Mezzecalzette
un racconto di
Cesare Palmieri
(tratto dalla raccolta "Racconti Sangritani")


Da alcuni giorni, galletti e pollastrelle erano in grande agitazione nei loro pollai. La cosa non riguardava i polli adulti, che se ne restavano, al contrario, piuttosto mogi.
Zì Mingh non se ne capacitava, ma da uomo razionale qual era, cercava di dare un spiegazione logica all’accadimento.
Forse una volpe si stava aggirando nei paraggi, e si sa che i polli sono attenti e sensibili ai rumori insoliti e nulla sfugge alla loro vista acuta.
Aveva pensato subito alla volpe, ma intendeva riferirsi, in generale a qualsiasi altro tipo di mustelide (una faina, martora o donnola), che avrebbe potuto insidiare il suo pollaio.
Nella stalla si diede da fare a tendere trappole ad ogni possibile passaggio, piccolo o grande che fosse. Inchiodò un asse sulla cavùta (1) del gatto, riassestò la vecchia porta che non combaciava, tirò giù la spondapéta (2) della finestrella e passò in attenta rassegna le tavole del tetto, qualora il predatore avesse portato l’attacco dall’alto. Infine, per non trascurare proprio nulla, si appostò per due-tre notti di seguito, dietro una balla di paglia, con la roncola fra le mani.

Del predatore neanche l’ombra!

Ovviamente aveva messo al corrente la moglie, se non altro per giustificarsi con lei per la sua preferenza a passare la notte nel pollaio, piuttosto che a letto, in sua compagnia.
La moglie ne parlò con le comari del vicinato che, guarda caso, avevano lo stesso problema, confermando che il fenomeno avveniva anche nei loro pollai.
Ne riferirono, a loro volta, ai loro mariti e quest’ultimi ne parlarono tra loro nella bettola, tra una partita di tressette e mezzo litro di vino.
Qualcuno di loro avanzò un’ipotesi catastrofica: gli animali si agitano prima di ogni terremoto, perché sono provvisti di un sesto senso (di cui gli uomini difettano). Hanno la capacità di sentire ciò che avviene sotto la crosta terrestre e ne captano le vibrazioni con largo anticipo.
Alla fine furono tutti d’accordo che, potendo scegliere tra la volpe ed il terremoto, sarebbe stata preferibile la strage volpina.
-Eh, bravo!- Sbottò la moglie di Pagliuca, quando il marito, rientrato dalla bettola in compagnia dell’amico Falasca, le aveva riferìto la cosa.
– Preferisci la volpe!? E se mangia tutti i pollastri, j port l’ coss tè (3) a don Meraviglia, che si sta dando da fare per trovare un posto di usciere a Felicetto nostro? Proprio fra giorni tornerà per le ferie d’agosto!
- Cazzo! - disse il Falasca, battendosi la mano sulla fronte, come colpito da improvvisa illuminazione - Ora capisco perché sono agitati i nostri pollastrelli: fra poco arrivano le Mezzecalzette! Altro che volpi e terremoti: sentono odore d’arrosto!-

Nei primi anni del novecento, alcune tra le famiglie più abbienti del paese, avevano pensato bene di rompere quel circolo vizioso che aveva sempre condannato i figli a seguire il mestiere dei padri e condividerne la sorte grama. L’unica via sarebbe stata quella di munirli di un buon livello d’istruzione che permettesse loro di tentare un’occupazione fuori dagli schemi tradizionali, di farli vivere in un ambiente più aperto e più ricco di opportunità.
A costo di indicibili privazioni li avevano mandati fuori a studiare, fino al conseguimento della laurea: il massimo per quei tempi.
Quei giovani (cinque o sei in tutto) avevano ripagato gli sforzi profusi con un comportamento responsabile, sapendo che l’alternativa sarebbe stata la zappa o, al massimo, l’apprendimento di un mestiere.
Lo sbocco era stato, per la maggior parte di loro, l’entrata nell’Amministrazione dello Stato.

