Qualche nota sul
"PUNGOLO CON METAMORFOSI"
Del Dottor Anselmo Di Nardo
Borrello - 1907
I fatti, nella loro essenzialità, sono semplici: nel 1907, in seguito a dissensi circa l’azione amministrativa del Consiglio comunale di cui faceva parte, l’Autore pubblicò un’ampia satira in forma di metamorfosi - il che significa che i suoi avversari venivano immaginati mentre si trasformavano in qualcosa, di non precisamente carino, che alla sua mente appariva caratteristico di loro specifici difetti. Interessa poco, qui, cercare di capire chi abbia scatenato la verve satirica del "Nostro" e per quali fatti specifici: più interessante è un veloce esame - diciamo così - formale e/o estetico che valga a testimoniare il valore intellettuale e artistico del poeta, le sue emozioni, la sua visione etica del mondo in cui vive e dell’azione politica che vi si dovrebbe attuare. |
E allora vediamo:
La dedica è ai "feudali" governanti; in questo è già una chiara indicazione del vedere politico del Poeta, per il quale non è in questione il problema della democrazia formale, ma di quella "reale", a suo vedere non abbastanza attenta alla reale osservazione - all’ascolto, si direbbe oggi - dei bisogni reali della gente. Da un punto di vista formale, invece, bisogna osservare che il soggetto-scrittore-dedicante è impersonale ("la fantasia del settantottenne…"): quasi che il Dottore e Filosofo voglia porsi un po’ defilato, per aumentare la fuga prospettica e la tensione oggettiva.
L’opera - bisogna ammetterlo - è piuttosto aspra e pungente, quando si rivolge alle persone; ma proprio nei passaggi dedicati all’invettiva presenta un più debole esito artistico. In queste parti, mi pare, tradisce più apertamente lo spirito e il sentire dell’amato Orazio (Cfr., in epigrafe il celebre "Quis vetat ridendo dicere verum" oraziano) per accostarsi ad autori successivi della letteratura italiana, più sanguigni ed espliciti, secondo rapporti e predilezioni che andrebbero tutti investigati e approfonditi. Ma sono certamente questi i passaggi più spassosi. C’è però un punto molto bello, tenero, mesto in questa parte dell’opera ed è il riferimento al figlio morto in troppo giovane età: ("Perdetti un figlio/ nel fior degli anni/ fugati avrebbe/ i barbagianni"); e la conseguente sua propria mutazione: ("Mutato è in fonte/ chi piange e geme;/ per troppe lacrime/ il secco ei teme"), che ci mostra un uomo cui il dolore sta per seccare, oltre le lacrime, perfino l’anima.
Il pungolo interiore che ferisce, il tarlo che rode il poeta è l’inconsapevole, fatale accettazione, da parte del popolo, di un servaggio ormai fuori della storia, tanto più incomprensibile, quanto più è grave e doloroso. Vale la pena di leggere un ampio passaggio:(" quel contadino/ che terra scassa/ per far ricolme/ d’altrui le casse,// mutato è in bue/ che terra taglia:/ agli altri il grano,/ per sé la paglia.// Quegli elettori/ che a larghi vanni/ il voto recano/ ai lor tiranni// mutati sono/ in pecorume/ avvezzi a tosa/ com’è costume.") In questi versi val la pena di osservare il "pecorume", una parola che il suffisso –ume rende particolarmente volgare e segna il rabbioso disprezzo per ciò che si dimostra irriscattabile; ma soprattutto, si notino i due versi successivi "avvezzi a tosa/ com’è costume" che, nell’apparente raffinatezza dei termini ("tosa" e "costume" sono da considerare parole presumibilmente desuete e fin troppo colte per il comune linguaggio del Paese di allora) dichiarano una rabbia e un disprezzo anche maggiore per quell’infame abitudine a subire che adira il Poeta.
