacque così l’effimera e sfortunata Repubblica Partenopea che durò soltanto fino al 13 giugno successivo. Ma in un periodo pur tanto breve, la finanza non fece che peggiorare; e anche con una certa confusione.
Costituita la Guardia Civica, furono tassati coloro che non vi facevano parte. Fu presa anche la grave e insensata decisione di esentare le famiglie dei patrioti, che, invece, avrebbero dovuto dare l’esempio (3). Fu poi abolito il Testatico. Ma la situazione delle imposte era tale che i Comuni dovevano far pervenire all’Erario le stesse entrate di prima. Furono abolite anche alcune gabelle, tra cui quelle sul pesce e sulla farina. Mentre l’abolizione della gabella sul pesce ebbe l’effetto voluto, quella sulla farina suscitò soltanto sarcasmo. Diceva, infatti, il popolo che quella tassa era stata abolita quando ormai la farina non c’era più (apparve anche un cartello con la scritta: "S’è levata la gabella alla farina - Evviva Ferdinando e Carolina").
Al Governo non riuscì, per forza di cose, neanche a far funzionare le comunicazioni tra le varie Province. Tanto per fare un esempio: a Roccaraso le masnade di Giuseppe Pronio avevano posto un ferreo posto di blocco e tutto si fermava, quindi, a Castel di Sangro. Conseguenza fu che le Province ignoravano gli ordini della Capitale e questa ignorava ciò che avveniva nel resto della Nazione. (3)
Una delle leggi più importanti, attesa da secoli dal popolo, apparsa su IL MONITORE il 27 aprile del 1799, non fu pubblicata neanche in tutto il Dipartimento del Volturno; meno che meno, quindi, dalle nostre parti. Era la legge che aboliva "qualunque istituzione e qualificazione feudale, egualmente che tutti i diritti di qualunque natura potessero essere". Passava ai Comuni tutti i Demani feudali, lasciando, però, ai Baroni le altre terre (quelle non soggette agli usi civici) e altri immobili, come palazzi, ecc.. Si trattava di una legge di compromesso. Comunque, non vi fu tempo per la sua applicazione.
Pesantissima fu, con grande rammarico e delusione dei Rivoluzionari, la tassazione imposta dai Francesi. Nello stesso mese di gennaio il Generale Championnet stabilì una contribuzione di ben quindici milioni di ducati, di cui due milioni e mezzo a carico della città di Napoli, il resto a carico delle Province. E ciò senza dire delle altre spogliazioni messe in atto per il mantenimento delle truppe e senza dire delle razzie in grande stile delle opere d’arte in ogni angolo del paese. Che dire a quest’ultimo proposito? Napoleone è stato tante cose. Anche, non v’è dubbio, uno dei più grandi ladri che la Storia ricordi.
La Repubblica, pur guidata da tanti e onesti uomini illustri, fu vittima dell’inesperienza, del comportamento dei Francesi che agivano e pretendevano come fossero conquistatori, del loro allontanamento verso la guerra in Alta Italia, della pressione degli Inglesi, delle grandi masse al comando del Cardinale Ruffo. Mentre i rinforzi francesi per Napoleone risalivano la penisola, tornarono a furoreggiare i Capi-massa. Nella gola di Androdoco, per esempio, le masse attaccarono con incredibile violenza l’invasore in ritirata.
Un altro brigante, il più feroce, tra quelli semipoliticizzati, era stato Gaetano Mammone di Sora. Intorno al Garigliano, in poco tempo, aveva ucciso oltre trecentocinquanta persone. Tracannava anche sangue umano e a tavola beveva in un cranio. Per farne cessare le crudeltà era dovuto intervenire lo stesso Giambattista Rodio. Fu arrestato e rinchiuso nell’ormai famosa fossa di Castelnuovo di Napoli. Morì, forse suicida, in carcere.
 
