Il turibolo un racconto di Cesare Palmieri (tratto dalla raccolta "Racconti Sangritani")
Serafino, chierichetto di turno per la Messa vespertina, si catapultò dalla porta della sacrestia ed attraversò la strada a saltelloni. Il vento, sempre in agguato, lo avvolse nel suo turbinìo, gli sollevò la nera sottana e gli arrovesciò sulla testa la bianca cotta, impreziosita di un largo merletto.
Stringeva, con una mano, le catenelle del turibolo e, con l’altra, cercava invano di liberare la testa dalla cotta, che gli impediva di vedere davanti a sé.
Non che avesse bisogno di vedere, perché conosceva a memoria il breve tragitto da compiere per raggiungere la sua mèta: si trovava quasi lì di fronte. A causa della sua foga voleva solo evitare di travolgere qualcuno o di schiacciare qualche cacca di cane. Giunse in un attimo davanti al portone della casa e, senza chiedere permesso, abbassò il chiavistello (’l calascigne) ed entrò nella cucina-soggiorno, dove i padroni di casa si stavano scaldando attorno al camino.
-Buona sera; fuoco per la Messa!-
Sapeva, il bricconcello, di aver pronunziata la parola-chiave che apre tutte le porte delle persone devote. Chi poteva opporsi ad una richiesta fatta nel nome del Signore? Anzi, quelle brave persone si sentivano onorate di poter dare un contributo alla Sua gloria!
-Fai, fai, prendi pure!
“Vorrei vedere se aveste rifiutato, con tutti i peccati che dovete farvi perdonare!” Pensò tra sé il malizioso; poi iniziò ad armeggiare attorno al turibolo: tirò su l’anello centrale ed il coperchio si sollevò lungo le catenelle-guida, quel tanto da permettergli di rovesciare nel fornello due palelle di brace ardente: praticamente tutta quella disponibile.
-Buona sera e grazie!-
-Grazie a te per l’onore!-
Serafino uscì con la stessa velocità con cui era entrato.
-Possibile che, per bruciare una punta d’incenso, quist uagliòn m’ada schtutù sempr ‘l fuoch!(*) – disse zì Francisch, guardando desolatamente le rovine lasciate da quel saccheggio.
-Zitt Francì, cà Crist t’ send!-
-Sènd, ma vèd pùr coma m’ardutt scht fuoch, ogne volt m c’arvò ‘l picciariell! (**)
La moglie si fece il segno di croce e chiese perdono a Dio per conto del marito.
Serafino ripassò per la sacrestia, si dette una riassestata a tonaca e capelli, rientrò in chiesa e si dispose a fianco dell’altare.
Amava quella mansione perché gli permetteva di operare da un punto privilegiato: poteva seguire lo svolgimento della funzione e, nel contempo, osservare il popolo dei fedeli. Gli altri due chierichetti, che se ne stavano inginocchiati per quasi tutto il tempo della Messa e con il pubblico alle spalle, non vedevano niente, così come accadeva al prete, salvo quando si girava per un Orate fratres! o per un Dominus vobiscum. (Nel ‘43 il Concilio Vaticano II° era ancora di là da venire.)
Ad essere proprio sinceri, a Serafino interessava non tanto il pubblico dei fedeli, ma quel settore della prima fila, costituito dalle ragazze dell’Azione Cattolica. Da qualche mese quelle fanatiche erano in preda di un’ inspiegabile agitazione e si comportavano in modo alquanto strano, almeno agli occhi di un ragazzo di undici anni, non ancora smaliziato, seppur pervaso da un malessere di natura ignota.
Erano in cinque, capeggiate da Nannetta, dotata, quest’ultima, di un carisma innato: capacità di decisione, coraggio e comunicativa ne facevano una leader indiscussa. Le sue ragazze l’adoravano ed erano pronte a seguirla in tutto. Brave ragazze, comunque, ma stavano vivendo quel particolare periodo adolescenziale in cui non si sa esattamente cosa si è e cosa si vuole e si fa fatica a controllare quella tempesta ormonale che colpisce tutti, prima o poi. Le donne prima, notoriamente più precoci dei maschi: insomma un periodo di grande confusione.
Si erano messe in testa di provocare quel fusto di un prete, anzi Arciprete, un quarantenne bello come il sole, decisamente interessante, sempre elegante nella sua zimarra orlata di rosso ed una fitta bottoniera dello stesso colore: volevano mettere alla prova la sua integrità morale (e, possibilmente, quella fisica). Così si erano messe d’accordo di provocarlo.
