Papà, voglio vendetta!

un racconto di

Domenico e Donato Di Luca
(ogni riferimento alle persone e ai fatti narrati è puramente casuale)

Ai fatti che precedettero e seguirono la Marcia su Roma, alle conseguenze che ne stavano derivando per tutta l’Italia e anche per il paese, Mombello restò sostanzialmente estraneo: i contadini, presi a render l’anima sulle pietraie avare da cui a mala pena traevano le decime di cui erano gravate; i possidenti, ad evitare che i propri possedimenti si trasformassero in un peso per loro insostenibile; i signori (ma di che, poi ?) a difendere con le unghie e coi denti la propria condizione e i propri vantaggi.

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Ma ci sono idee e situazioni che sono nell’aria e che progressivamente (seppure all’apparenza insensibilmente) permeano di sé ogni spazio e interstizio del Paese e della società all’insaputa, o per lo meno nell’inconsapevolezza, di chi ne è peraltro permeato e conquistato.
Il fascismo si affacciò e conquistò il paese in due riprese, senza incontrarvi una parvenza di reale opposizione, ma provocandovi comunque fazioni e disordini per una duplice interpretazione da cui derivarono una proposta e un’opposizione tutte interne al movimento: esse furono risolte alla fine con una formale pacificazione, ma in realtà con l’affermazione meno utopistica ed egalitaria e più aderente a ciò che il Movimento, nel frattempo, era diventato a livello nazionale.

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Le prime avvisaglie di un turbamento, che urgeva per avere in qualche modo soddisfazione, si ebbero in paese già sul finire dell’estate del ventidue.
Era il due di settembre. Notte. Forse anche le prime ore del tre: insomma, a conclusione del concerto bandistico che chiudeva la festa dei santi Egidio e Rocco.
Un gruppo di reduci della Grande Guerra si avvicina ai bandisti. Tra scherzi e battute si mettono d’accordo per suonare "Bandiera rossa". Ma nei pressi stazionava anche un gruppo di studenti.
Erano figli di quella piccola borghesia (o lembi di piccola nobiltà) che mal sopportava, nella frangia giovanile e studentesca; o era sinceramente impaurita, nella frangia dei genitori resi refrattari e inconsapevoli da troppi anni di vita ripetitiva e abitudinaria, per il rumoroso organizzarsi e per il proporsi aggressivo del Movimento socialista e forse ancor più del neonato movimento comunista.
Certo, questi ragazzi, per quanto volessero essere dediti prevalentemente allo studio e al divertimento, dovevano avere una puntuale conoscenza dei fatti politici nazionali; ma credo che neanche i genitori li ignorassero, per quanto li sentissero distanti: come accade quando di qualcosa si abbia una conoscenza esclusivamente mediata: ed era la conoscenza che questi genitori ne avevano costruita attraverso la lettura del giornale alla Casina dei Signori.
Questi giovani studenti, dunque, cercarono come poterono di impedire che la banda suonasse l’inno comunista. Ma l’altro gruppo, alla fine, ebbe la meglio e la banda cominciò a suonare, protetta dai committenti. Gli studenti reagirono con tutta la vivacità che poterono esternare, coprendo con bordate di fischi le note di "Bandiera rossa". I committenti dell’esecuzione, indispettiti, avanzano minacciosi verso i manifestanti:
"Stronzi, mangia a ufo!" esclamavano Filippo e Nicola spintonando Umberto.
Umberto arretrava, ma mostrando il petto come un eroe risorgimentale; e, le dita in bocca, emetteva bordate di acutissimi fischi sollevando con dispetto il viso in particolare verso Egidio che, avanzando verso di lui obliquamente, gli gridava: "Smettila! Smettila, ti dico!". E quando giunse a contatto con Umberto, con il pugno tenuto verticalmente, gli assestò un colpo sotto il mento facendogli schiacciare la lingua tra i denti.
In questo frangente la caserma dei carabinieri restava chiusa. I carabinieri non sentirono, o non si accorsero che la musica e i fischi erano l’emergere rumoroso di qualcosa che stava degenerando in rissa e scontro.
Lo capì bene qualcun altro che corse ad avvertire il sindaco.

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Andavano sempre dal sindaco nei momenti critici. Il Cavaliere (era questo il titolo con cui era più generalmente identificato e che normalmente veniva usato nel rivolgersi a lui) era uomo di provate capacità di mediazione e buon conoscitore del sentire e dei problemi dei suoi concittadini. Inoltre possedeva il senso liberale dello stato di diritto dei molti borghesi intellettuali spaventiani dei paesi abruzzesi della val di Sangro.
Bastò il concitato racconto fattogli dal suo concittadino perché si rendesse conto della situazione.
Inoltre non era certamente propenso ad accettare che una banda suonasse in pubblico un inno che al suo sentire liberale pareva un’offesa blasfema.
Si presentò in piazza in fascia tricolore, con l’autorevolezza che gli era propria e l’autorità che gli conferiva la fascia. Avanzò deciso e intimò alla banda di smettere. Poi si rivolse ai contendenti e li esortò, deciso e paterno, ad andare a casa. Le fazioni si sciolsero e tutti, a gruppetti di due o tre, si avviarono verso casa commentando sottovoce i fatti e proponendosi di prendersi la giusta rivincita alla prima occasione.