 
LA SCONFITTA DEI REPUBBLICANI E LA FEROCE REAZIONE BORBONICA
BARBARIE INFINITE IN NOME DELLA SANTA FEDE
SANT’ANTONIO CONTRO SAN GENNARO
STUPRI E CANNIBALISMO


 

Giunse il mese di giugno, il sesto della Repubblica, e le masse sanguinarie comandate dal Cardinale Fabrizio Ruffo annientarono i patrioti nella battaglia del Ponte della Maddalena. Né mancò, per vincerli, l’intervento della flotta inglese al comando di Lord Nelson. A quelle masse, a quell’armata indescrivibile, il Cardinale e la coppia reale (anche se ancora lontana) ordinarono e autorizzarono una reazione che sfociò in immensa barbarie. E quelle masse avevano risalito la penisola in nome, paradossalmente, della Santa Fede e anche come Sanfediste le ricorda la Storia!
Una reazione, dice Benedetto Croce nella più che ripetuta STORIA DEL REGNO DI NAPOLI, a cui il Re: "dié mano contro tutti i Giacobini, vecchi e recenti: una reazione che forse non ha pari nella Storia, perché non mai come allora in Napoli si vide il Monarca mandare alla morte e agli ergastoli o scacciare dal paese prelati, gentiluomini, generali, ammiragli, letterati, scienziati, poeti, filosofi, giuristi, nobili, tutto il fiore intellettuale e morale del Paese, ecc.".
Come abbiamo visto, fu il 13 giugno il giorno della morte della Repubblica. Era, quindi, la festa di Sant’Antonio da Padova. La reazione ne approfittò per fare in modo che i Lazzari, in mezzo a tanto terrore, portassero stendardi di Sant’Antonio su alcuni dei quali il Santo era raffigurato mentre benediceva l’impiccagione dei Repubblicani. In altri la figura del Santo guidava le masnade del Cardinale Ruffo.
C’è da chiedersi: e San Gennaro? Il Santo napoletano, il cui sangue non si era sciolto secondo le aspettative, fu accusato di Giacobinismo, perciò sfiduciato e detronizzato. Al punto che in una stampa popolare si vedeva Sant’Antonio che lo picchiava, perché liberale repubblicano. (2)
Quel che fa ancora oggi impressione è la selvaggia ferocia con la quale il Re e in particolare la moglie Carolina si vendicarono. Si può dire che Napoli, nel corso della sua lunga storia, non sia stata molto fortunata con le Regine (eccetto forse con l’ultima: Maria Sofia, moglie di Franceschiello).
Maria Carolina era figlia di Maria Teresa d’Austria e sorella di Maria Antonietta Regina di Francia che aveva due anni meno di lei. Mentre la Regina francese, moglie di Luigi XVI, è stata assolta dai posteri che hanno ritenuto infondate le colpe attribuitele prima che la decapitassero, Carolina è ricordata come ribollente di sessualità, cattiva, crudele, feroce. Maria Carolina ebbe sedici figli come la madre Maria Teresa, e in ventiquattro anni soltanto. E ogni volta che si accorgeva di essere incinta, le scenate contro il marito si sprecavano. Anche in presenza della servitù e della Corte. Come se lei fosse estranea all’accaduto. Amò gli uomini. Ma non solo. Se la intese appassionatamente con la bella Lady Emma Harnilton, amante a sua volta, dell’Ammiraglio Nelson. E se la intendeva anche, ed era più che noto, con Lord Acton, l’avventuriero irlandese che proprio lei aveva messo a capo del Governo (al posto del grande Tanucci).
A questo proposito, ecco la strofe riportata da Domenico Scafoglio, autore di LAZZARI E GIACOBINI, nel capitolo dal titolo La Repubblica cantata dalla plebe:


"Scetete Maistà ch’è fatto iuorno
nun pensà chiù a’ caccia e a li figlioe.
Vide che fà Monzù con la Maestà!
Penza, ire ciuccio e mo sì ciervo..."
[omissis].


