Nel Nome del Padre Racconto di guerra del Sergente Pietro Palmieri (1912-1943)
a cura di Gianluca Di Luca
La seconda guerra mondiale ha segnato in maniera indelebile la storia del novecento. Uno scontro che ha coinvolto e spazzato via milioni di uomini. Su questa guerra sono stati scritti migliaia di libri che ne hanno ricostruito la storia politica e militare. Ne sono state spiegate le cause e descritti gli effetti. Si sono stilati bilanci tecnici ed economici. Un solo elemento è stato spesso, colpevolmente, trascurato: quello umano. La dignità, la fierezza, il coraggio, l’umanità di chi la guerra l’ha fatta da protagonista essendo un soldato e, nel contempo, l’ha subita essendo prima di tutto un uomo. I soldati italiani che con i loro drammi personali e la loro morte hanno contribuito a spegnere le fiamme dell’odio, lasciando a noi il peso del rimpianto e il privilegio della memoria. A loro, nell’anno del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, dedico la rilettura del racconto di mio Nonno e le verità senza tempo che l’oblio della storia non cancellerà.
Gianluca Di Luca
A Borrello, il 2 maggio 1912, da Angelo Nicola e Teresa Del Pesco, vede la luce Pietro Palmieri. La sua è una famiglia di contadini che vive dignitosamente i problemi del tempo. La Grande Guerra è alle porte. Gli esiti travolgenti di un frenetico sviluppo industriale, i contrasti per il dominio economico, malcelati nazionalismi, lasceranno spazio alla fatalità del primo conflitto mondiale. Il Titanic affonda nelle fredde acque dell’Atlantico, Giolitti introduce il suffragio universale maschile, Giovanni Pascoli passa a miglior vita. Nel 1912 Borrello conta circa millecinquecento abitanti. In paese la vita scorre tranquilla. Pietro è un bambino sveglio e vivace. Quando l’età lo consente inizia la scuola, che frequenterà fino alla quinta classe, ed aiuta i genitori nel lavoro dei campi. Una volta libero da impegni scolastici, spronato dai genitori, inizia il tirocinio per imparare il mestiere di muratore sotto la guida esperta del maestro Vincenzo Spagnuolo. Gli anni successivi lo vedranno impegnato con serietà e rigore nel suo lavoro. I ritagli di tempo sono dedicati alle battute di caccia in compagnia del fratello Giuseppe. Pietro svolge il servizio militare di leva nel Corpo degli Alpini, al termine del quale torna alla vita di paese. Ma solo per poco. In Europa la situazione politica che precipita, alimenta minacciosi venti di guerra. Nel 1939 è in Albania. A novembre dello stesso anno è di nuovo a Borrello. Nel dicembre del 1940 parte con destinazione Tarcento (Udine). Nel marzo del 1941 è di nuovo in Albania. Partecipa all’invasione italiana in Grecia iniziata nell’ottobre del 1940. Alla fine del 1941 torna a Borrello. Nel 1942 sostiene una continua e alternante attività di spostamento tra Borrello e il Friuli che durerà fino agli inizi del mese di luglio, quando riparte alla volta di Gorizia. La guerra lo porterà ancora lontano dai suoi affetti e dal suo amato paese. Tanto lontano da non tornare più. Un viaggio senza ritorno per il fronte russo. Lo immagino partire ed allontanarsi con la serenità degli inquieti, con l’inconsapevole capacità di accettare le imperfezioni del reale, verso un graduale, ineluttabile addio alla vita.
Le ultime notizie del Nonno sono quelle comunicate per mezzo di una cartolina postale spedita da Udine il 16 luglio 1942. Poi il nulla. Un nulla buio e profondo. Un silenzio assordante lungo mezzo secolo, rotto da una fredda comunicazione ministeriale di morte avvenuta: 10 maggio 1943. Pietro Palmieri aveva trentuno anni. Il mese della scomparsa è lo stesso della sua nascita. Una coincidenza che fa pensare alla vita e alla morte che si tendono la mano nella certezza di un destino. Il principio e la fine come gli estremi coincidenti che generano l’assoluto.