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Il maestro fu tra i primi a capire quanto stava accadendo a livello nazionale. Del Movimento aveva colto l’anima populista ed egalitaria che questo, almeno all’apparenza, sosteneva. Egli, nell’ingenuo idealismo proprio degli insegnanti elementari postunitari formatisi alla scuola di De Amicis e Carducci, scambiò quell’anima per la sostanza del movimento politico che stava emergendo, come se agrari e industriali non ne fossero il vero sostegno.
E infatti fece proseliti soprattutto tra gli agricoltori affittuari delle terre soggette al pagamento di un’esosa decima al Comune. Tutti costoro sentivano ingiusta quella tassa, tant’è vero che tra alcuni anni avvieranno una causa contro il Comune per poter riscattare le terre da quella servitù (e fu una causa sfortunata per i contadini, anche se in seguito, per altre ragioni, quelle decime scomparvero ugualmente!).
Eccolo, dunque, il Maestro, salire verso Via Dell’Orologio: basso di statura ma non tozzo, il passo sicuro e spedito. Vestito di nero. Bombetta e marsina sulla giacca nera, pantaloni di panno infilati negli stivali, pure di pelle nera. Bussa all’uscio e, senza attendere, tira la cordicella del saliscendi.
"Vincenzo!" Dà voce aprendo.
"Avanti, avanti! Sali, signor Maestro!" Esclama Vincenzo sorridente.
Il Maestro s’è tolta la bombetta: è un uomo maturo, coi capelli brizzolati avviati all’indietro "alla Umberto", come allora andava di moda. Sotto la fronte ampia e poco rugosa gli occhi, scuri grandi e vivaci contrastano, in un vigoroso sprigionarsi di giovinezza, con le vistose borse che appesantiscono le palpebre inferiori. Il naso, leggermente aquilino, è ben proporzionato, sul viso largo e tutto sommato regolare.
"Buonasera, Lucia".
"Buonasera. Sedete, sedete" invita Lucia, allungando una sedia meno rozza e meglio impagliata di altre, che ha sottratto a uno dei numerosi figli che si scaldano intorno a un bel fuoco.
Di discorso in discorso l’argomento si precisa: cosa accadrà quando, alle prossime elezioni comunali, il suo gruppo potrà disporre dell’esercizio dell’amministrazione pubblica? Il Maestro, infatti, benché non ignori le difficoltà inerenti al progetto di rovesciare l’Amministrazione da venti anni in carica, è consapevole che sta battendo tutti sul tempo. Pare anzi che nessuno si accorga del terremoto politico e sociale che sta investendo l’Italia: neanche il Cavaliere, che forse si adagia sugli allori della propria risaputa e inattaccabile autorità.
Il Maestro invece è attento e gli pare che il momento sia veramente propizio. Peraltro, gli pare anche che in paese molte cose non si eseguano secondo giustizia; e pensa che l’imperativo che gli impongono la coscienza e il Movimento di cui, in paese, sta preparando la struttura di radicamento, sia di ristabilire quella giustizia.
Si esprime con chiarezza e passione, il Maestro. Osserva il fuoco: sotto il piccolo mucchio di cenere e carbone, al centro del focolare, certamente cuoce qualcosa: una torta? Una pizza di Granturco? Una teglia di patate e salsiccia?…
"Vedi, Lucia, io non so che ci sia sotto la coppa. 'Chissà che c’è', mi dico. Ma qualunque cosa ci sia, non c’è dubbio che tu sarai giusta. Tu e Vincenzo. E’ vero o no?"
"Beh, certamente che è vero" conferma Vincenzo.
"Non permetterai ai tuoi figli più grandi di buttarcisi su a danno dei più piccoli – e di voi due, naturalmente!"
"Eh, se ce la fa!" sghignazza Michele.
"Azzardati!", minaccia laconico e severo Vincenzo. E poi:
"Dite, Maestro".
"Dunque, Lucia, tra un po’ tu tirerai fuori diciamo, una bella torta d’oro. Sarà odorosa e fumante. Ben cotta: infilerai la pagliuzza di miglio e tirandola su asciutta, "è pronta", ti dirai. E la crosta, marroncina, sarà leggermente screpolata al centro, dove la lievitazione ha spinto più in alto la pasta…"
I ragazzi ascoltano a bocca aperta. Il fuoco scoppietta. La vivanda sta ancora cuocendo, ma i ragazzi ne sentono il profumo caldo. Le due ragazzine, su un lato del camino, sedute insieme su un unico sgabello, sono rapite, gli occhi sgranati e le labbra semiaperte…
"E tu la prenderai, la poserai sul tavolo, la rovescerai e la metterai a raffreddare sulla finestra. Sarà questione di poco: senti che tramontana gelida che tira, benché il cielo sia da tanti giorni terso e non ci pensi per niente a nevicare. E quando sarà ben raffreddata la taglierai in tante fette quanti sono i tuoi figli. E saranno tutte parti uguali, senza preferenze per nessuno: neanche per voi genitori. E mangerete contenti insieme chiacchierando e scherzando; e berrete (voi uomini, naturalmente, che avete l’età per farlo) un bicchiere del buon vino bianco di San Martino: e passerete nella gioia e nella serenità questa serata di Santa Lucia.
Così sarà quando andremo noi al Comune. Toglieremo il terraggio prima di tutto".
"Si, perché è una bella ingiustizia, su quelle pietraie", proclama Michele.
"Ci passiamo giornate a sputare l’anima e se lo mangia tutto il Comune, quando l’annata non è buona", aggiunge Domenico.
"Ma pian piano – riprende il Maestro – toglieremo tutte le altre ingiustizie. Vedete come adesso sono affidate le cariche: il Cavaliere le ha date in modo da crearsi una bella corte; non è giusto che sia così. E poi, non è mica bello che le tengano sempre le stesse persone…".