Da un po’ si agitavano sul banco, accavallavano e scavallavano continuamente le gambe e le mostravano generosamente.
Col passare del tempo erano diventate sempre più audaci e la cosa cominciava a dare qualche problema. Non a Serafino, che gradiva molto, senza sapere ancora bene il motivo, ma a quel prete Santo-uomo, che trovava la cosa non proprio ortodossa, anzi al limite della decenza.
Santo-uomo non Sant’uomo: una situazione scomoda senza dubbio, perché, mentre il Sant’uomo è uno toccato dalla grazia, sempre al di sopra delle umane debolezze, che agisce santamente, senza alcuna fatica, perché quella è la sua natura: il Santo-uomo, santo non per grazia ricevuta, ma per scelta, è sempre un uomo, con le sue debolezze e le sue imperfezioni, le sue urgenze e le sue tentazioni, per cui comportarsi santamente richiede una fatica continua, rinunzie talvolta dolorose: ne consegue che è molto più comodo essere il primo che il secondo.
Il Nostro apparteneva decisamente alla seconda categoria e solo Dio sa quanta fatica gli costasse per comportarsi coerentemente al suo ruolo.
Ultimamente, le sfacciatelle avevano intensificato le provocazioni: lo tormentavano continuamente, lo sfidavano con occhiate assassine, si fingevano possedute da un languore infinito. In confessionale alludevano a inesistenti peccati di desiderio, sospiravano, si dichiaravano autrici di pensieri lascivi, chiedevano se fosse peccato fare questo o quello o desiderare di essere abbracciate da un uomo. Lo dicevano spontaneamente, senza alcuna richiesta da parte del confessore, che si guardava bene dal fare le solite domande di routine: “quante volte” “da sola o in compagnia” o “con chi”, né tanto meno minacciare castighi eterni o cecità: insomma tutto quell’armamentario teso a persuadere la reproba a non farlo più.
Il Santo-uomo non cadeva nella provocazione. Fingeva di non dare importanza ai loro turbamenti e licenziava le presunte peccatrici di turno, comminando loro qualche Avemaria, come penitenza.
Nondimeno, ogni volta che usciva dal confessionale aveva il volto acceso, leggermente alterato.
Da uomo intelligente qual era, capiva però che urgeva prendere in mano la situazione, affrontarla di petto, prima che potesse degenerare.
Nannetta lo agevolò in questo suo proposito mettendo deliberatamente in atto la provocazione finale: un colpo da schiantare un toro.
Da capobanda capiva che il suo ascendente sulle compagne andava continuamente rafforzato: bisognava fare qualcosa di grosso, fuori dalla norma, ma doveva farlo da sola, perché le altre potessero ammirarla, seguirla.
Parlò loro del suo progetto e fissò la data: sarebbe stata quella sera. Le ragazze erano incredule, sapevano che la loro leader era una tosta, ma non avrebbero immaginato che si sarebbe spinta fino a quel punto!
Il prete, intanto, proseguiva la sua funzione e, quando si girò verso il popolo per il Dominus vobiscum, Nannetta allargò le gambe per un paio di decimi di secondi, il tempo sufficiente perché l’immagine si fissasse bene sulla retina, poi le richiuse di scatto con un ciaff, da carne soda e guardando contemporaneamente negli occhi il Santo-uomo, come a dirgli: “adesso voglio proprio vedere se sei santo come vuoi farci credere!”
Solo due persone furono testimoni del fatto: il prete, che si rigirò immediatamente e Serafino, che rimase trasecolato di fronte a quella folgorante rivelazione. Aveva visto “L’origìne du monde”!
Sentì un rimescolamento in tutto il corpo, poi cadde in una specie di catalessi: era diventato una statua di sale. Anche il turibolo smise di oscillare.
Il Santo-uomo si portò le mani sul volto e restò per un bel po’ in quella posa, che al popolo sembrò di raccoglimento, ma per lui rappresentò un momento di indicibile sofferenza. Ebbe la sensazione di trovarsi in mezzo al deserto, solo, davanti a Satana che lo blandiva.,
Ora non erano più possibili ulteriori dilazioni. Gli passò davanti il film della sua esistenza: la fanciullezza, l’entrata in seminario, gli studi severi e gravosi, il suo incontro con Dio, la sua numerosa famiglia, (il padre, la madre, cinque sorelle ancora da sistemare e due cardellini in gabbia, che, nel loro piccolo, beccavano a sbafo): tutti contavano su di lui come unico sostegno.