La vita di P.P. è stata breve, ma di una brevità intensa caratterizzata dal suo essere Uomo e Alpino fino alla fine. Una vita che è stata compendio di virtù e sintesi di espressione umana nelle sue qualità migliori. Un’esistenza breve vissuta sotto la mole di una scelta obbligata, quella di essere soldato in guerra, in cui la possibilità di realizzarsi nella vita e nella storia si è compiutamente tradotta in una realtà che lo ha portato a varcare la soglia dell’onore. Una vita come espressione di un individualismo eroico se è vero che per la guerra si parte in tanti, ma si incontra la morte soli. Una vita straordinaria che nella sua brevità non ha mancato di onorare le circostanze affettive, ambientali e spirituali che caratterizzano l’esistenza umana. Una vita vissuta per gli altri, l’unica che valga veramente la pena di essere vissuta. Una vita che spesa con passione appare più lunga della sua durata. E’ stato descritto come un ragazzo solare e vivace, generoso e poco incline ai compromessi, giusto, leale, di temperamento. Percorreva lunghe distanze in bicicletta, giocava a calcio nel ruolo di portiere, gran tiratore con il suo fucile da caccia, dote che gli sarà riconosciuta in ambito militare con la qualifica di “tiratore scelto”. Dinamico e risoluto nel suo lavoro di muratore. Quando deve partire per la campagna di Russia, lavora nella manutenzione del muro di cinta della villa comunale del paese.
Le lettere e le cartoline inviate dai luoghi dove fu chiamato a combattere e a sostenere addestramenti (Udine, Albania, Grecia, Gorizia, Jugoslavia) recano notizie che sono la sostanza dell’uomo prima che del soldato. Esse sono la testimonianza della sue qualità umane, della capacità di sostenere il suo dolore e quello dei suoi cari che lo sentono sempre più lontano. “…dobbiamo andare avanti e fare quel che dobbiamo fare senza rattristare coloro i quali soffrirebbero quando noi soffriamo”, scriveva George Sand. Le sue notizie sono discrezione e rispetto per la sensibilità altrui. Esse non sono mai lo sfogo di un’amarezza, il lamento di un disagio, l’enfasi di uno sconforto. Egli vuole sentirsi vicino alla propria famiglia rassicurandola, interessarsi alle sue vicende vivendole da lontano. E’ lo spirito più che la mente ad abbattere le distanze. Il Nonno che definisce pudicamente “troppo” il tempo in cui, tra i continui spostamenti con indosso la divisa da Alpino, resta in famiglia, esprime un alto senso del dovere, un’etica della responsabilità che non incontrano la sua esistenza ma vi corrispondono come la purezza di un respiro. Un rapporto con la vita da cui emerge una certa ritrosia che rende conformi le umane pretese ai limiti che il fato impone. Un rispetto per il fato che è amore metafisico per la vita. Una vita accolta nel suo esistere che trova la sua ragion d’essere nell’Essere. Una vita con un senso d’altri tempi, un’educazione semplice e rigorosa che antepone il rispetto dei doveri al godimento dei diritti personali.
Una vita breve che può non concedere l’umana possibilità di commettere errori. E’ il destino di chi ha il cielo per amico. E’ il risultato di un’esistenza verticale che il tempo storico ha fermato rendendo, in un sinistro e paradossale spartito della vita, un nonno eternamente più giovane di suo nipote. Le pagine scritte dal nonno sono candide, prive di quell’umana, incontrollabile, modica vanità che pure caratterizza chi scrive. Esse hanno un sapore antico. Il colore verdognolo dell’inchiostro e la carta consunta sono segni che diffondono una sensazione lieve di atmosfere sfumate nel tempo. La copertina del piccolo quaderno mostra macchie nerastre come il dorso di una vecchia mano. L’uso del lessico è semplice, il valore simbolico delle parole richiama una forza espressiva immediata e concreta. I vocaboli e i modi di dire comuni rivelano il rapporto drammatico del soldato con la realtà bellica. Avvicinarmi a quelle pagine che trasudano sofferenza, leggerne le parole, non è stato facile. Un pudore latente impediva di violarne lo spazio vitale, provocando in me un senso di invadenza irriverente, di profanazione della memoria. Sfogliare le pagine ingiallite è stato come fermare il tempo ed entrare in presa diretta nella storia. Essa mi appartiene in qualità di cittadino della mia Nazione e di più come nipote di un eroe. Gli eroi sono anche padri, per questo è stato pensato un titolo teso a generare il ricordo di mio Nonno come padre di sua figlia, mia madre. Padre e figlia condividono una vita incorporea, dell’anima, una vita posteriore, spirituale, che li rende vicini come mai è stato possibile in una vita terrena. Il titolo scelto, dunque, assume l’idea di Dio come immagine evocativa della Trinità, dogma fondamentale della fede cristiana.
