Ciliegie
un racconto di
Cesare Palmieri
(tratto dalla raccolta "Racconti Sangritani")


- Dumàn port ‘l ciràsce a la mundàgn - (1)
La comunicazione fatta da ‘Ndreije (2) alla sua famiglia non suscitò sorpresa alcuna: era chiaro che le ciliegie erano già belle mature e non potevano attendere più di un paio di giorni per essere raccolte.
Portarle nei paesini di montagna equivaleva spuntare un prezzo maggiore di quello che si sarebbe ricavato nel più vicino ed agevole mercato di Lanciano. Lassù, a causa del clima più freddo, la produzione di altura avrebbe avuto bisogno ancora di un mesetto per essere pronta.
Quelle ciliegie sarebbero state autentiche primizie. Certo che il viaggio sarebbe stato lungo e faticoso: bisognava viaggiare quasi tutta la notte e superare un dislivello di otto-novecento metri, in media, percorrendo una strada tortuosa ed assurda, ma il gioco valeva la candela.
Per la moglie Filminuccia, detta Nuccia, ed i tre figli Niculìn, ‘Nduniucce e Pasquìn, scodellati un dopo l’altro, ad un anno di distanza, l’annuncio equivaleva ad un ordine di levare le chiappe e darsi una smossa.
Ciascuno sapeva ciò che andava fatto e non c’era bisogno di perdersi nei dettagli: quando parlava il padre, nessuno osava fiatare, né tantomeno, obiettare.
Quella legge non scritta, ma scrupolosamente osservata, era il quadro di riferimento per tutti i figli, il fondamento della loro educazione.
Poche parole del capofamiglia (a lungo meditate, per evitare disastrose retromarce) e nessuna obiezione.

In ciò era egregiamente coadiuvato dalla moglie: non prendeva mai le difese dei figli in loro presenza. Se il marito aveva ecceduto in severità, glielo faceva notare, pacatamente, tra i filari di tabacco, lontano da orecchie interessate.
Di fronte a quel muro compatto, i figli non avevano alcuna possibilità di farla franca.
La famigliola viveva su quel tomolo scarso di terra, situato nella pianura attorno a Peràno. Terra buona ed irrigua, ma l’appezzamento era troppo piccolo per sfamare cinque persone. ‘Ndreije si arrabattava con la coltivazione intensiva, specie dell’orto. La casetta, ad un piano, consisteva in una cucina e una camera con letto famigliare. Al muro esterno era attaccata la stalla per l’asino, con un ballatoio, per la conservazione del fieno.
Era costruita ai margini del podere, con la sua piccola facciata bianco-azzurra, per via della spruzzata di solfato di rame, che ‘Ndreije dava, ogni tanto, sulla vite di uva fragola, abbarbicata all’abitazione.
Dietro la casetta, quattro ciliegi, di cui solo tre utilizzabili, perché quello più vicino alla stalla produceva ciliegie col vermetto. Sarà stata la vicinanza col pozzo nero o una particolare corrente d’aria, sta di fatto che, una volta accertato l’inconveniente, nessuno saliva più su “lu v’rminus (3) (così, ormai, lo chiamavano tutti). Gli altri tre producevano ciliegie grandi e dure, da fare invidia a quelle, pur rinomate, di Vignola.
Oltre gli alberi, ‘Ndreije, come già detto, aveva adibito un pezzo di terreno ad orto, che la moglie coltivava ad insalata, pomodori e legumi vari. Essa stessa portava quei prodotti nei paesi vicini. Li metteva su una larga cesta, poggiata sulla spara (4) e tenuta in bilico sulla testa.
Più oltre, un filare di una diecina di pèschi, che producevano profumatissime precòche (5) . Oltreché per l’aspetto puramente economico, quelle precòche erano per lui motivo di orgoglio, quando le portava al mercato. Con la loro pelle vellutata, che racchiudeva tutti i colori caldi del sole, la polpa succosa che deliziava il palato ed il profumo di erbe selvatiche erano diventate sinonimo di bellezza per tutta la valle, tanto che il termine veniva usato anche per indicare una bella donna, (che bella precòca!,) o per esprimere un’ammirata invidia (tè ‘na precòca d’ moije! ) o un ottimo stato di salute (tè ‘na facce bianch e rosce come ‘na precòch!)
Sul resto del terreno, ‘Ndreije piantava il tabacco: una coltivazione diffusa nella piccola pianura, una volta scoperto che, da quel terreno,

