L'Odore dei Santi
di Donato Di Luca
Verso la metà di dicembre si cominciò a parlare dell'arrivo di Padre Filippo. Man mano che si precisavano la certezza e il periodo crescevano l’animazione e l'attesa.
I professori e il prefetto ne parlavano tra loro rievocando eventi e aneddoti relativi alla severità della vita del santuomo, alla sua virtù, alle forme dell'ascetismo e delle penitenze cui si diceva si sottoponesse.
Poi vennero i due tre giorni precedenti il Natale e molti dei ragazzi furono presi, anzi sequestrati dal vice rettore, che era anche raffinato musicista e organista ufficiale della cattedrale.
Furono ore di prove dedicate alle musiche natalizie dei Couperin, dei Gruber, dei Zimarino dei Caudana; poi si passò alla messa, naturalmente la “Te Deum” di Lorenzo Perosi in una trascrizione per tenori e voci bianche stante la mancanza di baritoni dovuta alla fascia di età degli allievi.
Ma tutti i coristi aspettavano il momento di mettere mano al “Tu scendi dalle stelle”: si trattava di una melodia molto bella e suggestiva composta verso la fine dell'ottocento da un sacerdote di Trivento diventato pochi anni dopo Vescovo di Tivoli -e presto diventata tradizione della notte della Vigilia e del solenne Pontificale di Natale, ancora in uso nella cittadina, che la nomina con orgoglio “La Pastorale”, riponendo in questa antonomasia il senso stesso della propria identità.
Aspettavano con ansia soprattutto le voci bianche, perché la composizione -per voci bianche e tenori- prevedeva un inserto per voce sola, pensato per questo timbro, sulle parole “o bambino mio divino/ io ti vedo qui tremar/ o Dio beato/ ahi quanto Ti costò l'averci amato//”.
I ragazzi della seconda media erano elettrizzati: poiché il Maestro era anche il loro professore di lettere, egli li aveva curati con particolare attenzione, al punto che anche il più stonato degli allievi, a quel punto del secondo anno, aveva quasi del tutto corretto il suo orecchio, pur se non era comunque entrato a far parte del coro.
La scelta cadde su Vittorio, che già era stato solista l'anno precedente benché allievo da soli tre mesi -cosa rarissima, ma il caso volle che in quella classe si ammucchiassero quasi tutte voci ottime e orecchi intonati!
Era il ventitré pomeriggio, quando i ragazzi furono chiamati per l'ultima prova.
Si cominciò a cantare. Quando fu cantato “... E vieni in una grotta al freddo e al gelo” don Antonio si fermò, guardò tutti, indicò col capo Vittorio: “tu”, disse sorridendo misteriosamente, e ricominciò a suonare.
Ci si chiedeva come mai la scelta fosse caduta su Vittorio, visto che l'anno prima la lunga battaglia per far sì che questi facesse attenzione a non pronunciare “òdio beato” l'invocazione “o Dio beato”, era stata perduta dal Maestro; ma era d'altronde indubbio che la sua era senz’altro una voce più angelica: la più limpida e armoniosa del gruppo.
La notte di Natale, all'offertorio, si cantò la pastorale. Vittorio diede il meglio di sé. Compreso l'ineliminabile “òdio”; ma dopo il suo inserto il coro riprese ugualmente con impeto squillando “Ahi, quanto ti costò...”, e l'emozione fu palpabile nei coristi e nei fedeli, che dall'alto del coro essi vedevano tesi e frementi.
All'uscita dalla cattedrale si trovò che nevicava. A falde larghe e lente nella calma della notte profonda. I ragazzi percorsero in un silenzio assorto la breve strada che separava il seminario dalla cattedrale.
Nevicò tutta la notte e parte della mattina di Natale; poi rasserenò e alla tramontana gelida e al limpido sereno delle notti successive, la neve gelò. Sarebbe durata a lungo.
Che strane le vacanze di Natale fuori casa! Ma i giochi, lo studio sereno e rilassato perché non assillato dal pensiero dell'interrogazione o del compito, spingeva lontano dagli animi la nostalgia.
Padre Filippo arrivò qualche giorno dopo Natale e prese alloggio nel convento che i cappuccini governavano nella parte bassa del paese.
La sua non era certo una vacanza: volevano la sua guida e il suo perdono innanzitutto i suoi confratelli, ma poi anche il Vescovo e i parroci. Aveva le giornate piene. Predicò in ogni parrocchia, passò ore nel confessionale davanti al quale la gente faceva la fila.