Cosa avrebbe potuto fare un giovane che proveniva da un paesetto della Val di Sangro, senza conoscenze importanti, in una società agli albori dell’industrializzazione? Contare solo sulle proprie forze!
L’entrata nell’Amministrazione era stata sicuramente facilitata da un equilibrato rapporto fra domanda ed offerta, ma bisogna riconoscere che quei giovani, provenienti da un ambiente povero e ben consapevoli degli sforzi fatti per l’elevazione del loro status, possedevano una grinta ed una determinazione inimmaginabili per chi era nato in città, in un ambiente moderno, abituato ad una vita facile. Sicché, una volta dentro, erano riusciti a fare una rapida carriera ed avevano raggiunto, ben presto, posti direttivi, ognuno nel proprio campo.
Alcuni erano diventati Segretari di prima classe nei Comuni di grandi città, altri funzionari nei Ministeri, qualcuno era diventato Grand-commis dello Stato, persino un notaio.
Avevano “sfondato”. Ma tutto ha un prezzo: per i genitori, la perdita dei figli, costretti a vivere sempre lontani dalla loro casa e dai loro affetti; per i figli, lo sradicamento dal proprio ambiente e l’anonimato cui si è condannati in una grande città.
Puoi essere rispettato o temuto dai tuoi sottoposti dell’Ufficio, ammirato da una ristretta cerchia di addetti ai lavori, ma, una volta uscito fuori dall’ambito lavorativo, nessuno ti conosce, nessuno ti apprezza, nessuno ti caca!
Questo è il destino dell’uomo: o vivi in una piccola comunità, dove tutti sanno chi sei, tutti ti conoscono, tutti ti controllano, tutti ti giudicano, tutti ti chiedono dove vai, dove sei stato, cosa sei andato a fare, insomma tutti ti rompono le palle; o vivi in una grande città, dove ti senti solo in mezzo alla folla, un numero fra i numeri, un uomo da spintonare, da sorpassare, qualche volta da depredare.
O fai l’eremita.
Allora per la società sei un matto; nel migliore dei casi, un originale, un disadattato, un problematico.
Stando così le cose, è facile immaginare come, quegli uomini di successo, che tanto avevano faticato per scappare dal paese natio, non desiderassero altro che ritornarvi, appena possibile, per ritrovare la propria identità perduta, per tornare ad essere una persona, ammirata e rispettata da una più vasta platea: dal proprio mondo. Era come rientrare nel ventre della madre.
Ai “nostri”, l’occasione si presentava una volta l’anno: le ferie agostane. Tornavano tutti nello stesso periodo, come le rondini, dopo la lunga emigrazione nelle terre d’Africa.
Arrivavano alla spicciolata, quasi sempre soli, a bordo del calesse che faceva da servizio postale tra la lontana stazione ferroviaria ed il paese.
Di automobile neanche a parlarne: superflua per quegli uomini spartani. Di natura sparagnina; inutile come status symbol, di cui non avevano certo bisogno.
Lasciavano volentieri che le loro famiglie se ne andassero a fare le ferie dove volessero. Quella era l’occasione buona per starsene un mesetto in pace con le vecchie madri, felicissime di goderseli, tutte da sole, quei grandi figli, senza le nuore forestiere che avevano sempre la puzza sotto il naso.
Giocavano a scopone davanti al bar, o passeggiavano lungo la strada nuova, disponendosi a ventaglio.
Verso le dieci antimeridiane si riunivano, quasi sempre davanti alla casa di zì Vincenzo.
Sedevano su sedie impagliate, a conversare tra di loro. Usavano un linguaggio aulico; parlavano di leggi, di consultazioni a palazzo Madama, ciascuno dando importanza al proprio lavoro.
Quando passava un contadino, che si toglieva immancabilmente la coppola, si scappellavano a loro volta, facendo domande sul raccolto, sul tempo, sui loro familiari, esprimendosi in un dialetto stretto, ormai desueto per i più.
Portavano lobbie o pagliette o cappelli di panama e, solo nel caso di una giornata torrida, si toglievano la giacca, mostrando braccine bianchicce, da funzionario statale.
Ma la loro caratteristica peculiare, che li faceva diversi dagli indigeni, erano le calze a mezza gamba. Da qui il motivo per cui erano chiamati “Mezzecalzette”.
In paese, alcuni non le portavano affatto, altri portavano pedalini di lana, (in inverno e in estate), fatti dalle nonne, con cinque aghi, senza andare daccapo, con una punta talmente lunga che bisognava piegarla sotto la pianta del piede. Chi era stato sotto le armi, si fasciava le estremità con le ”pezze da piedi” che aveva sottratto all’esercito, alla fine della naia. Nessuno portava le calze a mezza gamba: quelle erano il distintivo riservato agli intellettuali. Ai Don.
Quando accavallavano quelle gambe secche, mostravano calze di seta o di rayon trasparenti, tenute su da una piccola giarrettiera, fissata, tra la cocla (rotula) del ginocchio e l’inizio dello stinco. Mai che mostrassero una calza miseramente afflosciata sulla caviglia!
Qualcuno di loro, seguendo la decadente moda dannunziana, portava le ghettine bianche “come afa di neve”, su scarpe bicolori.
Quelle ghette colpivano molto i contadini, che non ne comprendevano la funzione: era impensabile che gente così “altolocata” avesse necessità di rivoltare taraponi! (4) Quelle ghettine scomparvero definitivamente dall’abbigliamento dei Don, dal giorno in cui era passato davanti a loro Pietro l’Agnonese, col bidente in spalla, reduce dall’aver fatto il maggese, in quel di Pilo. Le sue grandi uose, (stuviél), di evidente utilità e portate con naturalezza, erano così maschie che, al loro confronto, quelle ghettine potevano al massimo far ridere i polli (se non fossero stati così seriamente preoccupati per la loro prossima fine).
Il loro arrivo era atteso dai residenti, impazienti di omaggiarli col meglio di cui potevano disporre e che avrebbe potuto far loro piacere.
Si partiva dalla cambisella (5) di ricotta, alle uova fresche, appena fetate, alla friscelletta (6) di cacio fresco (detta anche macciuocch), ai pollastrelli ed al non plus ultra fra i doni: il prosciutto.
Non si pensi che i residenti fossero degli allocchi: tutt’altro! Erano semplicemente delle persone previdenti, con l’occhio lungo.
“Ti faccio un omaggio, ma bada che, da te, mi aspetto un ritorno: fosse un semplice consiglio, la stesura di una domanda, la composizione di una controversia, una raccomandazione, un impiego (‘n puost) ad un figlio.”
Molti lo facevano senza uno scopo palese ed immediato, ma a garanzia di un futuro bisogno. In questo caso la richiesta veniva tenuta in stand-by: “sappi che, se avrò bisogno, non potrai tirarti indietro!”
L’offerente non immaginava quale onere avrebbe procurato al destinatario del suo dono o, se l’avesse saputo, si sarebbe trattato pur sempre di una furbata da parte sua.
Trovare un posto di lavoro, fare una raccomandazione avrebbe comportato, in molti casi, di dover dipendere da altri, contraccambiare, mettere in moto un giro di persone, fare telefonate, assumere obbligazioni, essere insistenti.
Il dono presentava sempre e comunque un conto salato. Sarebbe stato più comodo, per i Don, comprarsi un prosciutto o un pollastro che prendersi tutti quei fastidi.
Allora perché l’accettavano? Per il contenuto simbolico che il dono portava con sé: il riconoscimento del loro status o del loro potere, una chiara testimonianza di rispetto e di deferenza. Il dono come indicatore del grado di stima dei compaesani.
Così stavano al gioco, anzi ne erano perfino lusingati, e si controllavano l’un l’altro, facendo comparazioni fra chi ne ricevesse di più, prendendosi in giro tra di loro, arrivando allo sfottò indiretto: “qualcun pass l’ jurnate a r-cuttèll”, (7) alludendo alla scarsa considerazione in cui era tenuto il collega.
In quel gioco delle parti, ciascuno traeva il proprio vantaggio: è difficile dire chi ci guadagnasse di più.