veniva fuori un tabacco di qualità eccellente. La coltivazione era faticosa, almeno riguardo alla raccolta, fatta foglia per foglia, mano a mano che maturavano lungo lo stelo.
Le foglie venivano poi inflarate (6) con ago e filo, tese fra i telai ed esposte al sole.
A questa bisogna erano addetti i ragazzi, che, col tempo, erano diventati abilissimi.
Non c’è dunque da stupirsi se, venuti a conoscenza delle intenzioni del capofamiglia, di cogliere le ciliegie, ciascuno si desse da fare, secondo il proprio ruolo.
I ragazzi si muovevano agilmente per la campagna, a piedi nudi e le piante dei loro piedi, col tempo, si erano trasformate in una spessa callosità, a prova di tutte le asperità e delle spine che inevitabilmente pestavano.
Niculine, il maggiore dei tre, andò a prendere la scala a pioli e l’appoggiò al primo dei tre ciliegi, legò ciascuno dei due cestini ad una corda (uno per sé, l’altro per suo padre) e salì per primo, diretto ai rami più alti, perché meno adatti a sopportare il peso di un adulto.
‘Nduniucce s’inoltrò nel canneto, a preparare i supporti per una trentina di mazzicarelle (7) e Pasquìn andò verso il fiume, in una zona in cui crescevano i giunchi, per le legature delle medesime.
La madre, sotto l’albero, era addetta a sganciare i cestini pieni, che man mano venivano calati dall’alto: li rovesciava sul tavolo, mondava le ciliegie dalle foglie, separava le più belle, quelle con i piccioli a due o a tre, da destinare alle confezioni a grappolo ed, infine, depositava delicatamente il resto nelle cassette di legno, adatte al trasporto.
I due ragazzi più piccoli erano ormai rientrati e Nuccia iniziò il suo lavoro di confezionamento. Una vera opera d’arte! Il lavoro si protrasse per tre ore circa.
Si era fatto tardi e la famigliola si sedette attorno al desco per una cena frugale; poi tutti a riposare.
Meno ‘Ndreije: per lui il lavoro più duro cominciava proprio ora.
Si portò dietro casa e tirò fuori Spaciò dalla stalla.
Spaciò: così il piccolo Pasquine aveva chiamato quel bardotto, di piccola taglia, ma forte e muscoloso, quando il padre l’aveva riportato dalla fiera di Lanciano; da allora tutti lo chiamarono in quel modo. Sistemò l’animale tra le stanghe del traìno, (8) gli infilò il muso nel bucco (9) pieno di avena e caricò le cassette già approntate dalla moglie.
Ora passò alla messa a punto del mezzo di trasporto.
Ingrassò il mozzo delle ruote e, usando lo stesso straccio unto, dette una passata alla vite senza fine della martinicca. Infilò poi la frusta nell’apposita sede, mise il petrolio nel lanternino, l’accese e lo sistemò sotto il pianale del carro. In quei tempi di guerra, con le incursioni aeree notturne, era la sola lucina permessa, perché nascosta. Rientrò a casa per vestirsi.
Per ‘Ndreije, andare al mercato significava andare ad una festa; di conseguenza si vestiva adeguatamente, non per vanità, ma per il rispetto che si porta, quando si va in casa d’altri: era una regola dettata da quella buona educazione contadina, allora in vigore.
S’infilò i calzoni a mezza gamba, stretti poco più giù del ginocchio, i calzettoni bianchi di lana, tenuti su da cordicelle terminanti in due pon-pon colorati, calzò le chiòchie (10) a punta, quelle da festa.
Nei giorni feriali si portavano le chiòchie ordinarie, a punta arrotondata, fatte, perlopiù, con gomma di vecchi copertoni d’auto e rozzamente assemblate, alla lunetta della punta, con fil di ferro.
Le chiòchie vere erano realizzate in pelle, col pelo, a punta rialzata. Erano traforate ai margini, da tanti forellini, attraverso cui scorreva una lunga e stretta correggia che chiudeva il calcagno; si diramava, quindi in due fettucce che s’incrociavano lungo il polpaccio. Sulla camicia a quadrettini indossò una bella camisciòla. (11) Sulla testa, l’immancabile coppola.
Allora, perché farla tanto lunga? “Un ciociaro spiccicato”! Eh, no! Forse un pastore schipetaro! Che c’entra l’Albania? C’entra, c’entra!
Sulla costa abruzzese son passati popoli di ogni provenienza: i Turchi, i Saraceni, i Greci, i Longobardi, gli Spagnoli, gli Slavi, gli Zingari: perché non gli Albanesi? Non si arriva prima dall’Albania a Peràno, che non da Peràno a Castel di Sangro, percorrendo la famigerata, quanto assurda strada Sangrina?
‘Ndreije completò la preparazione: controllò la tenuta dei ferri sotto gli zoccoli dell’animale, strinse il sottopancia, sfilò il bucco dalla testa di Spaciò. Passò poi le briglie oltre le orecchie del bardotto e, con un agile salto all’indietro, s’installò sul carro, restando con i piedi penzoloni.
- Ahà, Spaciò -
Bisognava portarsi al bivio con la nazionale ed iniziare quel calvario che ha reso la vita difficile a generazioni di valligiani, siano stati essi animali, persone singole o viaggiatori su corriere.
Dopo l’unità d’Italia, si era deciso di por man alla sistemazione delle strade del Regno: fra queste la fondovalle Sangrina, che, stando al nome, avrebbe dovuto scorrere in-fon-do-al-la-val-le.
Invece no, perché il ministro dei trasporti del neonato regno era un valligiano di Botto!
Persona di profonda cultura, di grande intelletto, di rigore morale come pochi; e lo fu anche dopo essere entrato in politica (sic!), ma l’amore per il proprio paese natìo è troppo grande e, se c’è da dare una mano, non ci si sottrae. Per somma sfortuna Botto non si trovava a fondovalle, ma a mezza costa, a quattrocento metri sopra, abbarbicata attorno ad una strada tortuosa: una carrareccia. Fu più facile elevare, per Regio Decreto, quella carrareccia alla dignità di strada statale che farne una nuova: oltre al risparmio si era evitato l’isolamento completo di Botto.
I concittadini, memori, ricavarono uno spiazzo al lato della strada che passava per il centro e gli fecero un monumento.
Tutto ciò causò un danno enorme ai valligiani che si trovavano a monte: per loro fu come se avessero spostata la costa adriatica di una quarantina di chilometri, tenuto conto del tempo occorrente per colmare il percorso. La conseguenza fu un ulteriore isolamento dei montanari, che, per più di un secolo e mezzo, sarebbero stati costretti a gravitare ad ovest della valle, verso il Molise e Castel di Sangro, testa di ponte con Napoli.
Per arrivare a Botto, sia dal mare che dai monti, questo tracciato, a fondo brecciato, (12) seguiva tutte le anfrattuosità naturali, assecondava ogni calanco, il letto di ogni ruscelletto, deviava continuamente per le piccole frane; insomma un’ ossessiva ripetizione di un dentro e fuori, con curve e contro-curve, spesso a gomito, che procuravano, agli sfortunati viaggiatori, prima un terribile mal di testa, poi l’immancabile svuotamento di stomaco. Per quel motivo (e con malinconica ironia) i viandanti cominciarono a chiamare quel paese “Botto di vomito”.
Quando iniziarono la salita, il traìno fu avvolto da uno sciame di lucciole: sembrava di essere nel mondo delle fate.
‘Ndreije appoggiò la schiena sul pianale del carro e, stando supino, poté osservare il magnifico cielo stellato che copriva la valle come un drappo di velluto, trapuntato da preziosi diamanti. Le stelle, grandi come uova, pulsavano come dovessero schiudersi per dare una vita nuova e si aveva la sensazione di poterle prendere fra le mani.
“Com’è bella questa valle!” pensò; poi si rammaricò di essere il solo a godere di questa vista. Avrebbe voluto, accanto a sé, la sua Nuccia, per ringraziarla di essergli stata sempre accanto, per la bella famigliola che aveva saputo crescere, per il modo con cui aveva allevato i suoi figli, per il suo amore devoto. Gli venne l’impulso di raccogliere tutte quelle stelle e portargliele in un cesto grande come il mondo; infine prenderla fra le sue braccia e vagare con lei per quel cielo stupendo.
Vagheggiò di prendersi con lei tutte quelle libertà che erano loro negate in quel lettone troppo affollato, dove dovevi muoverti con cautela, quasi fossi un ladro; evitare ogni vibrazione, per non svegliare i ragazzi; trattenere il respiro, soffocare in gola anche il piccolo grido, quando urgeva irrefrenabile.
Sognava ad occhi aperti, ‘Ndreije, e quando gli si chiusero per la stanchezza, il sogno proseguì nella stessa direzione di prima, senza soluzione di continuità con il reale.
Volò in alto ed incontrò Nuccia che lo cercava anch’essa, perché sognavano la stessa cosa. Vagarono abbracciati fra le stelle facendo caplotte (13) pazzesche, in assenza di gravità.
Si aggirarono fra innumerevoli costellazioni, alla ricerca della più bella, quella delle Pleiadi; ma si era nel solstizio d’estate ed era impossibile vederla: si era portata troppo a nord. Si deliziarono prima fra Castore e Polluce e, dopo un lungo vagabondare, si fermarono sopra il pianale dell’Orsa, pudicamente, per tema di essere visti dal basso.
‘Ndreije non avrebbe dovuto addormentarsi così presto. Ci sarebbe stato bisogno del suo intervento sulla martinicca per aiutare l’asino ad affrontare la discesa, frenare prima delle curve, attutire la zahaije (14) che il traìno avrebbe preso nella lunga discesa, ma l’enorme stanchezza l’aveva vinto e Spaciò fu lasciato a sbrigarsela da solo.
Questi avvertì subito di non essere più governato e si comportò come la consuetudine e l’istinto gli suggerivano. Quando giunse davanti al monumento del Ministro fece come tutti i viandanti: vomitò sulla strada e, aggiungendo di suo, giacché c’era, si svuotò del resto (solido, liquido e gassoso).
Asino di un sovversivo!
Se ‘Ndreije fosse stato sveglio, per eccesso di quell’educazione contadina, già accennata in precedenza, ma anche per un inconsapevole ed atavico atteggiamento servile del povero verso il potente, avrebbe preso la coppola in mano e si sarebbe scusato col simulacro del Ministro, implorando comprensione per quel gesto irrispettoso.
- Perdonate, eccellenza - avrebbe detto – si tratta di un animale che non conosce le buone maniere, proprio un asino, anzi un asino bastardo -
E giù una frustata fra le orecchie diSpaciò, per avvalorare la genuinità di quel suo rammarico: fortuna, per l’asino, che ‘Ndreije stesse dormendo!
Quando iniziò la discesa, Spaciò notò che il suo padrone era ancora assente. Sentì che il traìno lo spingeva troppo, tanto da essere costretto a frenare, ogni tanto, con le quattro zampe, per non andare a finire nella scarpata: a furia di frenare arrivò a fondo-valle con gli zoccoli fumanti.
Attraversò alcuni paesi, ancora al buio e, solo quando iniziò ad albeggiare, giunse a Tondi.
All’uscita del paese si trovò di fronte ad un bivio. Che fare? Non poteva contare su ‘Ndreije, ancora indaffarato, con sua moglie, ad illustrare le ultime pagine del suo personale kamasutra onirico!
Intanto fece una lunga sosta. Si riposò.
Le opzioni erano due: Torrello o Cimaferro. Prendere una decisione non era alla portata di un asino; sarebbe stata una contraddizione in termini: gli animali posseggono l’istinto, ma non la facoltà di ragionare.
Avrebbe dovuto leggere il cartello stradale? Ammesso che ci fosse stato un cartello ”per Torrello”, non sarebbe servito a nulla: un somaro non sa leggere. Ma un cartello non c’èra e non c’era mai stato. Quelli di Tondi nutrivano un odio così profondo per quel paese, che osava sovrastarli dall’alto dei suoi ottocento metri e rubava loro anche un’ora di sole ogni mattino, da creare in loro un rigetto, anche solo a leggerne il nome su un cartello stradale! Avevano totalmente rimosso, nel loro subconscio, il nome di quel paese.
A dispetto di tutto questo nostro ragionare, fatto di ”se” e di “ma”, Spaciò prese la strada di mastr Mingh. (15)
Ricordò (gli asini lo sanno fare egregiamente) che l’ultima volta, a Cimaferro, il padrone gli aveva aggiunto, nel bucco, una generosa razione di vaijnelle (16) (o sciuscelle, per quelli della bassa) di cui era ghiottissimo: per una sorta di riflesso condizionato, aveva collegato le due cose.
L’erta era dura e Spaciò impiegò molto tempo, prima di uscire da quel cono d’ombra che le Valzere (17) proiettavano, dalla sponda destra, fino a mezza costa.
Il sole finalmente occhieggiò come un laser attraverso l’apertura di Porta dei Saraceni, preludio del suo sorgere anche sul resto della valle.
Quella luce improvvisa ed accecante fece risvegliare ‘Ndreije e lo riportò alla realtà. Stiracchiò le braccia, poi le gambe, si strofinò gli occhi, halò; (18) infine emise un grugnito di piacere e si tirò su a sedere sul pianale del carro.
Si rese subito conto di trovarsi sulla strada sbagliata, perché avrebbe dovuto portare le sue ciliegie a Torrello, per la fiera di Sant’Antonio. Constatò di trovarsi dalla parte opposta, sulla riva sinistra del fiume, ormai a mezza strada dall’abitato di Cimaferro (1400 sl.m).
La frittata era fatta: tornare indietro e risalire dall’altra parte avrebbe significato arrivare a destinazione “a processione già iniziata”.
Optò per il proseguimento, non prima di aver ricoperto di contumelie il povero Spaciò, diventato subito il capro espiatorio della sua colpevole assenza.
Razionalizzò la situazione. Pensò che si era di domenica: certo non paragonabile ad una festa patronale, ma un po’ di acquirenti, in piazza, li avrebbe comunque trovati. Rammentò, inoltre, che sulla piazzetta di quel paese si affacciava una panetteria che sfornava una deliziosa pizza all’olio, proprio all’ora del suo presumibile arrivo. Sicché, chi per le vainelle, chi per la pizza, asino e padrone si trovarono accomunati da uno stesso fine.
- Ahà, Spaciò -. E si riconciliarono.