Non è mai facile parlare di ciò che viene scritto e lo è ancor meno se si tratta della rilettura personale del racconto di guerra di tuo Nonno. Il rischio è quello di tralasciare, senza volerlo, l’essenza del racconto, le atmosfere, le emozioni.
L’idea di una rilettura ha iniziato a prendere forma in modo graduale e silenzioso. Tutte le volte che in famiglia saltavano fuori discorsi riguardanti le vicende della seconda guerra mondiale e del nonno disperso in Russia, tornava in me il desiderio nascosto di far rivivere la sua figura, le sue gesta, i fatti bellici che lo videro protagonista, attraverso le sue pagine scritte nella primavera del ’42, prima della partenza per il fronte russo. L’obiettivo di una rilettura come possibile interpretazione letteraria si è realizzata sulla base di elementi compositivi della narrazione e di aspetti evinti dal contesto originale in cui si leggono. Il lavoro svolto sulla base narrante, nel suo complesso, non ha alterato la semanticità degli enunciati e il carattere sensibile dei fatti, ma ha inteso prestare attenzione particolare all’organizzazione formale e alla struttura morfosintattica dei contenuti. Pensare che il tentativo sia gradito al nonno non è fatuo compiacimento. La certezza è quella di aver raccolto nel vento della storia una voce viva, affettuosamente vicina, che filtra attraverso l’ombra vaga e impenetrabile del passato.
In un tempo indefinito è cresciuto in me il bisogno di un ideale, parziale, breve viaggio a ritroso nella storia familiare, nel tentativo di afferrarne le radici e coniugarle nel presente di una vita che scorre veloce, che concede sempre meno spazio alla riflessione. Abbiamo il mondo in tasca ma non abbiamo più visioni del mondo. Viviamo in una società che sembra non volere storia, non volere tempo, ma solo il qui e ora. L’avvenire ci tormenta, il passato non ci trattiene, il presente resta l’unica attesa di vita.
Rileggere il racconto ha significato fare i conti con il senso della vita, attraverso la metafora della guerra. La libertà e la prigionia, la speranza e la costrizione, la violenza e la pace, sono dicotomie che traducono in maniera intensa la condizione umana. Il soldato in guerra vede ogni giorno che un amico lo lascia solo, fin quando si accorge che domani potrebbe essere lui a lasciare solo qualcuno. La vita che in guerra assume un valore relativo ma intrinsecamente carico di eroismo come proprietà del reale, all’interno di un sistema di rapporti umani estremo. C’è chi ha definito beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Il racconto, invece, rivela una dimensione spirituale che fonda l’esistenza di un uomo e di una comunità. Lo spirito è l’appartenenza ad un comune destino. Alzare una bandiera, intonare un canto ispirato a ideali condivisi, sentirsi uniti nella sofferenza, sono i simboli di quel patrimonio vivo, perenne e assoluto di valori, corrispettivo di un modus vivendi che ci vede figli di un disegno. Un’etica, spesso, avversata da un bieco ostracismo ideologico, persino antropologico, preventivo e relativista. Gli ideali sono irraggiungibili come le stelle, ma indicano la retta via; percorrerla è riconoscere il motivo per cui si vive, malgrado l’eventualità di un destino contro. Significa esprimere consenso profondo alla vita, comunque vada. Chi oggi nega la cittadinanza alla parola valore e la declama soltanto, fa unicamente teoria della pratica ed è fautore di una scarsa pratica della teoria.
La rilettura come viaggio familiare mi ha offerto piani convergenti di riflessione, sul significato di appartenenza ad un nucleo familiare e al legame forte con la comunità d’origine intesa come terra dei padri. I riferimenti del Nonno ai suoi affetti, alla sua casa, rimandano ad un’idea di se stessi nel mondo che stiamo perdendo, quello delle radici e dell’identità. La società contemporanea, la comunicazione globale, ci vorrebbero anzitutto cittadini del mondo. E’ una visione semplicistica che si fonda sulla falsità di un abuso. E’ la negazione stessa della storia come prodotto delle diversità, la sua fine decretata da un pensiero breve e malsano nella sua unicità. Non si può essere cittadini del mondo senza prima essere memoria nel luogo dell’appartenenza. La famiglia, sentinella del focolare domestico, che attende il ritorno dal fronte del figlio soldato e il desiderio di questo di tornare nella terra natia, sono la trasfigurazione del mito, lo schema senza tempo, la narrazione simbolica, la rappresentazione ideale che spiega l’origine di un popolo.