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Il Movimento, in paese, pian piano si organizzava. Accadeva per lo più in sordina. I membri, in generale piccoli proprietari terrieri, gente che dava l’anima sui propri campi, erano anche amici (perché si sa: sovente le amicizie nascono per affinità di carattere e di sentire, a maggior ragione quando le vicende, il destino accomunano le persone in una storia di sofferenze comuni e nella conseguente condivisione di sogni e aspettative).
Nell’autunno inoltrato spesso si erano incontrati, e ancor più si incontravano ora che l’inverno dava una tregua al loro lavoro nei campi. Solitamente si incontravano di sera: a volte per svolgere, prestandosi la manodopera, i tanti piccoli lavori che il contadino rimanda aspettando le lunghe notti invernali; altre volte semplicemente per stare insieme intorno al camino, con una fetta di tarallo e un bicchiere di buon vino.
In quelle ripetute, serene serate, ora si insinuava la passione della politica. Una cosa tutta nuova, condita di un desiderio di rivincita sempre più deciso e pungente.
Il Maestro ascoltava, interloquiva, rimbrottava. All’uno dava rassicurazione circa una promessa precedentemente fatta, all’altro raccomandava di aver pazienza, a un altro ancora raccomandava di non esagerare: non si voleva per caso diventare come e peggio degli altri?…
Gli amici chiedevano dubbiosi:
"Ma questo partito, poi, è sicuro che farà la nostra parte?"
"Che ti viene in mente – replicava il Maestro – : ma lo sai che Lui è stato per tanti anni socialista? Che ha diretto un importante giornale di questo partito? Io l’ho letto, certe volte: vedessi come le cantava ai governi, al re. Suo padre e sua madre erano poveri. Lui ha sempre lavorato per i poveri."
Vincenzo (molti si chiamavano Vincenzo, allora, per via di una profonda devozione al San Vincenzo dolce, imberbe, dai grandi occhi neri rotondi e sgranati che si venerava nella loro chiesa): Vincenzo, dunque, annuiva col capo, la schiena curva, di tre quarti sulla sedia, guardando il fuoco vivace e rassicurante:
"E perché non è più socialista, allora?", insinuava; ma più per voglia di rassicurazione che per desiderio di confutazione. Comunque il Maestro non si tirava indietro:
"E come perché? Perché gli altri sbagliavano a decidere. Vedi, Vincenzo, non basta avere buone idee per la testa, bisogna anche scegliere le cose giuste, se si vuole giungere a realizzare le buone idee che si ha in testa. Se no, prima di tutto gli avversari, i ricchi, i grandi proprietari, gli industriali ti danno addosso per l’errore commesso; ma poi, se le scelte non sono giuste, adatte al luogo in cui ti trovi, alla gente, alle possibilità del momento, ti imbarchi in storie che non sai tenere in mano, che ti sfuggono, che ti portano da tutt’altra parte".
C’era da fare il filosofo, su questo, il Maestro lo sapeva; ma bisognava stare attento a non volare troppo, sia per non frastornare l’attenzione degli amici, sia per non farsi bruscamente richiamare a terra con qualche memorabile e fulminea sentenza, in cui più di un paesano eccelleva.
E dunque, con sforzo, con pazienza, semplificava:
"La prima cosa, per esempio, è la patria: se non hai una patria, chi sei? Niente. E questa patria deve essere forte, ricca, potente, se no che è, chi l’apprezza, chi la conta? E questa è la prima cosa che i socialisti non volevano capire, che Mussolini capiva. E che era la nostra patria se era ancora mutilata di Trento e Trieste e Gorizia? Ecco perché Mussolini volle che l’Italia facesse la guerra e andò volontario: perché nessuno potesse dirgli di aver fatto non come prete fa, ma come prete dice, tutt’altro: perché egli fece proprio quello che diceva. Non è che i socialisti avessero torto, bada: è vero che i poveri sono tutti uguali, in qualunque patria, e carne da cannone in qualunque nazione; che combattere contro un altro stato significa combattere contro i propri fratelli e non contro i potenti di quello stato; ma è vero pure che, al momento decisivo, ogni Nazione chiama a raccolta i propri. E così è stato anche nel quattordici. In fondo noi, allora, abbiamo aspettato un anno a far la guerra e in quell’anno avevamo ben visto che era accaduto proprio così; perciò, cosa restava da fare ai socialisti italiani per non sbagliare? Quello che invece loro fece Mussolini."

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Bisognava organizzare il movimento in partito, perché le discussioni non restassero pura accademia o mugugno e le azioni diventassero efficaci. Infine, che senso aveva un movimento che non si organizzava per prendere il potere? Come si poteva pensare di riscattare le ingiustizie e costruire un mondo nuovo, diverso dal vecchio mondo liberale e imborghesito e polveroso, dove i gesti e le delibere erano o routine o atti di imperio?
"Non avete dimenticato – diceva il Maestro – le storie di D.Anselmo e del suo "Pungolo", vero?
Non l’aveva dimenticato nessuno, certo: molti ne custodivano gelosamente una copia e la leggevano e rileggevano durante l’inverno e ne imparavano a memoria le quartine più piccanti o esilaranti e si divertivano a identificare i personaggi svelando le metamorfosi e spiegandole coi fatti o coi vizi che caratterizzavano o avevano caratterizzato la vita dei protagonisti…
Così affiorava il sorriso sulle labbra degli adepti: qualche risata qualche citazione divertita.
E si rinforzava il dispetto, la rabbia, in taluni casi il rancore verso chi aveva governato ormai da vent’anni e ancora governava, contornato dalla sua corte di sfacciati presuntuosi e accaparratori.
Bisognava quindi decidersi e andare a Chieti a proporre la fondazione di una sezione del Fascio, a esporre progetti e prendere direttive e consigli.

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A Chieti il Maestro ebbe porte spalancate e cortesia: il Prefetto, il Federale, il Console furono prodighi di incoraggiamenti e consigli che galvanizzarono vieppiù il suo animo già propenso alla retorica eroica.
Così il Fascio fu fondato.
La sezione fu posta al primo piano di una casetta di viale Argentina, sita proprio dove si apre la scalinata che tuttora collega questa via con l’altra dedicata al famoso statista sangrino.
Qui si iniziarono riunioni periodiche e regolari durante le quali il Maestro e i suoi seguaci stabilirono progetti e organigrammi; qui, nell’intercapedine tra il pavimento e la volta a botte venivano sistemati (e a detta di qualche testimone allora bambino tuttora vivente, ancora si trovano: ma io non lo credo) nodosi bastoni di legno, versione georgica del Santo Manganello nazionale. Qui, in riunioni cui la periodicità non tolse mai l’entusiasmo dell’impegno e della frequenza, nasceva faticosamente la mappa del nuovo potere.
"Sono anni che Vincenzo fa il sacrestano, ora tocca a me", diceva Mario.
"E Gaetano, con la posta? Perché continua ad andare una sola volta al giorno, fino all’Olmo delle Macchie? Due volte deve andare", rispondeva Giovanni.
"E’ trent’anni che Giuseppe fa il banditore", recriminava un terzo, "dopo lo voglio far fare a mio nipote Matteo che ha fatto il trombettiere sotto le armi".
Ma soprattutto prendeva forma un progetto di abolizione delle decime di terraggio che i contadini pagavano al Comune per le terre situate a sud del Paese, negli ampi e pietrosi pianori a confine col bosco del Pesco.
E molte altre trasformazioni: la nettezza urbana, la Tesoreria, la pulizia del Municipio e delle scuole… Insomma si delineava una vera e propria rivoluzione che non era più solo ideale, ma che si concretizzava nelle forme consuete delle alternanze Amministrative: intaccando precise funzioni e interessi.
La variegata corte di parenti, amici e faccendieri del Cavaliere se ne impensieriva giorno per giorno di più, a mano a mano che le notizie trapelavano o venivano da qualche membro del fascio propagate ad arte ma forse troppo incautamente.