Per Fernando Pellecchia, alias Cacanuocce, l’incontro con Minguccio Fratta, sensale di matrimoni, rappresentò la svolta della sua vita. Sin da ragazzo, Fernando aveva girovagato per le campagne, sempre tra i rami degli alberi i cui frutti divorava con frenetica voracità. Ingoiava anche i noccioli, per accorciare i tempi di esposizione ed evitare di essere sorpreso dal padrone. Non che disdegnasse i piselli freschi, le fave, le cicerchie e i ceci, ma la frutta era il suo debole.
Ne divorava di ogni tipo, anche se ancora acerba. Alle mandorle non concedeva il tempo di formare il guscio: se le mangiava tènere tènere ed aveva sempre la bocca allappata; ma la sua ghiottoneria preferita erano le ciliegie, che staccava dai rami con sorprendente velocità e se le ingoiava voracemente con tutti i noccioli. In ciò era diventato una macchina perfetta.
Non si allontanava di molto dal luogo del misfatto, ché sentiva subito l’urgenza di espellere le scorie: un mucchio di noccioli perfettamente puliti ed asciutti. Con le pesche aveva qualche difficoltà, ma con l’uva era una bazzecola: cagava cumuli di vinaccioli. Ormai aveva marcato tutto il territorio, disseminandovi le sue cicerchiate, come inconfondibili firme, tanto che, chi vi s’imbatteva, pensava immediatamente: “ qui è passato Cacanuocce.”
Finché era ancora un ragazzo, la cosa veniva quasi tollerata, anche se obtorto collo; ma l’impenitente era ormai diventato adulto, sicché i proprietari dei fondi lo diffidarono in maniera ultimativa: se non l’avesse smessa una buona volta, gli avrebbero fatta la festa.
Un po’ per quelle minacce, un po’ per le pressioni del suo Clan, se ne andò a lavorare in Germania, nelle miniere della Ruhr. Vi resistette solo tre mesi: non abituato a lavorare duro, decise di rientrare alla Cococcella.
Ma “p‘l’speldren Dije ci penz,(19) dice il detto popolare, e per Cacanuocce, nullafacente da sempre, la provvidenza giunse sotto le spoglie di quel Minguccio Fratta, detto calzette rosse. Un’autentica botta di culo!
- Fernà, è da stamattina che ti cerco! - disse Minguccio, tutto trafelato.
- Che c’hai di tanto importante da dirmi?- rispose Cacanuocce, ironico.
- L’hai detto tu: tanto ed importante!-