La rilettura è stata occasione personale per tendere le braccia ed accarezzare idealmente Borrello. Di ripensare, se pur fugacemente, alle corse da bambino lungo le strade del paese, alla tante porte a cui bussare, ai cari defunti che non ci sono più e che oggi sembrano vissuti solo in una favola. Il ricordo della vita familiare non è mai esaustivo. Il tempo lo rende parziale e lo sguardo della memoria lo sfuma nei ricordi. Solo gli angoli più reconditi dell’animo umano celano integro il sentimento di esperienze vissute.
La rilettura è stata una visione circolare del passato che periodicamente riaffiora, veritiera, nella descrizione della condizione umana. E’ stata il bisogno inconscio di collegarsi alla Tradizione, intesa come forma mentis. La necessità di avere un’origine, una certa idea della vita, una visione del mondo, che agiscano come un inizio di continuità della propria esistenza. L’esigenza di perpetuare il ricordo di chi abbiamo perduto, il suo impegno e il suo valore, attraverso un’identità che resista alla morte e trascenda il ciclo vitale. La rilettura è stato un atto di coraggio vissuto come modo della paura. Un coraggio usato per cercare dentro un passato dove c’è un cuore profondo che è destinato prima o poi a riapparire.
Gianluca Di Luca
LA STORIA
L’idea di Mussolini di iniziare la campagna di Grecia nasce dal tentativo di rispondere all’avanzata tedesca in Romania e dalla possibilità di assicurare all’Italia una base nel Mediterraneo che avrebbe favorito l’impresa sul fronte africano. Le modalità di azione sono definite nella riunione di Palazzo Venezia del 15 ottobre 1940. Viene approntato un ultimatum che l’ambasciatore italiano ad Atene, Emanuele Grazzi, fa recapitare al primo ministro greco Metaxas. Nel documento c’è il riferimento alla neutralità greca nei confronti dell’Italia e, in grazia della stessa, si consiglia di consentire alle forze italiane l’occupazione di alcuni punti strategici in territorio greco. Il documento avverte che se le truppe italiane incontrassero resistenza, questa sarebbe piegata con la forza. L’ultimatum, che scadrà solo dopo tre ore dalla consegna, viene sdegnosamente rifiutato. E’ guerra. All’alba del 28 ottobre 1940, le truppe italiane dislocate in Albania, centocinquemila uomini, varcano il confine greco e penetrano in territorio nemico. La Grecia tutta si mobilita: la volontà di resistere è unanime. La combattività dei greci sarà estrema. L’Esercito Italiano dopo duri combattimenti in condizioni climatiche proibitive, verrà respinto.
“NEL NOME DEL PADRE” narra di quella vicenda.
