I Militi Gloriosi

di Raffaello D’Auro



Come ogni sera, in quella torrida estate del millenovecentoquarantacinque, la gente veniva su per Via del Littorio1 ad attendere l’arrivo della corriera.
Era sempre un evento atteso con ansia perché, oltre al trasporto passeggeri, la corriera svolgeva anche il servizio postale. Tutti aspettavano notizie di prigionieri di guerra non ancora rientrati in paese, di parenti lontani dei quali si era persa ogni traccia a causa dello sconvolgimento totale che la guerra, appena cessata, aveva portato in ogni famiglia, in ogni paese, in ogni città.
Non sempre arrivava il vecchio automezzo perché spesso veniva ricoverato in qualche officina di Lanciano, bisognoso di riparazioni che non venivano fatte con pezzi di ricambio, ma con rattoppi ed aggiustamenti. La genialità e la perizia dei meccanici di allora rendevano onore alla connaturata arte di arrangiarsi tipica degli Italiani. Era un vecchio “Gippone” americano che aveva percorso centinaia di migliaia di chilometri trasportando soldati ed armamenti lungo tutte le strade d’Europa e che Armandino Di Rienzo di Roio del Sangro aveva acquistato in qualche deposito di residuati bellici della nostra zona. I cilindri sfiancati dal correre su e giù dei pistoni, la marmitta bucherellata dalla ruggine, la carrozzeria in più punti sconnessa, i copertoni delle ruote rattoppati con spessi pezzi di gomma mantenuti da grossi bulloni, conferivano al “Gippone” un rumore assordante, simile a quello degli aerei militari da ricognizione che spesso, durante la guerra, avevamo visto e sentito volare a bassa quota.
Il vecchio automezzo era, comunque, l’unico tramite che ci consentiva di uscire dall’isolamento dei nostri paesi permettendoci di raggiungere i grossi centri come Lanciano, Chieti, Pescara e di spedire e ricevere lettere ristabilendo quei contatti umani interrotti durante la guerra.
Ed allora, spinti dalla curiosità, dalla speranza e dal desiderio di evasione dalle pene quotidiane, come in una scomposta processione, tutti su per Via del Littorio.
Si sentivano già, librate nell’aria, alcune note musicali che avevano l’effetto immediato di placare gli animi ansiosi della gente e di far tendere l’orecchio verso le casette nuove da dove veniva l’insolito suono.
Era Zì Isidoro che, con la sua fisarmonica, toccava ora il “do” ora il “la” per consentire agli altri suonatori della improvvisata orchestrina di accordare i propri strumenti a plettro un po’ anchilosati dall’umidità cui erano stati costretti nei nascondigli, al riparo dell’impeto della guerra. Da tutte le case, dopo aver consumato una frugale cena, sollecitate dai primi motivi che l’orchestrina intonava, uscivano tutte le persone le quali si sedevano sui tre lunghi gradini che fronteggiano le porte d’ingresso di quelle abitazioni poste al piano superiore delle casette popolari costruite a schiera e che degradano nella discesa di Via del Littorio.
Il fresco portato da una lieve brezza alzatasi al calar del sole, la melodia della musica, il sorriso riapparso sul volto di tutti, ritempravano lo spirito ed il corpo affranto dalla fatica del giorno. Il rombo scoppiettante della corriera annunciava il suo apparire in cima a Via del Littorio. Tutti distoglievano lo sguardo dai suonatori e lo dirigevano verso quel vecchio “Gippone” che, arrancando faticosamente, aveva finito la salita del Cimitero ed ora, iniziata la discesa, sembrava finalmente respirare. Stracarico di passeggeri che si erano assiepati fin sopra l’imperiale tra valigie, scatoloni di cartone, damigiane e qualche animale da cortile rinchiuso in piccole gabbie, il mezzo, con fragoroso stridio di freni, si arrestava proprio davanti all’orchestrina.