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Quando la somma di indizi e pettegolezzi fu tale che costituiva la rappresentazione chiara di un progetto di rovesciamento dell’Amministrazione, alcuni dei nipoti del Cavaliere si fecero animo e tornarono con decisione alla carica presso lo zio. Pensarono che questa volta il loro resoconto allarmato di fatti concreti avrebbe scalfito la calma olimpica con cui l’augusto zio aveva finora guardato i fermenti politici che serpeggiavano nel paese.
Andarono da lui, ben decisi a farsi ascoltare, una gelida mattina di gennaio, poco dopo l’Epifania. Nevicava da qualche ora. La tramontana era tesa e gelida e schiaffeggiava i visi con aculei di ghiaccio microscopici, ma non per questo meno dolorosi.
Correvano, verso la casa dello zio, piegati in due, per farsi scudo del corpo contro le sciabolate della tramontana.
Donato aprì il portone senza bussare ed entrò per primo nell’ampio vestibolo al pianterreno. E chiamò, avviandosi alla scalinata di pietra serena, seguito da due cugini più piccoli:
"Zizì! Rosa, ci sta Zizì?"
C’era. Rosalinda, la giovane governante – padrona li invitò a salire.
Dalla scala passarono alla grande cucina in cui il caldo profumo faceva sciogliere i corpi come in un deliquio, dopo i rigori del ghiaccio. Lo Zio era nello studio. Sedeva alla scrivania, la bella scrivania di legno scuro, solida e severa. Appariva imponente, pur seduto, a chi entrava. A destra, i vetri del balcone erano un merletto di vapori gelati. I rami spogli degli ippocastani, fuori, benché esili, resistevano alla tramontana, spavaldi di gioventù, oscillando lievemente.
Le scarpe dei tre giovani, avevano le suole rivestite di chiodi che risuonavano di brevi scivolamenti ad ogni passo, sul bel pavimento di mattoni ottagonali rossi e grigi. Era un ampio pavimento, in cui tanti mattoni rossi contornavano uno grigio che fungeva da centro, in una rete di poligoni tangenti tra loro per qualche lato o spigolo. Lo zio leggeva. I ragazzi sostarono in silenzio senza neanche il coraggio di salutare. Accadeva sempre così nonostante la parentela concedesse loro una buona confidenza.
"Beh, come mai in giro con questo tempo?" esordì il Cavaliere sollevando l’ampia fronte e mostrando gli ampi, rotondi occhi luminosi e acquosi, mentre ripiegava con cura il giornale.
"Zizì, devi vedere cosa fare, qua le cose si mettono male…" i tre parlarono insieme mescolando, in realtà, le parole che qui sono riportate in fila.
"Dì tu, Donato; e state calmi. Anzi: Rosalinda, porta qualcosa ai ragazzi. Avete fatto colazione? Volete un bicchiere di vino? Beh, fai tu, Rosa. Ma torniamo a noi. Dunque, dimmi".
"Zizì, quelli hanno fondato la sezione del fascio. Il Maestro è andato a Chieti dal Federale…"
"Lo so, lo so… Ma non è la prima volta che il Maestro organizza di questi spettacoli. Non credo che farà molto più di questa recita".
"Ma Zizì, non è come dici. Quelli fanno sul serio: hanno già pronte le sostituzioni da fare per ogni incarico ed ogni impiego nel Paese. E Lui, il Maestro, si prepara a fare il Podestà, mo’ che sarà abolito il sindaco".
"Hum. Beh, sarà difficile abolire il sindaco. Comunque, appena il tempo lo permetterà voglio andare a Chieti a sentire. E se ci sarà bisogno, farò valere conoscenze e amicizie: tutte risorse che il Maestro non ha. State tranquilli. Vieni, Rosa".
Rosa entrava in quel momento con un vassoio su cui aveva posto fette di tarallo e tre bicchieri di vino bianco.
"Posa qui sul tavolo. Prendete". E mentre i ragazzi divoravano egli li congedava già, con qualche raccomandazione:
"Beh, state con gli occhi aperti. E venite spesso a riferirmi. Ma" alzò l’indice "Non fate capire che sapete e osservate, né che avete parlato con me. E ora andate, ché ho da fare".
Uscirono sollevati. Scesero correndo le scale, mentre il rumore dei passi rimbombava per tutta la casa e uscirono nella tormenta chiudendosi vigorosamente al porta alle spalle.

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Il cavaliere andò a Chieti la settimana dopo.
Donato era arrivato per preparare biga e cavalla (un’elegante morella slanciata e di sottili garetti): era arrivato, dico, per tempo, quand’ancora lo Zio attendeva a soddisfare il consueto bisogno giornaliero ("dopo colazione – amava dire – un bicchiere d’acqua e un sigaro e devo subito correre!"). Prima aveva lustrato il pelo della cavalla, e poi aveva lucidato tutti i finimenti facendone risplendere il nero opulento; infine aveva lucidato la biga, l’ammirata biga marrone scuro in olmo e cuoio. Donato si attardava: poiché lo zio aveva divisato di partire subito dopo pranzo faceva in modo da restare a pranzo con lui. Sarebbe stato giorno grasso. E così fu, infatti: ché quando il ragazzo, allo scoccare del mezzogiorno, fece vista di volersi accomiatare sporgendosi verso la tromba delle scale per annunciare: "Zizì, vado. Allora torno verso l’una!", Rosa insistè perché si fermasse ed ebbe facilmente ragione del debole schermirsi del ragazzo.
Donato accompagnò lo zio alla stazione al treno delle quattordici.
"Dopodomani, a quest’ora, fatti trovare qui!" ammonì il cavaliere
salendo sul treno. "Non dubitare, zizì", rassicurò il ragazzo.