 
 

Si servì poi degli uni e degli altri per condurre a morte gli odiati Repubblicani.
È noto il tradimento dei patti sottoscritti dal Cardinale Ruffo con i patrioti (mezzi di trasporto per chi avrebbe scelto di emigrare in Francia; oblio del passato per chi avrebbe scelto di rimanere; salve comunque, le persone e le proprietà; ecc.)
Il famigerato "ripurgo", neologismo coniato dalla Regina per l’occasione, si abbatté, come già abbiamo ricordato, sul fior fiore dei migliori uomini di Napoli e del resto del Regno. Con "ripurgo", spiegò Maria Carolina alla sua diletta Lady Hamilton che non riusciva a capirne il significato, voglio dire "purgare due volte -purgo e ripurgo- per pulire a fondo le viscere di Napoli dai ribelli ". (2)
Il primo a essere vittima del tradimento dei patti sottoscritti col Cardinale Ruffo, fu il giovane Ammiraglio Caracciolo, impiccato su un pennone della nave-comando di Nelson; una vera macchia per l’onore militare inglese!
E caddero a diecine nel modo più crudele, compresa la letterata Eleonora Fonseca Pirnentel, fondatrice e direttrice del giornale IL MONITORE. Fu condotta alla forca senza gli indumenti intimi; ultima umiliazione. E ciò per fare in modo che la folla dei Lazzari e delle Lazzare, una volta penzolante dalla forca, la potessero guardare da sotto, gioiendone con lazzi scurrili. Dopo la seguirono Luisa San Felice e altri patrioti: da Mario Pagano a Domenico Cirillo; dal giovane Gennaro Serra, Duca di Cassano, a Ettore Carafa; da Michele Natale, Vescovo di Vico Equense, al Sacerdote Niccolò Pacifico; e tanti, tanti altri.
Anche Agnone (Is) perse allora un suo illustre figlio: il notaio Libero Serafini che fu giustiziato in Avellino. La città natale lo ricorda col monumento nella Piazza principale.
Una apposita Giunta di Stato lavorò indefessamente con processi-burla ultrarapidi. A parte le centinaia di altre persone massacrate, bruciate vive, stuprate (suore comprese), fatte a pezzi dai Lazzari scatenati che giunsero perfino al cannibalismo.
Tanto accadde per ordine della Regina e del Re, dal popolo soprannominato "Re Nasone". Un Re che se da un lato merita apprezzamento per quanto fece nel primo periodo del regno, dall’altro non può non essere esecrato e condannato per il modo in cui reagì contro i Repubblicani e per le debolezze e la grottesca condotta nella vita privata. Non era soltanto succubo della moglie. Gli piaceva vivere tra le sconcezze e gli piaceva travestirsi da pescivendolo o fruttivendolo e confondersi tra quelli veri; gli piacevano gli scherzi pesanti e le sguaiataggini e fare lazzi a non finire.
Famosa la scena raccontata, in una lettera alla madre, dal cognato Giuseppe d’Asburgo in visita alla sorella Carolina alla Corte di Napoli. Il Re aveva invitato lui e altri signori a tenergli compagnia. Trovò il cognato seduto sul trono con i pantaloni calati mentre faceva senza scomporsi i propri bisogni, con intorno servi e ciambellani. Fecero una lunga conversazione. Ma a un certo punto i presenti non poterono più resistere ai suoi naturali, puzzolenti effluvi. Per giunta, il Re volle descrivere il prodotto dei suoi sforzi addirittura mostrandolo con regale indecenza agli astanti. In particolare a due... terrorizzati signori della Corte che rincorreva alla meglio, con i pantaloni abbassati e il pitale in mano. (2)


(1) Cfr. B. Costantini in I MOTI D’ABRUZZO, DAL 1798 AL 1860 E IL CLERO.

(2) Cfr. M.A. Macciocchi in CARA ELEONORA.

(3) Cfr. V. Cuoco in SAGGIO STORICO SULLA RIVOLUZIONE NAPOLETANA DEL 1799.


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