Non era quello il luogo abituale della sosta che di solito avveniva a poca distanza della chiesa di S. Antonio, ma la corriera era costretta a fermarsi in discesa. Al suo sopraggiungere, in Via del Littorio, mostrava un faro spento e l’altro che emanava una luce fioca come un piccolo carbone acceso. Segno evidente che la batteria stava perdendo la sua carica ed era opportuno, quindi, fermarsi in discesa per poter poi ripartire, a motore spento ed a folle, ingranando poi le marce quando il “Gippone” avesse acquistato velocità. Il fattorino si caricava sulle spalle il sacco della posta ed andava a portarlo all’ufficio postale per tornare poi su con quello della posta in partenza. La sosta forzata era tuttavia gradita dai passeggeri di Rosello e Roio che scendevano volentieri per sgranchirsi un po’. Si accostavano all’orchestra e la musica sembrava rinfrancarli dal viaggio lungo e tormentoso. Non c’erano più apparecchi radio, né grammofoni e quella musica sentita dal vivo, i movimenti ritmici dei suonatori, il folto pubblico che riempiva le piazzette, davano a questi passeggeri la sensazione che forse la bufera della guerra si stesse dileguando e che i loro cuori potessero cominciare ad aprirsi ad un po’ di serenità.
Le donne del vicinato uscivano di casa con bottiglie piene d’acqua e bicchieri ed offrivano da bere a quanti lo desideravano. Tutti ne approfittavano per mandar giù la polvere che avevano persino in bocca e per respingere quei rigurgiti fastidiosi provenienti dallo stomaco che lo sballottamento, causato dalla strada dissestata, aveva provocato in tutti passeggeri.
L’orchestrina aveva trovato il giusto ritmo e Zi’ Isidoro, con la fisarmonica, passava da un tango all’altro. Il Tango delle capinere, Caminito, A media luz. Bruno accompagnava con il contrabbasso, Peppe con la chitarra e, vero enfant prodige, Rosario, di appena otto anni, suonava il mandolino.
Gli altri strumenti tacevano e lui, con un assolo virtuoso, si esibiva nel refrain. Note melodiose uscivano dal suo strumento e le corde, fatte vibrare come il trillo di un magico uccello, spandevano nell’aria una struggente armonia.
Qualche giovane ardiva invitare ad un giro di danza le ragazze, ma queste, pur desiderose, declinavano l’invito. Bisognava difendere la virtù femminile e così si ballava tra uomini.
Dallo spalto dei tre gradini, più a valle, davanti alle casette, veniva un vocio concitato e noi ragazzi, di undici, dodici anni, spinti dalla curiosità, sempre con un orecchio teso ad ascoltare la musica, ci trasferivamo nella piazzetta vicina.
Si parlava della prima Guerra Mondiale. Zi’ Guglielmo e Zi’ Orlando si raccontavano storie avventurose che li avevano visti protagonisti nei quattro anni di sanguinosi combattimenti contro un nemico che sembrava invincibile. Non potevamo perderci questo spettacolo nello spettacolo. Le storie erano avvincenti e la musica, ora, ci faceva solo da sottofondo nell’ascolto di esse. Zi’ Guglielmo raccontava che, finalmente, dopo mesi di guerra in trincea, il suo plotone era stato mandato, per un periodo di riposo, nelle retrovie. A lui, Maresciallo Maggiore, era stato affidato questo drappello di soldati. Molti commilitoni ed ufficiali avevano perso la vita nell’assalto alla baionetta e la piccola schiera di uomini sopravvissuta doveva essere rimpiazzata da forze più fresche. Si trattava dell’avvicendamento delle truppe che consentiva ai soldati, ormai esausti, un breve periodo di riposo da dedicare soprattutto alla pulizia del proprio corpo. Appena giunti sul posto a loro riservato, fu grande la sorpresa nel vedere una lunga tavola imbandita con ancora gavette, si, ma con tre o quattro grosse scodelle piene che potevano consentire a tutti di fare il bis. Si trattava della solita sbobba mangiata al fronte, ma in essa galleggiavano più cavoli e spessi pezzi di carne. C’erano fiaschi di vino che tutti avevano voluto subito assaggiare come aperitivo e persino dei dolcetti che le spose e le mamme del luogo avevano preparato per il rientro temporaneo di questi soldati. C’era di che scialare in quel pranzo luculliano.
Barbe lunghe, capelli incolti con sopra qualche ospite indesiderato, divise sporche ed a brandelli: questi giovani fanti sembravano usciti dalle caverne. Nessuno parlava. Si udiva soltanto lo sbrodolante e fragoroso rumore del succhiare con avidità il rancio di mezzogiorno, quando un giovane tenente si accostò al posto dove era seduto Zi’ Guglielmo e gli disse con sussiego: “Maresciallo, non si saluta?”