Su, in paese, in una bella casa sulla piazza, viveva Carminuccio Taccone, un facoltoso possidente (campagne, stalla con armenti e un consistente gruzzolo), diventato tale, grazie alla prematura morte del suocero. Aveva tutto per essere soddisfatto, se non fosse stato per quella figlia unica, da lui tanto amata, che, per uno scherzo del destino, gli era nata con una gamba più corta dell’altra. Per quell’inconveniente, nessuno dei giovani del paese si era fatto sotto per chiederla in moglie. Carminuccio ne era amareggiato, non tanto per sé, ma per la felicità di sua figlia. La ragazza era anche piuttosto bella e di buon carattere, ma evidentemente, quelle doti non erano sufficienti.
Talvolta, in casa, la guardava mentre stava in piedi, con quella gamba corta appoggiata al pizzuco (20) della sedia e ne provava tenerezza. Rivedeva se stesso, nella medesima posizione, col suo calcagno premuto sulla nuca del suocero, quando già si trovava bocconi, a sorseggiare l’acqua ghiacciata dalla polla sorgiva, in San Domenico. Lo aveva strafogato con quella semplice pressione, sino a che non aveva smesso di fare calzette (21) .
Nulla di trascendentale, per Carminuccio: aveva anticipato un’eredità che gli sarebbe arrivata, prima o poi. Semplicemente aveva optato per “il prima”.
Trovare un marito per la figlia era ormai diventata la sua ossessione. Aveva fatta spargere la voce che sarebbe stato oltremodo generoso con la dote. Sarebbe stato disposto a dare subito, alla figlia, le terre, la casa in piazza e centomila lire in contanti. Per sé, si sarebbe riservata la casetta con stalla, nella masseria vicina, ma solo “vita natural durante”, perché, alla sua morte, quella proprietà sarebbe passata alla Chiesa.
Con quella mossa, Carminuccio si sarebbe “assicurato” contro una sua morte prematura ed ottenuto il perdono di Dio per quella data ad altri.
Ma nessuno si faceva avanti.
Gli era giunta voce che, nella masseria Caclaceni, viveva un certo Minguccio, un sensale abbastanza bravo a combinare matrimoni. Lo fece chiamare e si misero d’accordo, anche se la parcella gli era sembrata abbastanza salata.