Per tutto agosto, nel paese era stato un andirivieni di donne con cestini, vassoi, mildine, (8) pollastri appesi a testa in giù.
Statisticamente parlando, a causa del loro valore medio, quest’ultimi erano stati l’omaggio più gettonato. Alla fine del mese nei pollai erano rimaste soltanto le vecchie galline.

Solo ai primi di settembre, partite le Mezzecalzette, zì Mingh tirò un sospiro di sollievo: d’ora in poi, finalmente, avrebbe potuto mangiarsi ‘n uvicill frisch! (9)
Entrò nel pollaio e trovò le vecchie galline che facevano una danza strana:
giravano in tondo, con un’ala abbassata ed il collo attorcinato.
- Plamadònn, (10) ci mancava anche questa, non potevano bastare le Mezzecalzette?! – sibilò.
Era arrivata la peste aviaria, che, in quei tempi non ancora tecnologici, veniva chiamata, arcaicamente, pipìta.

Ma la tenacia del montanaro è proverbiale: in cuor suo zì Mingh stava già pensando di recarsi a Villa Santa Maria, alla prossima fiera di Marzo, per comprarsi un gallo ed un paio di galline. Intendeva ricominciare dalla v’locch. (11)


1 Piccola finestrella ritagliata sulla porta, per permettere al gatto di entrere ed uscire e suo piacimento
2 Il Sali-scendi,
3 Le tue gambe. Un modo per dire “non ho altro.”
4 Grosse zolle di terra, che il bidente rivoltava durante il maggese
5 Formina a tronco di piramide, bucherellata.
6 Canestrello di giunco.
7 Quello passa le giornate a ricottine
8 Un oggetto avvolto in un tovagliolo bianco, tirato su per i quattro angoli.
9 Un ovetto fresco.
10 Più che una bestemmia, un intercalare frequente nel linguaggio contadino.
11 Chioccia.


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