LA REAZIONE DELLE MASSE NELLA NOSTRA VALLE NEL 1799
Due esempi: Casoli e Altino - il Massacro di Cinque Borrellani ad Altino

(tratto da Borrello tra i vicini comuni della Val di Sangro di Eugenio Maranzano)

Alla fine del 1798 e all’inizio del 1799 i nostri Comuni si trovarono in un vero caos: l’invasione francese da una parte, le masse di Pronio, dall’altra, per contrastarla furiosamente. Nella gola di Castel di Sangro, come abbiamo visto, il Generale Duchesme ebbe ragione dei massisti, sia pure a fatica.
A Chieti lo stesso Generale già aveva organizzato un Governo provvisorio, ma la città era lontana. Anche Lanciano aveva detto sì ai Francesi all’inizio di gennaio. Aveva, infatti, piantato l’albero della Libertà. E anche, come si ricorderà, Orsogna, Vasto e altri centri. Moltissime altre località si sollevarono contro gli invasori. Un esempio, come già visto, fu Guardiagrele. Nello stesso periodo Castel di Sangro si preparava ad aderire alla Repubblica Partenopea (cosa che poi fece effettivamente a febbraio).
Il 27 gennaio 1799 i Francesi non ancora vi erano arrivati quando anche Casoli volle insorgere a favore della Monarchia. Ma ci dice D. Rossetti in CASOLI NEL SECOLO XVIII, "i buoni si fecero prendere la mano da pochi facinorosi, i quali si imposero sulla cittadinanza, sospendendo ogni ordine di cose". Il loro "comando non era volto al bene del loro paese, ma unicamente a saccheggiare, assassinare e a fare vendette, prendendo pretesto dai politici trambusti". Casoli non voleva i Francesi e pur tuttavia, quei soggetti non fecero distinzione tra innovatori e conservatori. Si accanirono contro tutti gli uomini eletti e benestanti, prescindendo dalle loro idee. E incominciarono a trucidarne alcuni. Poi se la presero con Don Ferdinando de Nobile, dottore in utroque iure. Era questi Agente del Duca di Casoli: aveva avuto l’incarico di Giudice in più Comuni; aveva accumulato ricchezze. "Arbitro a un certo punto, dice il Rossetti, di tutti i pubblici e privati affari" (non tutti, per la verità, lo ritenevano illibato) divenne obiettivo di quella masnada. I capi-folla ritennero, non a torto però, che erano stati invitati a casa sua non per un pranzo, ma per essere uccisi a tradimento. Diedero fuoco al palazzo e lo massacrarono insieme con i suoi armigeri. Ne gettarono poi il corpo nella Cavuta (un vicino burrone), tra rifiuti e carogne di animali. Era l’11 febbraio 1799.
I Francesi occuparono Casoli soltanto il 3 marzo successivo, trattandola, ovviamente, come Terra insorta.
Ma perché raccontare, sia pure brevemente, questa storia?
Perché a pochi chilometri da Casoli, nel Comune di Altino, accadde un eccidio più crudele pochi giorni dopo.
Ne furono vittime, il 22 febbraio, cinque Borrellani:

  • il giovane Silverio Zocchi di venti anni;
  • il Reverendo Don Giulio Zocchi di trentanove anni;
  • il Reverendo Arciprete Don Domenico Antonio Elisio di trentatré anni;
  • il Reverendissimo Don Carlo Zocchi, Rettore della Chiesa di Santa Lucia, sessantenne;
  • il dottor-fisico Don Alessandro d’Auro di sessantacinque anni.