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“NEL NOME DEL PADRE”
31 marzo - 16 aprile
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31 marzo. Da qualche giorno ho sistemato una brandina utilizzando due pali ed un sacco di tela resistente. Riposo abbastanza bene, nonostante i pidocchi non diano tregua. Da circa un’ora ho terminato il giro di ispezione. Le sentinelle custodiscono le postazioni delle mitragliatrici con la consueta dedizione. La notte è tranquilla. Ma è una quiete apparente che precede una tempesta di piombo. Ho appena ripreso sonno, quando sono svegliato da una scarica di cannonate che cadono a pochi metri dal mio tugurio. Le grida del tenente comandante sono perentorie. Con uno scatto mi libero delle coperte. Sono già in divisa. Infilo le scarpe senza allacciarle. Non c’è tempo per riflettere. Comprimo l’elmetto sul capo, mi carico di bombe che più non posso, impugno la pistola e raggiungo la mia postazione di combattimento. Sono le quattro e trenta. La luce livida del mattino non lascia distinguere i contorni. Le artiglierie greche che tuonano incessantemente. Le mitragliatrici crepitano un rosario di morte. Rispondiamo al fuoco nemico con veemenza. Dopo alcune ore, il ripiegamento dei greci ci consente di riprendere fiato. Ma solo quello. Un razzo rosso disegna la sua traiettoria in cielo e con essa un nuovo inizio. L’artiglieria greca riprende un fuoco rabbioso che sembrerà interminabile. E’ giorno pieno quando ci accorgiamo di essere accerchiati. Non ci perdiamo d’animo. I greci sferrano un nuovo attacco nel tentativo di annientare la nostra strenua resistenza. Li respingiamo. Subiscono gravi perdite. Nella mia trincea sento i gemiti dei numerosi feriti: molti sono quasi morti. Dalla stazione radio, in collegamento con il Comando di Reggimento, si invocano rinforzi che non arrivano, a causa della grande distanza e dell’artiglieria nemica presente sul territorio. Ma arriveranno. Resistiamo con tenacia. Di nuovo nel cielo un razzo rosso che annuncia la ripresa impetuosa del fuoco da parte dell’artiglieria greca. La fanteria nemica, un numero di soldati dieci volte superiore a quello di noi Alpini, attacca inesorabile. Dal vicino convento giungono grida disperate che si confondono con le esplosioni. Bombe lanciate a ripetizione colpiscono in pieno l’infermeria. L’edificio è completamente distrutto, i ricoverati sono sepolti dalle macerie. Alla mia destra combatte eroicamente un Alpino della mia squadra. Ad un tratto, sento un grido di dolore e lui che si accascia su di me, mentre gli fuoriesce del sangue dal petto che mi imbratta tutto. Ordino immediatamente che venga trasportato presso un punto di medicazione. Ma è già tardi. Non c’è più niente da fare. Guardo il corpo esanime del caro Colucci e prego. La morte del nostro camerata ci lascia un sentimento forte di rivalsa: lo vendicheremo. I rinforzi non arrivano. Siamo quasi privi di munizioni. I greci, in numero sempre crescente, insistono. Le gravi perdite subite sembrano aver reso ostinati i loro attacchi. Avanzano con determinazione. Si combatte ad armi impari. Un grido improvviso al mio fianco: un alpino ferito, alla fronte. Un altro grido, un altro ferito da schegge impazzite di bombe. Il fuoco dei nostri soldati sta diminuendo d’intensità. Frammenti di bombe che cadono a pochi metri da me. I proiettili che sibilano picchiando sul suolo, alzano una nuvola di polvere che mi acceca. Per un istante non riesco ad aprire gli occhi. Capisco che non è grave, ma l’occhio destro è momentaneamente fuori uso. Il fuoco italiano rallenta lungo tutta la linea di combattimento. Tuonano le bombe a mano nemiche. Noi lanciamo le ultime in nostro possesso. E’ il fragore della battaglia che si consuma. Il fuoco è sempre più debole, quasi spento. Il nemico si fa sotto inesorabile. E’ a pochi metri dalla trincea. E’ finita. Siamo centottanta al netto di morti e feriti, un numero che renderebbe vano il combattimento corpo a corpo alla baionetta. Siamo circondati. Il pensiero è rivolto a Dio e alle nostre povere famiglie. Per evitare di essere infilzati, alziamo le braccia in segno di resa. Saremo costretti al crudele destino della prigionia. Alle sofferenze nei combattimenti, alla possibilità di una vittoria, che sarebbe stata comunque possibile se solo i rinforzi fossero arrivati, fa seguito l’umiliazione più grande per un soldato: la prigionia.
I greci sono davanti a noi sulla linea di trincea. Mostrano le bombe a mano, cancellando sul nascere tentativi estremi di reazione. Ci intimano di uscire uno alla volta. Io sono uno dei primi. Ci sfilano la cintura dei pantaloni e staccano i bottoni dalle nostre divise per demolire in noi ogni pensiero di fuga. Siamo dei prigionieri. Discendiamo il nevaio con i pantaloni in mano, le scarpe prive di fasce, senza elmetto. Ripenso a quando, durante il combattimento, una scheggia me l’ha strappato via. Al mio fianco cammina un tenente, veneziano, il quale sorregge per un braccio il suo sottotenente. Questo, orribilmente ferito alla bocca da pallottole di mitragliatrice, è in stato confusionale. Ci stanno conducendo al Comando di Reggimento. Da lì raggiungeremo il Comando di Divisione. La prima notte di prigionia trascorre tra mille pensieri.
