NATALE DEL 1943


di Riccardo D'Auro



Raffaele nella sua telefonata di auguri mi ha chiesto come trascorremmo il Natale del 1943 avendo quello attuale una certa analogia con esso. Sì, è vero perché dopo 77 anni siamo di nuovo in guerra, mancano però i tedeschi, che si erano ritirati sull’altra sponda e ci avevano già fatto sentire il sibilo straziante dei loro mortai piazzati sulle Tre Cime di Gamberale. Ora, invece, siamo in guerra contro un nemico invisibile, subdolo, pronto ad assalirci appena si abbassa la guardia. Ma torniamo alla domanda dell’interlocutore, un “figlio della guerra” - così definiti i nati nel periodo successivo - i cui genitori per i tempi che correvano non avevano avuto alcuna voglia di raccontare ai figli troppo della guerra, né essi stessi se ne fossero in seguito troppo interessati di saperne.
Avevamo trascorso un mese di lavoro defatigante, dedicato allo sgombero delle macerie e sui resti delle case distrutte per recuperare i materiali per il nostro tetto, intenti ad effettuare una corsa contro il tempo che minacciava la neve. Il giorno di Natale non fu, quindi, diverso dagli altri, ma mia madre ci fece la sorpresa preparando un desinare eccezionale: la pasta all’uovo, “un uovo di pasta” o come dicevano le donne, in ossequio all’abituale risparmio famigliare, “n’uvecille de maccarune” . La mia famiglia, con cinque zii aggregati, ebbe la fortuna di possedere il nucleo centrale bruciacchiato del mucchio di patate, ovvero l’intero raccolto che non era stato sistemato, rimasto per terra all’estremità del magazzino protetto da un pezzo del solaio non crollato. Si era inoltre salvata mezza botte di vino, alla quale avevano anche sparato, in parte trattenuto dalla cannella semirotta ed in parte raccolto, possedevamo, infine, le galline. Le avevamo portate al casino per il timore che venissero uccise dai tedeschi e sistemate nel pagliaio annesso della cui presenza non si accorsero durante le frequenti incursioni, soprattutto quando bruciarono il casino e tutti i ricoveri della zona. Vi restarono finché non venne riparata la loro casetta, affidate alle mie cure con il compito di andare a governarle tutti i pomeriggi sul tardi. Un incarico sgradito perché ero ancora scosso dalla strage avvenuta negli ultimi giorni dell’esodo a pochi metri di distanza, che aveva causato tre vittime, numerosi feriti ed un incredibile terrore. Avevamo udito l’avvicinarsi dei colpi di cannone e incautamente, così come avevano fatto quei poveri sventurati, uscimmo dai rispettivi ricoveri per raggiungere la strada sulla quale vi erano delle rocce ritenute un riparo più sicuro. Secondo alcuni reduci i colpi dovevano provenire dagli alleati impegnati in combattimento sulla sponda poco a monte.
Concluso il paragone con il Natale del 1943 abbandonati nella zona di nessuno, torniamo alla guerra con il Covid 19, una guerra senza le armi ma pericolosissima, che ci affligge dallo scorso mese di febbraio. Nel mio scritto precedente mi ero soffermato sulla rassomiglianza dei due conflitti soprattutto per il numero dei deceduti, con una punta massima di circa 1000 al giorno quelli causati dalla pandemia. Credo che il citato sia un numero non molto inferiore di quello dei bollettini giornalieri dell’EIAR, provocati dai continui bombardamenti delle nostre grandi città. Dicevo, inoltre, che si intravedeva a breve la possibilità della fine dell’incubo e che le istituzioni sicuramente avrebbero usato la massima prudenza in vista della concessione delle riaperture. Purtroppo, così non è stato e la pandemia dall’autunno ha ripreso vigore con inaudita virulenza.
Siamo anche adesso sulla buona strada, anzi meglio perché prossimi alla vaccinazione generale, ma timorosi che la gestione della calamità ceda alle pressioni del mondo dell’economia e del lavoro, e non di meno dei giovani, per ottenere aperture più consistenti. Non credo assolutamente che dopo un’esperienza così grave si possa ricadere nello stesso errore.
Chiudo con questa speranza ed un fervido augurio di Buon Anno agli amici di Borrellosite.


Pescara, 28 Dicembre 2020


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