    Nelle registrazioni di morte prese in esame, le età su indicate sono precedute dalla parola "circiter" (circa).
    Sembra che si trovassero in quel paese presso la famiglia di un compare. Forse, secondo quanto raccontava a suo tempo qualche vecchio di Altino, si trattava della famiglia d’Avvocato, la cui casa sorgeva probabilmente sul punto più alto dell’abitato vicino all’antico castello oggi splendida dimora del dott. Francesco Sirolli, radiologo in pensione, appassionato di storia patria, che ha scritto da poco ALTINO - STORIA, CRONACA E LEGGENDA. È stato proprio lui a telefonarmi per darmi queste notizie e poi copia delle registrazioni di morte degli uccisi, dopo che l’Arciprete Don Nicola Di Santo lo aveva informato delle mie ricerche al riguardo.
    Li ringrazio di cuore, perché mi hanno aiutato a svelare un mistero.
    La prima volta venni a conoscenza della morte di quei Borrellani sfogliando i Registri di Morte conservati nella nostra Parrocchia. Rilevai subito che la registrazione, firmata dall’Economo Curato Luigi Evangelista, palesava comprensibile incertezza. Infatti, prima vi sono indicati i nomi dei tre Sacerdoti con l’annotazione: "tutti fucilati". Poi sono aggiunti i nomi del giovane Silverio Zocchi e di Don Alessandro d’Auro, con grafia molto più piccola. Come se l’indicazione dei loro nomi fosse avvenuta in un secondo momento e inserita, perciò, in modo ristretto tra il nome di Don Giulio Zocchi e la registrazione immediatamente successiva relativa a un certo Pietro di Luca scomparso un mese dopo. Forse le prime notizie non furono complete! Anche dopo i nomi del giovane Zocchi e del medico d’Auro, il Curato Evangelista indicò nella fucilazione la causa della loro morte.
    Purtroppo, dalle registrazioni della Chiesa di Altino, dove furono sepolti i loro corpi, e da altri documenti di cui parlerò tra poco, risulta che la loro morte fu più atroce. Da notare che mentre per i due laici la registrazione reca "Hic Altini morte violenta ex hac vita migravit" (in questo luogo di Altino per morte violenta migrò da questa vita), per i tre ecclesiastici la registrazione in proposito si avvicina di più alla loro condizione di religiosi per quanto riguarda la sorte della loro anima. Si legge infatti: "hic Altini morte violenta animam deo reddidit" (in questo luogo di Altino per morte violenta rese l’anima a Dio). È una distinzione che diffìcilimente qualche Sacerdote oggi farebbe nei riguardi di credenti. E Don Alessandro d’Auro altroché se era credente! Lo vedremo leggendo il suo testamento. Continua la registrazione: "cuius corpus sepultum fuit in Iiac Parochia/is Ecclesia S. Maria de Populo" (il suo corpo è stato sepolto in questa Chiesa Parrocchiale di Santa Maria del Popolo). Si tratta della chiesa che sorge nel punto più alto del paese, da dove si ammira tutta la piana del Sangro fino al mare. La loro tumulazione avvenne in presenza di due testimoni: Crescenzio Zucaro e Biase di Giuseppe. Tanto fìrmò, in fede, l’Arciprete di Altino Don Giuseppe Verlengia (adfidem ]osephus Archipr. Verlengia).
    Quel "morte violenta", dopo aver letto cosa era accaduto a Casoli e in altri centri ad opera dei massisti, già di per sé non fa pensare a una subitanea morte per fucilazione (pur essendo, è ovvio, questo tipo di morte anch’essa violenta). Perché furono trucidati? Chi indirizzò quella feroce masnada nella casa dove si trovava quel gruppo di Borrellani? Chi fu l’istigatore, il committente del plurimo, atroce delitto?
    Questi dubbi forse si sciolgono leggendo un ricorso che il cognato di Don Alessandro d’Auro, Vincenzo Romerj di Chieti, fece alla Regia Udienza della stessa città nel settembre 1799, per una questione relativa ai beni lasciati dal defunto.
    Questi aveva sposato la sorella del Romerj, Anna Luisa, che portò una buona dote:
    oltre a quella paterna in mobili e contanti, anche tutto quanto lasciatole dal primo marito. Morta la signora Anna Luisa nel 1791, i beni ricaddero in favore del suo erede più prossimo, cioè del fratello Vincenzo Romerj, a "tenore dei patti stabiliti in detto foglio nuziale".
    Trattata la cosa bonariamente, si convenne di lasciare il tutto in godimento di Don Alessandro "fino a che fosse vivuto". Ma a due condizioni: una volta morto, anche la sua roba doveva andare al Romerj; questi, poi, avrebbe dovuto dare "soccorso" a Don Alessandro "in ogni suo bisogno". In tale senso Don Alessandro redasse la "scheda" testamentaria. Al Romerj, però, per vari motivi, non fu possibile recarsi poi a Borrello per "la solenne stipula" di quell’atto.