Forte di quel mandato, Minguccio mise in atto tutta la sua arte consumata nel decantare, a Fernando Pellecchia, le doti e la dote della candidata sposa. Non disse tutto, anzi omise la cosa più importante, ma l’esperienza gli suggeriva di esporre prima tutti i vantaggi, omettendo le negatività il più a lungo possibile, salvo, una volta messo alle strette, far passare l’omissione come cosa di secondaria importanza, un’inezia.
Cacanuocce ascoltò il sensale con molta attenzione e, quando questi ebbe esaurito tutto il suo repertorio, lo gelò con una domanda secca:
- Dov’è l’inghippo? -
Il sensale restò confuso di fronte ad una domanda così diretta e schietta. Cominciò a balbettare, ma Cacanuocce lo tolse presto dall’imbarazzo:
- E’ cioppa (22) - disse con indifferenza, rispondendo alla domanda che egli stesso aveva posto.
“Ma guarda costui!” pensò Minguccio “ La facevo tanto lunga, per indorargli la pillola, e lui sapeva già tutto: il massaro è molto più furbo di quanto pensassi!” Alla sorpresa seguì lo sconforto, ritenendo ormai fallita la sua missione. Ma Cacanuocce, che non finiva mai di sorprenderlo, proseguì:
- Va bene, ci sto! -

Fu così che Fernando Pellecchia, alias Cacanuocce, s’installò da padrone nella bella casa di Carminuccio Taccone, rendendo felice sua figlia oltre ogni più rosea aspettativa.
Quella sfortunata ragazza non avrebbe osato sperare di accogliere, un giorno, fra le sue braccia, quel giovane torello, dall’afrore vagamente stallatico: una vera cuccagna!
AncheCacanuocce si trovava bene. Con un colpo solo aveva risolto i suoi problemi economici ed aveva conosciuto, per la prima volta in vita sua, una persona che si occupava di lui e mostrava di amarlo con sincerità.
Quando vedeva sua moglie tocchettare felice su e giù per la casa, mulinare le braccia nell’aria, come ali di farfalla, anch’egli era contento, ed in quei momenti gli capitava spesso di pensare, col suo tedesco minierario: “sciabbndèttkessakossakmafattaffacciàalapiazz!(23)

Quel matrimonio aveva rappresentato una notevole promozione del suo status economico; ma non gli bastava più: ora ambiva ad una promozione del suo status sociale; qualcosa che lo riscattasse dal suo non commendevole passato, che gli permettesse di apparire agli occhi dei compaesani, in una luce diversa: autorevole, ecco il temine giusto!
A lungo si spremette il cervello, alla ricerca di uno sbocco positivo alla sua nuova aspirazione.
Un bel giorno l’idea risolutiva si affacciò alla sua mente: un incarico nel PNF, magari in Municipio. Si rammaricò di non averci pensato prima.
Quando si presentò ad illustrare i suoi desiderata al cospetto del Podestà, questi rimase talmente sbalordito da restare, per alcuni minuti, senza parola . ”Ma come,” pensò “con gli Alleati che scorrazzano ormai in Sicilia e con il fuggi-fuggi dei topi che abbandonano la nave in difficoltà, questo tamarro si viene a proporre per un incarico di Partito! Roba da non credere!” Lo guardò direttamente negli occhi, a lungo, per sapere se fosse un tonto o se ci credesse veramente. Dovette sforzarsi per mantenersi serio, perché, dal di dentro, sentiva crescere un riso irrefrenabile, che riuscì a malapena a contenere.
- Fernando Pellecchia - disse infine, alzandosi solennemente in piedi.
- Siete disposto ad assumere la carica di Responsabile dell’Annona? -
- Come ordinate Voi, sig. Podestà! - rispose Cacanuocce, subitaneamente scattato in piedi anche lui.
- Allora passate nell’ufficio del Segretario Comunale, che Vi spiegherà tutto. -
Non gli restava che licenziare l’ospite col saluto romano, ma quel riso che era riuscito a malapena a controllare nella pancia, iniziato dal momento in cui il postulante gli aveva esternata la sua richiesta, ora aveva assunto la consistenza di un moto sussultorio. Dalle budella gli salì alla gola, e per poco non lo strozzò. La faccia si contrasse in comicissime smorfie, gli occhi si riempirono di lacrime.
Tese il braccio in avanti, per il rituale saluto al Capo, ma gli riuscì solo di dire –Saluto al Ca… - che l’urgenza gli fece abbassare la mano sul basso ventre, nel disperato tentativo di opporre una resistenza alla minzione ormai imminente; poi si fiondò nel bagno, piegato in due.
Fece appena in tempo a sentire, alle sue spalle, l’eco del neo-annonario:
- Saluto al ca! -

Quell’incarico, gli aveva spiegato il Segretario, consisteva nella vigilanza dei conferimenti all’ammasso delle eccedenze alimentari, da parte dei contadini; distribuzione delle tessere annonarie ecc. ecc. ed, infine, (ed era la cosa che maggiormente intrigava il Pellecchia) il controllo della qualità delle merci vendute nei negozi alimentari e nel mercato degli ambulanti.
Riguardo all’ammasso, era impossibile esercitare qualsiasi controllo, (e il Pellecchia lo sapeva, per averlo fatto egli stesso) perché i contadini preferivano trebbiarsi il grano, al chiarore della luna, nella propria masseria. Facevano pestare le mannelle (24) dagli zoccoli dei cavalli legati in quadriglie, che giravano in tondo, nell’aia. Un contadino piantato nel centro, le incitava, stringendo le lunghe redini con una mano e una frusta con l’altra.
Non ritiravano neanche le tessere alimentari, quei contadini; preferendo mangiarsi le sagne, (25) impastate con le loro mani, alla pasta nera passata dal Governo; idem per il pane bianco, cotto nei loro forni e preferito largamente a quei mattoni neri importati dalla Germania. Tolta quella mansione importante, a Cacanuocce sarebbe restato ben poco da fare.
Uscito dal Municipio, rientrò immediatamente a casa, per annunziare alla moglie la buona novella: ora potevano considerarsi alla pari degli altri notabili del paese.
Studiò lungamente il modo ed il tempo migliori per il suo esordio pubblico e decise per la domenica tredici, quando tutti i compaesani e i Massari, usciti dalla Messa cantata, si sarebbero riversati in piazza.