1 aprile. Mattina. Siamo reduci da una notte insonne. I greci ci offrono un pezzo di pane, a cui farà seguito un pezzetto di un impasto disgustoso che per loro è un dolce. Decidono che è giunta l’ora di mettersi in cammino. Incolonnati, ci dirigiamo verso Gorica. Durante lo spostamento siamo fiancheggiati e controllati a vista da un cordone di scopas, sentinelle greche, armate di fucili con baionette innestate. Marciamo tutto il giorno. I territori che attraversiamo sono aspri e non consentono una marcia regolare. Arriviamo a Gorica che è già notte. I miei piedi sono rovinati dal lungo e impervio cammino. Per due interminabili giorni saremo rinchiusi in una prigione. Per il sostentamento, ci vengono date olive al sale e pane nero.
4 aprile. E’ già mattina quando siamo sorpresi da un rombo di motori. Dalla finestra della nostra prigione vediamo una fila di automezzi militari ed un gruppo di soldati. Attendono noi. Ci fanno uscire, ci costringono a salire sugli automezzi con i motori accesi. Partiamo. Si viaggia tutto il giorno senza toccare cibo. La sera arriviamo a Florina. Il luogo sa di prigione più di noi. Scesi dagli automezzi, veniamo spinti all’interno di baracche costruite appositamente per la reclusione. E’ tarda sera quando ci danno il solito pezzo di pane con poche olive. La notte trascorre lenta. Anzi, non trascorre. Ho smarrito la percezione del tempo. I minuti e le ore si confondono con i pensieri. La stanchezza mi fa pensare a puntate. Difficile essere ottimisti. Non penso più. La mente è in balìa del nulla. Incerta come la notte greca.
5 aprile. E’ il mattino di un altro giorno. Siamo in prossimità di una linea ferroviaria. Vi siamo giunti in breve tempo, percorrendo un tragitto lineare. Ci fanno salire su un treno. I vagoni bestiame che ci trasporteranno sono pieni di sterco di cavallo e di indecifrabile, nauseabondo materiale. Quando le porte vengono serrate, il fetore è insopportabile. Le ore trascorrono. E’ tardi, la fame mi assale. Arriviamo a Salonicco dove ci attende una sosta. Ma giunge notizia di un evento importante che si sta verificando: l’esercito tedesco avanza velocemente verso Salonicco. La sosta è annullata. Il viaggio continua verso Atene.
7 aprile. Notte insonne, trascorsa senza essermi assuefatto alla puzza del vagone. Lo stimolo di fame è tremendo. Saranno trascorsi due giorni e due notti senza mettere cibo in bocca. Mi sforzo di pensare per tenere la mente occupata. E’ impossibile. L’unico risultato è quello di realizzare che i giorni del digiuno sono addirittura tre. Non ci è concessa nemmeno un po’ d’aria. I portelloni del vagone sono chiusi dall’inizio del viaggio. Come Dio vuole. E’ già sera quando arriviamo ad Atene. Finalmente scendiamo dal treno, ma la voglia di tornarci arriva presto. Ci conducono attraverso le strade principali della città. La folla assiepata ci sputa addosso e inveisce all’indirizzo del Duce. Alcune donne vestite di nero si avventano letteralmente contro di noi. Vogliono vendicare i mariti caduti in battaglia. Sono sfinito. Non ce la faccio più. Il cammino riprende. Mi sembra lunghissimo. Arriviamo al campo di concentramento. Vedo baracche in legno che sorgono all’interno di un perimetro costituito da piccole caserme. Finalmente distribuiscono un pò di pane. Nulla rispetto alla fame che ci logora. Resteremo qui per sette giorni. Nel campo di concentramento di Atene, i nostri indumenti sono disinfettati. Per qualche giorno ci liberiamo dei pidocchi. Siamo denutriti e il cibo somministrato appare persino buono. Tutti i giorni siamo testimoni dell’offensiva italiana. Il tempo trascorre in un continuo stato di allarme aereo. Il suono delle sirene segnala la comparsa in cielo degli aerei della nostra aviazione che bombardano incessantemente la capitale greca. I soldati si nascondono nei ricoveri, noi nelle baracche. La terra continua a tremare sotto i nostri piedi. La sensazione è quella che da un momento all’altro una bomba possa cadere sulla nostra baracca. L’allarme suona. Suona giorno e notte.