    Dopo queste precisazioni, appare nel ricorso il primo passo che potrebbe diradare i dubbi sul perché e sul come della morte di quei nostri compaesani. Aggiunge, infatti, il Romerj: "onde avvenuto di detto Ill.mo Don Alessandro d’Auro L’ESEGRANDO MASSACRO nel caduto febbraio, PER OPERA DEL BARONE MASCITELLI DI ATESSA, FEUDATARIO DI DETTA TERRA DEL BORRELLO, contro cui armò le sue denuncie il supplicante (ricorrente) in questa Regia Udienza, è rimasto deluso dell’acquisto della di lui eredità, ecc., ecc.".
    Era acccaduto che, "corsa di questo ECCIDIO la voce", una sorella del defunto piombò a Borrello col marito e i figli, "per porsi alle mani tutti i averi in stabili e mobili lasciati dal TRAFITTO". Trafugarono tutto quanto fu possibile e "quel che è peggio -dice il Romerj nel ricorso - stavano disponendo la vendita dei beni stabili".
    Rivoleva la sua roba il ricorrente e così spiega perché si rivolgeva direttamente alla Regia Udienza di Chieti: "Si ravvisa qui anche che quella Corte del Borrello (la prima istanza) è SOSPETTA, SOSPETTISSIMA, come per tale formalmente l’allega il supplicante, perché avendo formato contro di detto Barone ESPOSTO DI DENUNCIA in questa Regia Udienza, ogni Corte perciò, rappresentante la Giurisdizione di detto Barone, servirebbe di un mezzo per scaricare L’INIMICIZIA E L’ODIO DERIVANTE DA SÌ TERRIBILE DENUNCIA".
    Chiedeva, alla fine, che si facesse in modo di porre termine alla dilapidazione di quei beni e poi di instaurare un giudizio "contro gli intrusori di detta eredità".
    Si può pensare, quindi, che i cinque martiri erano probabilmente fuggiaschi in Altino per... contrasti non di poco conto col Barone Mascitelli, forse anche politici (liberaleggianti a riotta col borbonico Barone?; motivi di interesse economico?).
    Si può dedurre, inoltre, da quanto affermato nel ricorso stesso, che quei nostri sfortunati compaesani non furono semplicemente fucilati, ma massacrati (esegrando massacro) e molto verosimilmente anche pugnalati e accoltellati (trafitti). Il tutto accadde dietro delazione o per ordine del Barone che trasformò in killers alcuni di quei feroci massisti? Una denuncia di complicità o di più diretta responsabilità in un eccidio del genere è possibile senza alcun fondamento?
    Certo è, però, che siffatta accusa contro il Barone non risulta esaminata dalle Autorità subentrate dopo l’abolizione della feudalità.
    Quasi commovente quella parte del testamento che Don Alessandro aveva redatto di "proprio carattere" sei anni prima.
    Indubbiamente molto credente, raccomandava innanzituitto la sua "meschina" anima al "clementissimo e misericordiosissmo Iddio", alla gloriosissima Vergine Maria Addolorata, all’Angelo Custode, a San Giuseppe, al Santo col suo nome, e a tutta la celeste Gerarchia. Ai quali tutti chiedeva di impegnarsi a ottenere dall’Altissimo Dio la remissione delle sue colpe, affinché la sua anima, separata dal corpo, per loro intercessione fosse destinata a godere la divina beatitudine insieme con gli altri Beati. E disponeva poi, prima di destinare la roba agli eredi (quasi tutto ai cognati di Chieti), quanto si sarebbe dovuto fare dopo la sua morte.
    Scrisse parole che sembrano un presagio, un presentimento: "desidero che trapassato da questa vita all’altra, il mio cadavere sia sepolto, SE MI TROVERÒ IN QUESTA TERRA DI BORRELLO, nella sepoltura della Confraternita dei Morti, ecc., ecc.". Dispose ancora, minuziosamente, come doveva avvenire il suo funerale. Tutti i Sacerdoti di Borrello voleva povero Don Alessandro, e in più quattro Sacerdoti forestieri. Ognuno di essi doveva essere ricompensato con dodici Carlini. E disponeva pure addirittura per l’Ottavario della sua morte e anche che il suo cadavere fosse "fornito con libre dieci di cera" di qualità a piacere di chi "avrebbe avuto la carità e attenzione in tale assistenza".
    E invece, niente di tutto ciò. Neanche un cero. Neanche una Messa. Neanche un nome sulla tomba con quelle spoglie martoriate. Forse una prece dell’Arciprete Don Giuseppe Verlengia, lassù nella Chiesa di Santa Maria del Popolo di Altino.
    E così per gli altri quattro sfortunati.


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