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Fu convocata un’assemblea l’ultimo venerdì di gennaio, alla Casina "Unione e Concordia".
Il cavaliere fece notare l’assenza del maestro e di tutti i membri del Primo Fascio ("che ho invitato personalmente".)
"E anzi, il Maestro – di cui tutti conosciamo il valore!": e non rese esplicito quanto seria o ironica fosse l’affermazione – "mi aveva assicurato la sua importante presenza in pieno spirito di collaborazione e buona volontà".
Lesse poi una lettera di incoraggiamento del sig. Prefetto, ne lesse una del signor Console (in cui, fra l’altro, si facevano voti perché presto si organizzasse militarmente la maschia gioventù montana!); lesse e fece passare tra i presenti il decreto del sig. Federale, con cui gli si dava mandato di "riunire in un’unica associazione tutti i valorosi fascisti Mombellesi".
"Noi siamo perché ci si impegni tutti ad obbedire scrupolosamente all’ordine del sig. Federale, ma… è chiaro che nessuno può essere costretto. E d’altra parte siamo ben in grado di fare da soli, se così dovrà essere, con determinazione e senza timore… e con serenità. Si.
Perché abbiamo la certezza di rappresentare la quasi totalità del popolo di Mombello". L’applauso fu scrosciante e il mandato, dall’assemblea, gli fu affidato in maniera plebiscitaria. Era nato così il secondo Fascio.
Si decise che si sarebbe festeggiato l’avvenimento il prossimo martedì grasso, con un’importante manifestazione.

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"Eccellenza, vorrei innanzitutto protestare la più profonda, leale, disinteressata professione di adesione allo spirito fascista che permea ormai la Nazione e di cui la vostra Eccellenza è esempio vivente qui nella nostra provincia…"
"Certo, certo: non dubiterei mai signor Maestro. Ma si sieda, si accomodi" interruppe il Federale indicando una delle due poltrone e sedendosi sull’altra "D’altronde" proseguiva mentre si lisciava gli orli della giacca, aggiustava sul petto la bandoliera, sistemava il nodo sulla cravatta ben visibile sulla camicia nera benché nero su nero, e insomma rassettava con gesti misurati e svelti l’orbace: "d’altronde, sono stato proprio io a incoraggiarla… E molto mi aspetto da lei, dalla sua cultura, dall’esperienza che le deriva dall’ormai più che trentennale esercizio dell’insegnamento, per la formazione culturale, spirituale di una forte gioventù fascista del suo paese e – oso sperare – dei paesi circonvicini"
"La ringrazio, Eccellenza, ma come può accadere ciò se mi si tradisce e si permette che si venga a seminare contrasti e zizzania sul buon campo che avevo con cura arato e seminato…"
"Si spieghi meglio!"
"Se si consente – riprese il Maestro – che un uomo che da vent’anni fa il bello e il cattivo tempo, che tratta il paese come fosse roba propria, che, – soprattutto! – non ha mai mostrato il pur minimo interesse per il Movimento fascista, ora fondi una sezione fascista in opposizione a quella che io ho già fondato!"
Fu una perorazione inutile: le promesse, gli incoraggiamenti, i consigli non furono smentiti, però il loro senso preciso e sostanziale ora sfuocava nell’indefinitezza dei distinguo, dei se, dei ma, degli "intendevo che". Alla fine si faceva capire che interesse delle autorità provinciali era che nel paese si chiarisse una situazione a lor parere tutta interna al paese stesso; che era loro auspicio si arrivasse a un dignitoso e definitivo accomodamento; che si mettesse da parte ogni risentimento e ogni sterile puntiglio per formare una folta, motivata, entusiastica sezione. Si suggeriva di organizzare in maniera vantaggiosa per tutti l’organigramma delle cariche in modo che ecc. ecc….