Sbagliavano gli amministratori? Oppure: si può pensare che per l’Autore le Autorità del paese non sapessero governare? Io credo che il poeta non pensasse esattamente questo: certo, riteneva che alcuni fossero corrotti, che qualcuno fosse troppo superbo e arrogante ("Sorto è il Tonante/ …/ la fascia cinge/ …/ per farne pompa/ d’incensi e onori"), ma la ragione del diverbio era altrove: riguardava l’inopportunità di certe scelte che, a suo avviso, pesavano troppo sul bilancio del Comune, e in definitiva si riducevano ad un insopportabile gravame per la popolazione che poi doveva ripianare quel bilancio. Così, ricordando Zeus che "costrusse" la Via Lattea "per dar passaggio/ ai Dei minori/ pel suo palagio", non discute l’opera dell’Amministrazione (e di opere specifiche e concrete mi pare si possa arguire che parli), ma del fatto che, progettando le opere, l’Amministratore "non vede il baratro/ in cui finanza/ di già precipita/ e tutto oltranza". E cosa c’è in questo baratro? (" …/ campagne incolte/ impiegatumi/ e spese molte// …/ non sonvi erbaggi/ invece pagansi/ acqua e passaggi.// Le strade vendono/ …/ non resta al pubblico/ che il nudo sasso"): sembrerebbe di assistere ad una di quelle " privatizzazioni selvagge" tanto care ai giorni nostri. Ma proseguiamo: ("La gente emigra/ per altri lidi/ a topi e corvi/ lasciando i nidi"); e qui vorremmo ricordare che questi versi in quegli anni non erano un modo di dire, se si pensa alla dimensione biblica che vi aveva assunto l’emigrazione italiana. E perché fugge la gente? ("Di torchio fugge/ il suo pressame/ non più premuta/ com’è il salame"). Ma la salvezza dei fuggiaschi è calamità per quelli che restano: ("A quei che restano/ in triplo giro/ l’ordigno stringe/…").
Ma come appare l’Autore in quest’opera? Si può dire un uomo integro, idealista, radicale: ("Chi scrive e nota/ dantesca è lupa,/ crescente ha sete/ coscienza ha cupa"); sprezzante nei confronti di coloro di cui non ha stima: ("Zavorra il resto/ che nave affonda"); pugnace pur nell’inevitabile stanchezza e nella consapevolezza della sconfitta: ("Qui ferma il pungolo/ che n’è smussato;/ se ancor fa d’uopo/ sarà temprato").
Ho già detto qualcosa circa i maestri ideali di Anselmo Di Nardo, ma tracce di debito nei loro confronti sono comunque esplicite nell’operetta: ecco, per esempio, il già citato "Quis vetat" oraziano; ma ecco anche, sempre in epigrafe, il distico dell’Anguillara: "Le forme in nuovi corpi trasformate/ gran desìo di cantar n’infiamma il petto"; ed ecco infine, in due quartine, ("…/il ruscelletto/ ricorda ancora/ al tirannetto// che all’onda impura/ che scorre tosto,/ gli arresta il corso/ il sol d’agosto") il riferimento alla poesia di Fulvio Testi "Il ruscelletto orgoglioso". Per puro gusto di civetteria, annoteremo che quest’operetta è citata anche nell’altra satira "Ai Signori Membri della Casina "Unione e Concordia", nell’ultimo dì di Carnevale. Per omaggio": ("L’allegoria/ del Malatesta/ vi tenga mente/ aperta e desta").
A conclusione del "Pungolo" si suole inserire questo epitaffio che il Poeta si sarebbe dettato: ("Fu Di Nardo/ quel Dottore/ che ridendo/ disse il vero./ E lo direbbe ancora/ se non fosse/ al cimitero"). Da un punto di vista filologico parrebbe ricordare il celebre preambolo, che taluni attribuiscono a Virgilio, con cui alcuni filologi, per amor di completezza, fanno iniziare l’Eneide: ("Ille ego qui quondam…"); o, più ancora, l’altro, pure virgiliano: ("Mantua me genuit…"); o il dantesco " Incipit comoedia …". Da un punto di vista filologico non saprei cosa pensare, se pure la tentazione di immaginare il topos fa capolino; né mi sfugge che la seconda quartina è un po’ troppo traballante per un autore che si mostra sicuro artigiano di quinari e quartine: di quinari in quartine; ma se devo essere sincero, mi pare che l’epitaffio riassuma bene il carattere, la personalità dell’Autore, almeno per quel che sono riuscito a capirci leggendo le sue poche cose cui ho avuto accesso a tutt’oggi.
Donato Di Luca |