13 aprile. Santa Pasqua. Quanti ricordi! Il mio pensiero corre ai miei cari. In questo giorno la mia sorte mi sembra ancora più triste. Mangiamo meglio del solito. Verso sera, grazie ad un amico, apprendo che la città di Salonicco è stata occupata. Sono rincuorato. La notizia si diffonde in tutto il campo e suscita commenti che sanno di speranza. I greci si accorgono che siamo custodi di una buona notizia. Si indispettiscono a tal punto che iniziano a prenderci a cinghiate. Nel corso della giornata non si verifica alcun bombardamento. Avvistiamo solo voli di ricognizione.
14 aprile. Mattina. Dopo l’adunata c’è fermento. Non capisco. Qualcosa di insolito rompe la consuetudine monotona del campo. Trascorrono pochi minuti. Continuiamo a porci domande che restano prive di risposte. Voci incontrollate fra noi prigionieri parlano di un trasferimento. Pare sia così, ma ignoriamo la meta. Dissimulando, riesco ad avvicinarmi ad una guardia cittadina che è nel campo. Le chiedo notizie. Le fugaci parole che interpreto mi lasciano intuire che la destinazione è l’isola di Creta. Sono impietrito. Vorrei sbagliare, ma temo che non sia così. Ci avrebbero condotti in un’isola lontana per evitare la nostra liberazione. L’avanzata dei nostri nei territori della penisola greca avviene spedita, ma Creta è un’isola e per giunta lontana. A nessuno dei miei camerati riferisco la notizia che ho appreso. Forse perché spero fino all’ultimo che non sia vera, che abbia frainteso le parole della guardia. Purtroppo, la partenza è imminente. Ci consegnano una pagnotta a testa che dovrà bastare per i successivi tre giorni. Andiamo via come siamo arrivati, tra le invettive e la derisione degli abitanti che fanno da cornice alla nostra triste sfilata lungo le strade di Atene. Per raggiungere Tripòlis prendiamo un piccolo treno che nelle forme mi ricorda il treno della Sangritana. Il viaggio viene più volte interrotto da prolungati allarmi aerei. Prego Dio che sia fatta la sua volontà. Arriviamo a Tripòlis. La notte la trascorriamo in treno. Non penso. Vorrei poter sognare un’altra vita.
15 aprile. Sono desto da pochi minuti. Voci confuse mi distolgono dal torpore mattutino. Mi chiedo cosa stia accadendo. Apprendo che ci faranno marciare per settantadue chilometri! Con la nostra debolezza è impossibile. Ma in guerra l’impossibile è probabile. Sarà breve il tempo che ci separa dall’inizio di un lungo cammino. Prendiamo la strada diretti a Sparta. Percorriamo un numero considerevole di chilometri fino a sera. Per la notte il nostro giaciglio sarà la nuda terra.
16 aprile. Il mattino presto ripartiamo. Il riposo notturno è stato un male minore. L’inerzia è l’unica forza che ci sorregge. La pioggia è annunciata da un cielo plumbeo che per noi è già nero. Un’ora più tardi sulle nostre teste compaiono nuvoloni che il vento descrive rabbiosi. Fa freddo. Cadono le prime gocce di un temporale triste. L’aria circostante è intrisa di un afrore penetrante. Un istante, e l’acqua che scende copiosa da un cielo tenebroso. I minuti trascorrono. Senza indumenti di ricambio che diano il sapore di un riparo temporaneo, proseguiamo. Lo scabro sentiero acuisce l’abbandono fisico e mentale. La pioggia aumenta d’intensità. Siamo rattrappiti, avvolti in un silenzio surreale rotto da rantoli di fatica. I minuti diventano ore. Queste si trasformano in un tempo lungo che scorre perfido. I camerati più deboli segnano il passo. Per loro gli scrosci d’acqua sono più crudeli. La colonna di uomini si allunga in una colonna disumana. Essa diventa sottile come una labile speranza. Le guardie greche, a spintoni, ricacciano gli ultimi nello schieramento. La marcia non conosce soste. E’ tardo pomeriggio. Proseguiamo.