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"Maestro, quelli dice che vogliono fare una manifestazione per carnevale. Allora abbiamo perso, ci sciogliamo? E’ così?"
Il primo fascio non si sarebbe sciolto, tutt’altro!
"Siamo noi il Fascio di Mombello. E a Carnevale la vedremo veramente se il vero fascio è il nostro o il loro."
"Ma a Chieti che t’hanno detto?" chiedeva speranzoso e un po’ impaurito qualcuno.
"Ho avuto la stima più piena di quelli di Chieti. Loro, alla fin fine, pensano che sia una questione interna, da risolvere qui in paese. E qui la risolveremo. Intanto, con il coraggio, con la franchezza che ci distinguono, faremo vedere chiaramente che ci siamo".
Le riunioni in sezione, quindi, si infoltirono, le parole sussurrate fino ad allora si cominciarono a dire forte e si cominciò anche a cantare le canzoni. Le si cadenzava al passo con cui si andava al lavoro o alla locanda. I membri del primo fascio, che avevano tutti buoi e mucche, le cantavano tornando dai campi, dall’aratura, dall’abbeverata, dal pascolo, e così il canto perdeva ogni marzialità perché il tempo di marcia si trasformava, sul passo degli armenti, in un misurato andantino che il ritornello rendeva anche buffo per via di un inconsapevole travisamento del testo.
Carmine, che più di tutti si metteva in mostra nelle esibizioni canore, inneggiava convinto, con una forte intonazione velare "HE, HA, HA, per il fascio alalà".
I membri del secondo fascio non si rendevano protagonisti di gesti così folkloristici, tuttavia non è che stessero con le mani in mano: la sezione fu aperta sotto il palazzo baronale, in una delle casupole che lo contornavano; le tessere furono distribuite, le cariche stabilite, le riunioni convocate quotidianamente in vista della prima manifestazione. Sull’uscio campeggiava un imponente Fascio Littorio in legno. Era stato realizzato a tempo di record, con maestria e non senza una peculiare dignità estetica da Leone, il più promettente e talentoso degli artigiani del legno allora presenti in paese.
Sembrava che i due raggruppamenti, senza parere, volessero controllarsi: infatti le due sezioni erano a vista, a non più di un centinaio di metri l’una dall’altra.
Ma fino al giorno di carnevale non ci furono contatti significativi tra i due raggruppamenti, neppure simbolici.
Quel martedì, invece, la comunità entrò subito in fibrillazione: crocchi, bisbigli agli angoli della piazza, un certo trascorrere di passi impazienti e come indaffarati.
Poi, tra mezzogiorno e l’una, ci fu un’ora circa di sospensione piena di ogni animazione. Ma poco dopo l’una, quasi d’improvviso, la piazza si rianimò riempiendosi di gente, che vi arrivava dalle tre strade settentrionali. Si sostava a formar veloci capannelli, si ripartiva verso il palazzo baronale, ci si scambiava veloci saluti dal tono tra imbarazzato e allusivo e quindi si svoltava l’angolo del palazzo, verso la sezione del secondo fascio. Non si vedeva, invece, gente che andasse verso la sede del primo fascio, sicché qualunque attento osservatore avrebbe concluso che il primo fascio non avrebbe tentato neppure un simbolico confronto col secondo. I più informati giuravano di aver visto chi uno chi un altro membro del primo fascio o dirigersi al pascolo, o, zappa in spalla, verso la vigna; il Maestro, poi, sembrava svanito nel nulla, non avendolo più visto nessuno dal sabato precedente.
Ma la forza pubblica sapeva dettagliatamente – questa volta! – cosa si preparava, perciò il maresciallo dispose tre carabinieri a pattugliare la piazza e tenne pronti gli altri nella caserma che, situata com’era tra il palazzo e la piazza principale, era al centro del luogo dove i due cortei, quello del secondo e quello del primo, sarebbero potuti venire a contatto: perché in effetti, anche il primo fascio aveva organizzato una manifestazione che sarebbe partita dalla casa del Maestro e si sarebbe diretta verso la piazza del paese e il Municipio.
Infatti, dopo qualche tempo, la gente che restava sugli usci o alle finestre delle case che si affacciavano su piazza Plebiscito, cominciò a sentire un vociare sempre più forte e un rimbombare di passi e un echeggiare del celebre ‘HE HE, HA HA’. Il primo fascio aveva formato il suo corteo e risaliva dalla contrada della Chiesa Madre verso la piazza. Precedeva tutti il Maestro in bombetta e marsina, seguivano gli altri, agitando i famosi bastoni, rinforzati per l’occasione con chiodi da scarpa. Il passo era insolitamente marziale e spedito e le scarpe chiodate rimbombavano sul selciato dell’angusta strada. Era un gruppo compatto e teso, senza più nulla di folkloristico. Attraversò la piazza e attaccò la costa che portava al palazzo baronale. Questo mise in apprensione il maresciallo che dovette sospettare qualche intenzione aggressiva nei confronti del Municipio, perché fece scendere i suoi uomini nella piazzetta antistante.
Mentre ciò accadeva di qua dal palazzo ecco che l’altro corteo sbuca repentino dall’angolo opposto. Anche questo compatto, guidato da quel famoso Umberto che a suo tempo aveva preso il pugno sotto il mento. Dietro Umberto svettava un vistoso tabellone portato da due nerboruti che lo sollevavano tenendolo per due lunghe pertiche. Rappresentava il Maestro in una caricatura grottesca e realistica: a figura intera, tarchiato, il naso adunco e gli occhi spiritati, in testa la bombetta e sulle spalle la marsina. Sotto la figura la scritta ‘ E’ morto Carnevale, chi lo sotterrerà?/La Compagnia degli Storti gli farà la carità’ come furono a vista, i canti si trasformarono in qualche fischio e confuso vociare. Ma allorché i membri del primo fascio videro il cartellone, scattarono con un urlo verso la testa dell’altro corteo.
"Fermi, fermi, in nome della legge!" tuonava il maresciallo.
"Fermi, fermi o sparo!". Tutto inutile: i dimostranti scattarono di corsa su per la costa per andare a conquistare ed abbattere lo stendardo. Superarono e quasi travolsero il loro Maestro.
"Fermi, in nome della legge!", urlava il maresciallo mentre l’altro corteo serrava le fila pronto a rintuzzare l’assalto coi propri manganelli e le donne – non molte, per la verità, ma quelle che c’erano erano davvero decise e maschie – , urlavano anch’esse a squarciagola levando le braccia e allargando e curvando le dita delle mani ad uncino, come per dire ‘ ti strappo la faccia’ e Zì Teresa (si mormorò) stringeva sotto il grembiule il coltello da cucina, pronta a punire severamente chi avesse toccato il suo Cesarino.
Infine il maresciallo, visto fallire una quarta volta l’invito in nome della legge, comandò ai suoi uomini di sparare in aria. Ci fu una gragnuola di colpi che atterrì e bloccò i due cortei. Nell’attimo di silenzio e sorpresa che seguì, impose: "Vi ordino di tornare alle vostre case. La manifestazione è finita. Disperdetevi!". Mentre i suoi uomini si disponevano sei di fronte a un corteo, sei verso l’altro, coi moschetti spianati.