Ignaro dell’accoglienza che l’attendeva, ‘Ndreije giunse nella piazza principale del paese e, prima ancora di scaricare, bussò alla porta di Rosalinda Coccetta, per farsi prestare la bilancia. Assolta quella prima incombenza, iniziò lo scarico delle cassette, le dispose in bella vista e posò su ognuna alcune mazzicarelle, a completamento di una presentazione civettuola e appetibile per i clienti. Senza staccare Spaciò dal traìno, gli allentò il sottopancia e gli infilò il muso nel bucco, pieno di vainelle.
Aveva intenzione di recarsi subito al forno, ma dal portone spalancato della Chiesa sentì il prete che proclamava l’Ite, Missa est!
Non poteva allontanarsi proprio ora che sarebbero arrivati i primi clienti!
Difatti, subito una massa di persone defluì dalla Chiesa.
Il colpo d’occhio era superbo! Una grande macchia blu chiaro sciamò nella piazza e la riempì come un seno di mare. Gli uomini vestivano tutti di panno grezzo, blu tuareg. Le scarpe alte, di corame, immancabilmente centrellate, (26) erano lucidate con sego ovino e nero-fumo. Calzoni alla caviglia, che rivelavano una crescita ulteriore dopo la confezione, giacca sbottonata sul panciotto e cappello portato all’indietro, sul cucuzzolo del capo.
Il vestito, che durava una vita, veniva confezionato per i giovani come segno di iniziazione e segnava il passaggio all’età adulta; ma il soggetto cresceva ancora in lunghezza di gambe e in circonferenza di capo per cui i pantaloni si accorciavano ed il cappello, che non poteva più contenere tutta la testa, veniva portato sul cocuzzolo. La giacca, diventata piccola, ora ovviamente sbottonata, obbligava l’indossatore a spostare le braccia leggermente all’indietro, assumendo un’andatura da pinguino.

Prima delle sanzioni, e del conseguente regime autarchico, il panno blu veniva importato dal’India. Ora si impiegavano coperte militari, che si affogavano in enormi caldai, pieni di acqua bollente e colorata con pacchetti di Super-Iride.
In quella piazza c’erano i rappresentanti di tutti i Clan del contado: i Mortella, i Bartoline, i Cicchitti, gli Isipponi, i Micheluccio, i Caclaceni, i Castiglione, i Berardinelli, i Colarusanni, i Turchi, i Luigiotti, i Pasconi, i Peparuoli, i Cusati, i Greci, per citarne i più importanti.
Un colpo d’occhio magnifico: sembrava che gli Indios del lago Titicaca si fossero riuniti per la Fiesta della Virgen de la Candelaria.
I più vicini si fermarono ad ammirare quelle meravigliose ciliegie, che ‘Ndreije stava esibendo con malcelato orgoglio, ma i più avevano improvvisamente rivolto le facce all’indietro, verso qualcosa che stava accadendo in fondo alla piazza.
La folla stava facendo ala a qualcuno che la fendeva con passo sicuro.
Non vestiva come tutti, ma portava una sahariana sulla camicia d’orbace e pantaloni alla zuava, scarpe basse, di vacchetta, e capelli brillantinati, rigorosamente pettinati all’indietro. Un cestino della spesa gli pendeva dal braccio destro: era Caca nuocce.
Al solo vederlo, ‘Ndreije ebbe un moto di repulsione e presentì guai in vista. Nella calda e luminosa piazza. I due si trovavano faccia a faccia - La tensione era palpabile.
- Buon uomo, come sono queste ciliegie?
Buon uomo! Ho cambiato nome? Sono stato sempre chiamato Biell’òm!” pensò ‘Ndreije, non gradendo la novità; tuttavia rispose:
- Lo sanno tutti che le ciliegie di ‘Ndreije sono le migliori della valle, provatele pure, se vi fa piacere! -
Il neo funzionario all’Annona prese, fra il pollice e l’indice, un ciuffo di piccioli: una ciliegia tira l’altra, ne tirò su una diecina. Le calò in bocca, diede uno strattone ai piccioli ed i frutti gli scomparvero in gola. Non espulse i noccioli, ovviamente: quella consuetudine faceva parte, ormai, del suo DNA.
- Ottime - disse e, porgendo il cesto a ‘Ndreije - Riempitelo! -
Quando riebbe fra le mani il cestino pieno, aggiunse, di suo, due mazzicarelle.
- Una per me, l’altra per mia moglie - disse compiaciuto; poi, ripresosi il cestino, si girò per andarsene.
- Non le ho pesate e non me le avete pagate - gli risuonò la voce di ‘Ndreije, da dietro le spalle.
Cacanuocce si bloccò, poi si girò indietro lentamente, molto lentamente.
- Io sono il responsabile all’Annona. -
- E che me ne frega! - disse il venditore, usando un termine molto in voga, a quei tempi; poi proseguì - s’ vulèt magnà li cirascia me, l’aveta pahà! - (27)
Cacanuocce si guardò intorno, poi prese fra due dita una ciliegia e con una lieve pressione l’aprì in due parti.
- Queste ciliegie hanno il verme -
- Li cirasce dì’Ndreije n’hann ma avut lu verm-! (28)
- Siete, per caso, un comunista!? Come osate contraddirmi? Se io, funzionario all’Annona, responsabile della qualità della merce in vendita, “acclaro” che queste ciliegie hanno il verme, vuol dire che così è! La mia affermazione è in-sin-da-ca-bi-le!
‘Ndreije avrebbe voluto tirare fuori il suo coltello a serramanico e scagliarsi sul quel fetente, ma il pensiero della moglie e dei figli lo indussero ad avere un comportamento prudente.
Avrebbe potuto anche cedere, lasciando a Cacanuocce la possibilità di una ritirata onorevole ed evitare, così, di esporlo al ridicolo davanti ai propri compaesani.
Avrebbe potuto dire. “Sì, forse avete ragione Voi: si sarà trattato dell’unica ciliegia disgraziata, un semplice incidente; Vi chiedo scusa!
Tornate tranquillo a casa Vostra a godervi, con la Vostra signora, questo ben di Dio!” Ma non lo fece. Era stato abituato a rispettare i potenti, per atavica tradizione, ma non s’era mai imbattuto, in vita sua, in un affronto così diretto e così ingiusto: volle riscattarsi da quella condizione di sottomissione.
“Fanculo all’atavica tradizione! E’ ora di finirla una volta per tutte”!
Cacanuocce fece chiamare il Messo comunale e gli ordinò di accompagnare quell’uomo a buttare tutte le ciliegie nella scarpata!-
- Se le mie ciliegie hanno il verme, ce l’hanno anche quelle che avete nel Vostro cestino!- Disse l’uomo d’ jest-abball.
A sentire quelle parole Cacanuocce rovesciò il suo cestino nella cassetta con movimento ostentato, quasi di schifo.
Non si allontanò di un palmo fino a quando i due, fatti alcuni viaggi, non ebbero portato a termine l’ordine ricevuto.
Intanto, approfittando della confusione, i ragazzi della piazza avevano fatta razzìa delle vainelle che erano nel bucco diSpaciò, anche se molte erano state già rotte e sbavate dai denti del bardotto.
Dopo alcuni viaggi alla discarica, tornato in piazza, ‘Ndreije pregò un ragazzo di riportare indietro la bilancia alla signora Coccetta, dicendosi desolato per non poterla omaggiare col solito dono della sua frutta.
- Dì alla signora che mi dispiace, ma ho venduto tutto!