I ragazzi ascoltavano ammirati i racconti, che i loro insegnanti facevano loro, di esperienze o di racconti appresi dai parroci, dai fedeli; dal Vescovo, perfino:
“Oggi il noleggiatore l'ha visto arrancare sulla neve ghiacciata mentre affrontava la scalinata e intenerito e ammirato lo ha fermato e fatto salire sulla sua macchina perché non soffrisse nel lungo tratto dalla fontana alla piazzetta dell'episcopio...”;
“Ieri padre *** entrato nella sua cella per rassettare ha visto che il letto era intatto perché aveva dormito per terra...”;
“Ma sapete? Gira coi sandali a piedi nudi incurante del ghiaccio!...”;
“Sua Eccellenza dopo la predica, gli è andato incontro con gli occhi lucidi dall'emozione...”.
Ogni resoconto si concludeva ribadendo che davvero era un uomo di Dio, che davvero il suo mondo non era “di questo mondo”!...
Tutto questo non faceva che accrescere l'eccitazione dell'attesa nei ragazzi.
Donato, in quei giorni aveva sempre il cuore in gola: “come mi presenterò? Avrò il coraggio di farlo, saprò fargli capire chi sono, a che famiglia appartengo?...”: da morire; d'altra parte viveva anche un momento di gloria. I ragazzi lo guardavano ammirati e anche un po' invidiosi, come se il sant'uomo, nella loro considerazione, gli appartenesse.
Un pomeriggio, verso le quattro, -gli ultimi sprazzi di luce coronavano la montagna di Schiavi d'Abruzzo- passò un superiore negli studi dove pigramente, i ragazzi, nella lentezza del pomeriggio, si dedicavano ai compiti, allo studio, a nascoste letture delle antologie di classi diverse dalla propria:
“Ragazzi, nella biblioteca, padre Filippo aspetta chi di voi vuole confessarsi. L'occasione è unica per voi: voi di questa classe potrete andare dalle cinque alle sei”.
Man mano che si avvicinava l'ora in Donato cresceva l'ansia: “ora finisco questa pagina e chiedo di andare”.
Nel frattempo qualcun altro, meno coinvolto usciva: Donato riprogrammava il suo momento: “appena rientra lui vado... aspetto ancora un po' e intanto raccolgo i pensieri...”: Alle sei e mezza entrò don Antonio “Sei andato?” chiese.
“Non ancora”
“E che aspetti, che vada via? Gliel'ho detto che c'è qui un ragazzo del suo paese. Dài, vieni”, disse prendendolo per un braccio.
Aprì la porta, spinse avanti il ragazzo dicendo: “ecco, Padre questo è il ragazzo”.
“Ah, sì; vieni, vieni, caro; siediti qui vicino a me”.
Quando il ragazzo si fu seduto Padre Filippo gli fece una carezza chiedendo: “come ti chiami?”
Col cuore in gola Donato “mi chiamo Donato sono nato a...”
“Si, si”, annuì “sei bravo? Sei studioso, ubbidiente? Prega, prega sempre; sii fiducioso e vedrai che il Signore ti ascolterà sempre”. Prese dal tavolo un libriccino con sulla copertina una dolce Madonna in abito azzurro e lo diede al ragazzo: “pregala, pregala sempre, è una madre non lo dimenticare. Va, caro, va” concluse rinnovando la carezza.
“Ma... volevo confessarmi..”, bisbigliò il ragazzo... Padre Filippo lo guardò con dolcezza -gli occhi erano azzurri e intensi-, e: “ Va'. Stai tranquillo”.
Rientrato nello studio Donato aprì il libro degli esercizi e il quaderno: doveva tradurre un brano dall'italiano al latino. Faceva fatica a concentrarsi: lo distraevano le parole gli occhi azzurri e il calore della carezza: ma soprattutto un delicato profumo che faceva pensare al pulito: quanto di più lontano da quello che il ragazzo avrebbe mai pensato di dover ricordare di un Santo dedito al digiuno, alla preghiera e forse anche al cilicio. Poi, all'improvviso, gli balenò nel pensiero la celebre raccomandazione “...Tu, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto”...
A lungo, quello sguardo così dolce e azzurro e quel buon odore di pulito che si spandeva particolarmente dalle mani e dalla barba (ben curata); e anche quella frase, hanno accompagnato il ricordo di quel ragazzo durante tutto il corso della sua vita. E tuttora è nitido nella sua mente.
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