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Improvvisa com’era divampata la fiammata si spense, ma certo il dissidio continuò a covare sotterraneo. Tuttavia nulla di eccitante trapelò più.
Venne la primavera, venne l’estate: la falciatura, le asprezze degli ultimi giorni tra maggio e giugno, prima della mietitura, la mietitura, l’aratura, la vendemmia… Insomma i lavori presero il posto di ogni altra velleità. Tuttavia i due fasci continuarono a riunirsi: sempre più stancamente il primo, sempre più deciso e sfrontato il secondo.
Ma a ravvivare l’atmosfera e a scaldare gli animi, alla fine dell’inverno successivo, entrò un terzo incomodo.
Era la primavera del ’24 e si approssimavano le famose ultime elezioni. In realtà nessuno pensava che sarebbero state le ultime perché il capitano Fiorenti, che era venuto in paese a fare un comizio, aveva proclamato: "Questa è la prima assemblea quinquennale; la seconda la terremo il ventinove; la successiva nel trentaquattro".
In quell’occasione emerse che in paese c’erano anche coloro che parteggiavano per i socialisti: e fu una sorpresa: non che dovesse esserlo, se si ricorda l’episodio del settembre del ventidue; ma visti gli avvenimenti successivi a quei fatti, chiunque avesse riflettuto sulla situazione politica presente del paese avrebbe potuto pensare che nel frattempo le opinioni si fossero in qualche modo omogeneizzate (e d’altra parte si sa che la gente ha la memoria corta sugli avvenimenti che l’hanno coinvolta e sui quali abbia cambiato nel frattempo opinione; almeno finché qualche nuovo caso non ve la richiami risvegliando nell’animo sentimenti di rivincita, di rivalsa, quando non di rancore).
Il pomeriggio di una mite domenica, dunque, forse quella delle Palme, apparve in piazza Cesare: scala a spalla, secchio e pennello in una mano e rotoli di manifesti sotto l’altro braccio. Comincia con calma il suo lavoro di attacchino. Intorno gli si forma un piccolo capannello di curiosi. Qualcuno scherza:
"Ehi, Cesare, dove l’hai pescato quel partito?"; qualcun altro, tra l’amichevole e il minaccioso, consiglia:
"Cesare, lascia perdere. Cambia presto i tuoi cavalli, finché sei in tempo!"
Cesare ha una risposta per tutti nel suo timbro profondo e gutturale, con la sua inflessione antica, ma non smette dall’eseguire con scrupolo il suo lavoro. Così, attaccato il primo manifesto, scende dalla scala e si sposta più in là, alternando i suoi, che presentavano i vari Tozzi e Troilo, agli altri del listone, in cui facevano spicco i nomi di Paolucci e Cristini.
Ma ecco che arriva un drappelletto di giovani membri del secondo fascio. Sostano, leggono, confabulano e poi uno di loro, Nicola, proclamando: "Fuori i comunisti da Mombello!", solleva uno spigolo del manifesto appena attaccato e lo strappa tra gli urrà e gli applausi dei suoi amici. Incoraggiato, passa al secondo e al terzo, finché arriva sotto la scala di Cesare, la spinge e la fa cadere. Cesare rovina a terra, rovescia il secchio, finisce lungo disteso sulla colla.
Nel breve tempo in cui ciò accadeva, il maresciallo, che avendo visto staccare il primo manifesto, s’era precipitato in piazza con due militi, piombò sull’impertinente, lo ammanettò, lo trasse in caserma.
La notizia si propagò velocemente, passando per le bocche di coloro che, uscendo nella giornata di festa, venivano chiamati e informati o avvertivano l’animazione e il chiasso che intanto si cominciava a levare dalla piazza, e ne chiedevano informazioni a quelli che incontravano. La piazza in breve si riempì e la folla cominciò a dimostrare sotto la caserma, la cui porta rimaneva saldamente serrata.
Più vivaci di tutti, i fascisti più giovani, con slogan e improperi, rumoreggiavano sbandando da un lato all’altro della piazzetta del municipio, ora avvicinandosi minacciosamente alla porta della caserma (senza tuttavia mai sfiorarla), ora allontanandosene per esortare, chiamare, coinvolgere altri gruppi o singoli che sopravvenivano. Adelmo, quando vide spuntare suo padre dalla parte di via del Popolo, gli corse incontro e cominciò a gridare: "Papà, voglio vendetta! Vogliamo vendetta, papà!" e lo precedeva arretrando pericolosamente verso la scarpata e lanciando in aria il berretto.

°°°

Qualcuno, più avveduto, era corso dal Cavaliere. Lo trovò sull’uscio di casa, intento a chiuderlo, giacché si avviava alla passeggiata pomeridiana:
"Corri, Vincenzo, ché succede il finimondo!".
Il Cavaliere lo calmò, si fece raccontare per filo e per segno i fatti, riaprì la porta e corse in casa gridandogli:
"aspettami, non ti muovere!".
Poco dopo riapparve con la fascia tricolore sulla giacca.
"Andiamo", disse tirandosi dietro l’uscio, che non chiuse a chiave; e si mosse con passo deciso seguito dallo zelante informatore come un segugio segue il cacciatore. Così che, quando giunse nella piazzetta antistante la caserma cinto – il preveggente! – della fascia tricolore, i rivoltosi tacquero e gli aprirono un corridoio nel quale egli passò deciso e scuro in volto. Suonò la campanella. Dopo qualche attimo la porta si aprì e apparve il maresciallo in persona.
Per quanto non perfettamente chiara, la situazione parve subito speciale agli occhi dei ragazzini che si erano intrufolati tra le gambe dei dimostranti e ora erano in prima fila ai lati delle due supreme autorità paesane.
Il dialogo fu fitto e scoppiettante e durava a lungo; tanto che a un certo punto scese sull’uscio, per sostenere il marito, la moglie del maresciallo. Ma questa nuova situazione infastidì il Cavaliere il quale, puntandole l’indice sul viso le intimò:
"Lei, signora, vada ad accudire alle sue faccende domestiche!".
E poi, ergendosi nella più piena autorità, al maresciallo:
"E lei, comandante, si metta sull’attenti di fronte ad un Ufficiale dello Stato Civile e – messosi il maresciallo davvero sull’attenti! – : liberi il prigioniero!".
Sicché Nicola, poco dopo, apparve , spavaldo come un Ciceruacchio, tra gli applausi dei suoi. Ma anche questo infastidì il Cavaliere, per quanto sia le ovazioni della folla che la sicumera di Nicola non fossero che un riflesso della sua ennesima dimostrazione di potere: ma quelli erano altri tempi, tempi in cui l’idea del potere non era ancora del tutto avulsa dal senso del servizio alla comunità, né si esercitava senza una profonda gentilezza e un’accurata discrezione. Del resto, prendersi cura di Nicola era per lui una fastidiosa, ma inevitabile incombenza, dati i legami di affinità che lo legavano ai suoi genitori.