Caricò sul traìno le cassette vuote, strinse il sottopancia diSpaciò e risalì sul carro.
Fatto il primo tornante e giunto alla sottostante la scarpata, quella da cui aveva rovesciato il suo carico, vide ragazzi e donne che raccoglievano le sue ciliegie: i primi avevano riempite le loro p’ttrate: (29) le seconde ne avevano fatte delle grosse ziniéte (30)
-Miracule, miracule!Senza pahà, l’ cirasce d’ Ndreije z’hann ’arsanat - (31)
Gridò ‘Ndreije a quegli sciacalli. E giù una frustata fra le orecchie di Spaciò, sempre reo di aver sbagliato strada ed averlo portato in quel posto ostile. Asino e padrone erano furiosi: affamati e scornacchiati.
Sulla piazza, dopo la partenza di ‘Ndreije, Cacanuocce si guardò intorno ed incrociò il suo sguardo con quelli dei presenti.
- Questa è la fine riservata a chiunque si metterà contro di me! -
La folla gli fece ala ed egli se ne tornò a casa, contento di aver data una lezione a quei cafoni.
Ma quei “cafoni”, (scarpe grosse e cervello fino), avevano mentalmente annotato che il marrano era tornato a casa col cesto vuoto: una crepa si era aperta nel muro della sua autorità. Capirono, per la prima volta, che di fronte alla prepotenza si può resistere, anzi si deve resistere. Da quel momento, il termine “l’òm d’ jest-abball” perse la sua connotazione spregiativa per assumere quella di uomo della resistenza.

Quella crepa diventò voragine circa un mese dopo, alla fine di luglio, quando il Capo, sfiduciato dal Gran Consiglio, si presentò davanti al Re, per dare le dimissioni, forse con la convinzione che gli sarebbero state respinte.
Gli andò male, perché il Re, vedendolo così pallido e stressato, con sensibilità tutta savoiarda, lo fece caricare su un’ambulanza e lo spedì a cambiare aria, prima a Ponza poi alla Maddalena; ma, visto che l’aria di mare non gli confaceva, lo mandò sul Gran Sasso, a respirare quella fina di alta montagna.
Gli eventi precipitarono. Il nove settembre Re “Sciaboletta” s’imbarcò, ad Ortona, alla volta di Brindisi, sulla corvetta “Baionetta,” scortato dalla seconda corvetta ”Scimitarra”: decisamente una fuga all’arma bianca!
Quattro giorni dopo, il Capo, con uno spettacolare colpo di mano, fu liberato dai Tedeschi e portato al Nord.
Chi scappò al Nord, chi scappò al Sud: la Val di Sangro, che si trovava al centro, fu lasciata in mano ai Crukki. Quello che ne fecero lo sanno tutti.
A dicembre la zona bassa della valle era già stata liberata.
La buona sorte arrise, questa volta, a ‘Ndreije. Un tenente inglese, che si trovava a passare da quelle parti, sentì il profumo della sigaretta che ‘Ndreije si stava fumando davanti a casa sua e, da buon intenditore, anzi da profondo conoscitore di tabacco, ne avvertì il forte e piacevole aroma. Per mezzo del suo interprete chiese da dove venisse quella delizia e…. Insomma, divennero amici.

‘Ndreije cominciò a frequentare gli Inglesi dell’AMGOT ed in breve si ritrovò le tasche piene di Am-lire. Quell’uomo semplice, ma perspicace, entrò presto nelle simpatie del Comando, tanto che, grazie alla sua conoscenza della zona, divenne presto un aiutante prezioso: una specie di Davy Crocckett. In maggio girava già vestito con tuta mimetica e calzava scarpe da marine. Per le missioni interne alla zona liberata, ‘Ndreije si trovava sempre seduto su una jeep a fianco di un sergente canadese. Le cose gli andavano alla grande. Nella sua casa era entrata l’abbondanza.
Una sera di giugno Cuccia, rientrando a casa, vide la scala a pioli appoggiata al tronco del v’rminuse: ne rimase stupita; poi aggirata la casa, vide un cestino pieno di ciliegie. Ne prese una fra le dita e si avvide che, all’interno, i vermetti avevano messo famiglia.