Non è dato conoscere l’aspetto che pesò maggiormente sulla sua decisione: quello spirituale o, più prosaicamente, la dura legge del vivere: ciò che conta è il comportamento conseguente. Rinnovò mentalmente la promessa di celibato, fatta al suo Vescovo e, quando si rigirò al cospetto del popolo, si capì che aveva tolto il trattino e messo l’apostrofo: era diventato un Sant’uomo.
Iniziò la sua omelia con una foga degna di un Savonarola. La voce alta e ferma, il cipiglio doloroso, ma risoluto. Non spiegò il Vangelo, come era solito fare, ma si diffuse a parlare del peccato di fornicazione, che porta scompiglio nelle menti e spinge a disastrose conseguenze sul piano morale, perché induce a comportamenti lussuriosi……
Era trascorsa ormai una mezz’ora e la predica continuava su quel binario.
Serafino finalmente si riscosse da quel suo stato catalettico: merito di un passaggio dell’omelia, in cui il Sant’uomo aveva alzato improvvisamente il tono della voce.
Si guardò in giro un po’ allocchito e, quando si riprese completamente, si accorse che il carbone del turibolo si era spento: un bel guaio! Quando gli era successa la stessa cosa l’anno precedente, il prete gli aveva mollato una castagna sul cranio, che ancora se lo ricordava.
Come il soccorritore che, di fronte all’annegato, tenta un disperato bocca a bocca, anche se disgustoso, così Serafino ricorse all’estremo tentativo di rianimare il fuoco: tirò su il coperchio per dare più ossigeno ai carboni e iniziò a mulinare il turibolo a grande velocità, “a ruota”, nonostante la certezza che la cosa non piacesse all’Arciprete.
Dopo qualche tempo trascorso in questa azione frenetica, Serafino non si accorse che il fuoco si era miracolosamente riacceso, tanto che il turibolo era diventato una palla di fuoco, da far invidia alle girandole di Gennarino lo sparatore.
Ora le sue braccia agivano da sole, ma la mente era tornata all’Origine du monde.
Gli avevano raccontata la balla del cavolo ed ora scopriva di essere nato sotto un folto cespuglio di pruno!
In mezzo a quei pensieri sentiva, a tratti, il Sant’uomo che parlava di Sodoma e Gomorra; di un certo Abramo che chiedeva raccomandazioni a Dio a favore di suo nipote (il nepotismo aveva, dunque, lontanissime origini) e, proprio mentre stava dicendo che il Signore, adirato, aveva mandato una pioggia di fuoco su quei peccatori, il turibolo si arrestò di botto contro l’orlo della balaustra. Un colpo secco: per contraccolpo le catenelle si allascarono ed il fornello partì come un razzo.
Con una perfetta parabola attraversò tutta la navata ed andò a schiantarsi sulla controporta dell’entrata: l’impatto risuonò come lo scoppio di una granata. Durante la traiettoria il fornello subì un movimento rotatorio, (di travoltamento) rovesciando una scia di carboni ardenti sui fedeli sbigottiti.
Un ooooohhhhhhh corale. I fedeli, tutti partecipi delle parole appena sentite, videro in quel fuoco il giusto lavacro per i loro peccati ed accolsero l’evento come una catarsi liberatoria; ma quando i primi carboni si avvicinarono troppo alle loro teste, curvarono le groppe e si misero immediatamente a correre verso la porta d’uscita, gridando in preda dello spavento. Un caos terribile.
Nella calca, qualcuno si ritrovò disteso fra i banchi, altri riuscirono a guadagnare l’uscita; la seconda ondata di fedeli intasò la porta, tanto che i sopravvenienti dovettero scavalcarli, mettendo, poco cristianamente, i piedi sulle loro teste.
In tanta confusione un uomo solo restò serenamente seduto, rinfrancato da bibliche certezze: era Vracalòt. Per ragioni di brevità e di decenza, tutti i compaesani lo chiamavano Lòt.
Fatti e personaggi sono totalmente inventati.
(*) … questo ragazzino debba sempre spegnermi il fuoco! (n.d.r.)
(**) –Taci Francesco ché Cristo ti sente! - Sente ma pur vede come mi ha ridotto codesto fuoco, ogni volta mi serve daccapo il fiammifero! (n.d.r.)
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