°°°

Le elezioni ebbero, anche a Mombello, l’esito scontato che tutti sappiamo. Ma ci furono alcuni voti per i candidati di sinistra. Dunque, il nodo che volevano sciogliere gli onorevoli Paolucci e Cristini, in occasione della visita di ringraziamento postelettorale ai Mombellani, programmata per il mese di maggio, era quello della piena fedeltà al fascismo – e a loro due personalmente – delle due fazioni presenti in paese e in particolare del cosiddetto primo fascio.
Della fedeltà del Cavaliere, in verità, essi non dubitavano, e di quella dei membri del secondo fascio erano propensi a pensare che garantisse il Cavaliere. Sulla tenuta del primo fascio e del Maestro personalmente sembrava lecito nutrire qualche dubbio, visto come si erano svolti i fatti relativi alla distribuzione del potere nel paese.
In particolare erano preoccupati per il futuro: non che ci si potesse aspettare una fronda consistente al partito fascista, ma la sola idea che si potesse coagulare una presenza appena visibile di opposizione nel loro collegio elettorale li infastidiva. Dunque, bisognava in ogni modo sanare la ferita che si era aperta in seno alla comunità ed avere una dichiarazione piena ed esplicita di fedeltà da entrambi i movimenti.

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La domenica era davvero incantevole: piena la fioritura, mite l’aria, misterioso per la distanza il canto del cuculo.
I membri del primo fascio si mossero per tempo, in corteo, ed andarono ad accogliere gli onorevoli qualche centinaio di metri fuori dall’abitato dove, dalla strada provinciale, un tratturo si stacca e sale verso l’altopiano e il bosco del Pesco. Di qui la vista sui boschi d’abete e sulla valle che, a destra, scende verso il fiume è, nei giorni luminosi come quello, di una bellezza da brividi, quasi dolorosa. Ma i nostri personaggi non se ne avvedevano, presi com’erano dall’eccitazione di chi sa che sta giocando lo scherzo risolutivo ai propri avversari e dal timore di chi teme che da un momento all’altro potrebbe accadere qualcosa che manderebbe a monte i propri progetti.
Organizzarono un vero e proprio apparato, sbarrando la strada con un lungo palo adorno di edere, e vi si disposero di fronte e ai lati.
Ed ecco il rombo dei motori e subito dopo apparire il corteo formato da quattro motociclisti che precedevano e seguivano l’automobile degli onorevoli. Il corteo, in vista dell’apparato, rallentò fin quasi a procedere a passo d’uomo. Ma quando fu giunta proprio a ridosso dell’apparato, o che la scorta fraintendesse le grida e gli sventolii di mano dei dimostranti, o che gli onorevoli avessero dato qualche segno di non volersi fermare, fatto sta che i militi, scesi dalle moto, dispersero bruscamente tutti, liberarono velocemente la strada e altrettanto velocemente ripartirono avvolgendo gli sbigottiti in un nuvolone di polvere.
Alle prime case del paese, invece, attendeva il Sindaco in fascia tricolore, attorniato dal Consiglio comunale al completo e seguito a rispettosa distanza dai dirigenti e membri della sezione del secondo fascio.
I saluti e le presentazioni furono rispettosi e gioviali. Il Sindaco mostrò di avere conoscenza piena, seppur non confidenza, con entrambi gli onorevoli e in particolare con Paolucci.
"Saluto con deferenza gli onorevoli rappresentanti della forte popolazione del Sangro", esclamava il Cavaliere salutando i due.
Questi ringraziarono con parole cortesi e un po’ d’occasione, ma strinsero con vigore tale la mano a tutti i consiglieri e dirigenti e ad alcuni membri del fascio, da farli sentire, tutti e singolarmente, importanti.
Quindi in corteo ci si mosse verso il paese.
La riunione e i discorsi ufficiali si tennero nella sala del secondo fascio. Furono discorsi per l’appunto ufficiali e d’occasione, almeno all’apparenza, che molti tra la folla non capirono e non seguirono; sicché quasi a tutti sfuggirono gli accenni, neppur troppo velati ai risultati elettorali di cui il Cavaliere rivendicò elegantemente il merito.
Gli onorevoli ringraziarono con discorsi non privi di una retorica piuttosto dannunziana che fascista, eleganti e ricercati nel lessico e nella sintassi, sicché anche le loro parole scivolarono sull’attenzione della folla senza lasciarvi quasi traccia. Del resto, nelle menti della gente s’agitava l’interrogativo di cosa si sarebbe detto a proposito del primo fascio.
L’attenzione, infatti, si ridestò e divenne elettrica quando si sentì l’onorevole Paolucci chiedere con tono tra esortativo e imperativo:
"Chiamatemi il Maestro Sponsali".
Un nugolo di persone mormorando si mosse: "Dove sarà? Prova alla sezione! Va’ tu a casa…"
"No, non è a casa. Vado io", disse qualcuno tra quei suoi sostenitori che avevano avuto il coraggio di entrare nell’assemblea.
Questi, infatti, sapeva che il Maestro, seppure alla lontana e discretamente, aveva cercato di non perdere i contatti con gli avvenimenti. E infatti egli sostava nelle vicinanze, in casa di un suo fidato.

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La tensione, l’emozione divennero palpabile silenzio quando il Maestro, poco dopo, entrò. La folla si aprì ed egli avanzò verso il banco della presidenza, dove sedevano gli Onorevoli.
Ci fu un discreto parlottio, di cui poco resta alla memoria di coloro che furono presenti. L’onorevole Paolucci parlò di Patria, di Fedeltà, di Onore… Infine si sentì il Maestro proclamare: "Giuro" (e a quel giuro chi alzò lo sguardo lo vide con la mano sul cuore):
"Giuro sulla tomba di mia madre che ho dato il voto all’onorevole Paolucci".
Si concludeva così, malinconicamente, una vicenda che era nata per essere vissuta eroicamente.

Domenico e Donato Di Luca


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