I Crukki mantennero l’occupazione della zona medio-alta della vallata, per tutto l’inverno e la primavera successiva, sino ai primi di giugno.
A Cimaferro, durante l’inverno, un gruppo di valorosi “cafoni” aveva tentato un attacco alle SS, ma l’esito fu disastroso. Nondimeno ottennero il risultato di far sloggiare il Comando a Monreale, perché più sicuro.

Quell’episodio consigliò a Cacanuocce di nascondersi nella soffitta e restarvi finché le cose non si fossero chiarite. Temeva che un giorno o l’altro, qualcuno sarebbe venuto a prelevarlo.
Ma il tempo passava e nessuno si faceva vivo.
Non sapeva se essere contento o dispiaciuto, perché si sentiva quasi cancellato dal mondo. Col passare dei mesi cominciò, a sentire il peso di quella sua irrilevanza, in quel contesto così tragico, ma ricco di sorprese e avvenimenti di cui avrebbe voluto essere protagonista.
Ma nessuno se lo filava e, per un tipo come lui, che aveva privilegiato l’apparire all’essere, questa nuova situazione era peggiore della morte. Giunse a desiderare la propria fine, magari essere fucilato, per essere ricordato dai posteri.
Quando i Crukki, incalzati dai partigiani, dovettero ritirarsi, sperò che qualcuno venisse a prenderlo. Ma chi avrebbe dovuto interessarsi di lui? In fin dei conti, a parte la sceneggiata in piazza, ai danni di ‘Ndreije, gli avvenimenti si erano succeduti in maniera così incalzante che non gli avevano dato il tempo di commettere altri soprusi. Ma egli aveva creduto, in quei pochi mesi di “annonariato”, di essere diventato il protagonista della Storia.
La prima mossa fu quella di scendere dalla soffitta alla sala, e di passeggiare per le stanze della casa, con le finestre aperte, con la speranza di essere notato da qualche passante . Nulla accadde.
Prese la risoluzione di buttarsi dal balcone, ma proprio mentre stava prendendo la rincorsa, la moglie bussò alla porta e gli annunziò la visita di una persona forestiera, forse un militare. Dalla finestra aveva visto parcheggiare nella piazza una jeep: un militare era rimasto al posto di guida e l’altro era costui che si era presentato alla porta della loro casa.
Non si era ancora ripreso dallo stupore che comparve, nel vano della porta, un uomo vestito come un marine, ma invece del mitra, portava appeso al braccio un cesto di vimini, ricoperto con foglie di fico.
- Buongiorno signor “annonario! -” disse ‘Ndreije - Mi dovete scusare per il ritardo, ma avevo un debito con Voi e, anche se è trascorso giusto un anno, spero che vogliate accettare questo mio omaggio -.
Ciò detto, tolse le cannucce che tenevano premute le foglie di fico, scostò anche quest’ultime e gli mostrò il contenuto.
- So che andate matto per le ciliegie ed ho voluto farvene un omaggio -.
Gli mise fra le mani quel dono di frutti vermigli, palpitanti di vita.
- Vi prego solo di mangiarle subito, in mia presenza, - proseguì - perché debbo riportare a casa il vuoto. Per Voi non sarà difficile, considerata la Vostra riconosciuta abilità di ingoiarle con tutti i noccioli! -
Cacanuocce strabuzzò gli occhi di fronte a tanta grazia di Dio, ma anche per uno come lui, gli sembrarono decisamente troppe -
Osò un - Ma…-
- Sbrigati, Cacanuocce! - gl’impose l’uomo d’jest-abball, passato improvvisamente, e non a caso, dal Voi al tu.

Fine

Fatti e personaggi sono frutto di pura fantasia.


(1) Domani porterò le ciliegie in montagna.
(2) Andrea
(3) Il verminoso.
(4) Cercine
(5) Varietà di pèsca duracina, profumatissima, succosa e di ottimo sapore. (nap. Percòca)
(6) Infilate, come collane.
(7) Ciliegie confezionate a grappolo, attorno ad uno stecco.
(8) Carro agricolo, a due ruote e due stanghe.
(9) Sacchetto che si riempie (per metà c.a.) , con biada, crusca od altro alimento adatto, in cui s’infila il muso dell’animale e sorretto da una fettuccia passante dietro gli orecchi.
(10) Calzature contadine della bassa, (d’ jest-abbal) .
(11) Gilet o panciotto che termina a due punte con tanti piccoli taschini ed una fibbia dietro la schiena.
(12) Il fondo era costituito da pietre ridotte a ciottoli spigolosi ad opera di breccieroli venuti dal Salento..
(13) Capriole
(14) L’accelerazione
(15) Il costruttore del completamento della strada Tondi-Cimaferro.
(16) Carrube
(17) Le balze di Torrello
(18) Sbadigliò
(19) Per il pigro, Dio ci pensa.
(20) Piolo.
(21) Agitare le gambe in un ultimo spasimo.
(22) E’ zoppa.
(23) Sia benedetta questa gamba che m’ ha fatto affacciare sulla piazza.
(24) Mazzi di grano maturo
(25) Tipica pasta abruzzese, fatta in casa
(26) Chiodi (poste e centrelle) realizzati dal fabbro (centrellaro)
(27) Se volete mangiare le mie ciliegie, me le dovete pagare.
(28) Le ciliegie di Andrea non hanno mai avuto il verme
(29) Le camicie, infilandovi la frutta dalla parte del collo
(30) Sacca che si ricava tirando, fino alla vita, gli orli dei grembiul
(31) Miracolo, miracolo, le ciliegie di Andrea non hanno più i vermi, ora che sono gratis!!


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