Siamo sul far della sera. Il temporale è alle spalle come i tanti chilometri percorsi. Trascorreremo la notte del giorno più lungo della nostra prigionia in una stalla. Lo spazio non è sufficiente a contenere tutti. Molti di noi non vi trovano riparo e sono costretti a trasferirsi all’esterno: riposeranno all’aperto. Andrà bene comunque. La spossatezza è tale che sovrasta l’insofferenza e il disagio. Pioviggina. Ma l’umido dei nostri cuori è invincibile.
Trascorro le ore successive come in un incubo. Ho la febbre, il dolore ai piedi è terribile. E’ ancora notte fonda, quando ci svegliano per riprendere il cammino. Iniziamo lentamente la marcia sotto una pioggia che viene giù fitta. I miei piedi non sopportano il contatto con il suolo, le ginocchia si piegano. Il logoramento è tale che un semplice, lieve movimento produce in me un dolore insopportabile che prende tutto il corpo. Sto per arrestare la mia marcia. Vorrei chiedere aiuto, ma so che nessuno può darmelo. Tutto è impossibile. Respiro la mia fine. I dolori che aumentano si scontrano con le mie ultime volontà nascoste, quelle che pensi di non avere. Quelle che ti impongono di continuare anche se non sai come. Non devo arrendermi. Invoco l’aiuto di Dio. Lo prego di non abbandonarmi. La febbre è salita. Il vento scaglia sui nostri visi una pioggia che recide le ultime forze. Proseguiamo. Il mattino tenebroso suscita nient’altro che timore ed angoscia. Attraversiamo terreni impervi che sono interminabili. Sono sfinito. Mi sento abbandonato da tutti. Penso che ciò di cui sono vittima non può essere opera dell’uomo. La sua ferocia non può arrivare a tanto. Penso. Penso ancora, mentre giunge il momento di una sosta. Essa è per noi il dispiacere di quando riprenderemo il cammino. Siamo fermi. Doloranti. Silenti. Ognuno è con se stesso. C’è una fontana, ma nessuno beve. L’inedia ci rende incapaci di deglutire. Avremmo bisogno di tutto e siamo capaci di nulla. Il tempo scorre. Sento tanto freddo. La febbre non diminuisce. Prego. Poco dopo, un barlume illumina il cielo: un sole caldo di primavera si fa largo tra le nubi. Una speranza nuova scalda i nostri cuori. Penso alla mia casa. Penso ai miei cari, alle cure affettuose che mi avrebbero regalato, al mio morbido letto. Se mi vedessero in queste condizioni, morirebbero dal dispiacere. Qui nessuno si prende cura di me. Nessuno si prende cura di nessuno. C’è tanta umanità anche in questo. Dio non mi abbandonerà. Riprendiamo la marcia infinita. Percorriamo ancora tanti chilometri. Distrutti dallo sfinimento, arriviamo in un’amena località dell’entroterra greco. Un campanile che sovrasta i tetti delle abitazioni attira la mia attenzione. Pensiamo di essere a Sparta. Ci sbagliamo. Per giungere a destinazione occorrono dieci chilometri. Sembreranno cento. Marciamo senza sosta. Ho perso la sensibilità ad entrambe le gambe. Non le sento. E’ come se non mi appartenessero. Forse è un bene. Arriviamo finalmente a Sparta. Attraversiamo la città. Come in un rito tribale si ripetono le scene di Atene. Per le strade i cittadini scaricano tutta la loro rabbia isterica con urla, invettive, gesti di scherno. Osserviamo indifferenti. Ancora pochi metri. Ci conducono in un locale che sembra essere stata una scuola. Ci fanno scendere in un sotterraneo. E’ la nostra nuova prigione.
Serg. Pietro Palmieri
Il racconto termina qui. E’ il destino di certe parole che raccontano storie straordinarie. Esse arrestano il loro cammino perchè sanno di non poter spiegare ogni cosa. Perchè esiste un linguaggio silenzioso che non dice ma sa: è quello del cuore.
"Il cuore ha delle ragioni che la ragione non può comprendere" - sosteneva Pascal.
Il Sergente Pietro Palmieri uscirà indenne dal fronte greco. La sua guerra, come quella di molti Alpini, continuerà sul fronte russo dove egli perirà di stenti nel campo di prigionia n.188 di Tambov.
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