Zi’ Guglielmo, infastidito da quella inaspettata arroganza, guardò dal basso in alto il giovane ufficiale, impeccabile nella sua bella divisa blu d’ordinanza, con lo spadino dorato che gli scendeva su una gamba e, come si fa per scacciare un rognoso cane randagio, gli urlò addosso: “Passallaaa!” Il tenentino, sbigottito da quell’insulto terrorizzante, si dileguò nel bosco e ancora va scappando, aggiungeva Zi’ Guglielmo.

Al sentire che più giù si parlava di guerra, sorpassando l’orchestrina, si accostarono ai due amici Zi’ Filippo e Zi’ Vincenzo anch’essi, ex combattenti, desiderosi di rievocare eroiche imprese. Za’ Margherita, nel vedere la bella riunione di amici, usciva di casa con un vassoio pieno di bicchieri ed al centro un corposo fiasco di vino. Tutti se ne uscivano con espressioni di gradimento. Era il vino della contrada S. Marco e, pertanto, non poteva essere che ottimo. Ma, al primo sorseggiare, tutti si trovavano a digrignare i denti. Qualcuno, malevolo, aveva azzardato dire che il vino aveva preso il sensetto senza aggiungere, però, la specificazione blasfema di aceto. Parola troppo offensiva e irriguardosa nei confronti di chi aveva dato l’anima nella cura della vigna.
Dopo i primi sorsi, Zi’ Orlando si sentì stimolato a raccontare una sua storia. Il Capitano aveva bisogno immediato di trovare, fra i tanti, un alpino sciatore veloce e coraggioso e la scelta cadde proprio su di lui. “Di Luca”, disse, “devi portare questo dispaccio al Comandante della nostra guarnigione che sta giù a valle. È molto urgente e cerca di non farti beccare dai cecchini”. Zi’ Orlando sistemò il plico tra la giubba e la maglia intima e cominciò a sciare dando sulla neve colpi poderosi con le racchette per acquistare velocità. Non aveva fatto ancora molta strada quando avvertì un sibilo da un orecchio ed uno scoppio che veniva dall’alto. Il cecchino, appollaiato sui rami di un albero, aveva individuato la sua preda giornaliera e, sparando un colpo dietro l’altro, cercava di abbatterla. Ma Zi’ Orlando zigzagando tra gli alberi come se si esibisse in uno slalom pieno di ostacoli, rendeva vana l’infallibile mira del cecchino. Per evitare le pallottole però, aveva abbandonato il sentiero già tracciato da altri sciatori ed era finito per cacciarsi in una zona che lo portava dritto verso un dirupo. “Era il precipizio’’, diceva ancora con terrore ed il dubbio amletico se farsi uccidere dal cecchino o lanciarsi nel vuoto, lo attanagliò per un solo attimo. “Mai per opera di un cecchino, preferisco sfracellarmi tra le rocce”, si disse. Chiuse gli occhi e si lanciò. Subito avvertì qualcosa di morbido e scivoloso sotto gli sci. Riaprì gli occhi e si accorse che l’erto pendio era ricoperto di grossi abeti degradanti verso un pianoro sottostante e i rami degli alberi, abbondantemente innevati, formavano una specie di fortunosa pista di atterraggio e così, balzellando, balzellando, mentre la mantellina, con i due grossi lembi riuniti all’indietro come le ali di una farfalla gli facevano da timone di coda, ruzzolando sulla neve al suolo, toccò terra.
Il cecchino scese dall’albero e si portò sull’orlo del precipizio per constatare l’orrenda fine dell’alpino che imperdonabilmente aveva mancato con il suo fucile. Trasecolò quando vide che sotto il pendio un frugolo nero si stava scrollando la neve di dosso. Sparò tutti i colpi che aveva ancora nelle giberne ma, ormai, Zi’ Orlando stava già fuori portata di tiro ed i proiettili cadevano inerti conficcandosi nella neve. Lo sdegno assalì il cecchino che, in un impeto di collera, gridò verso il basso: “Italienisch soldat, sohn der hure” (soldato italiano, figlio di puttana). Zi’ Orlando si assicurò che il dispaccio stesse ancora tra la giubba e la maglia, con la mano sinistra strinse la piega del gomito destro, alzò il pugno in alto e disse: “Thoooo”. Il mortificante insulto rintronò tra le valli del Cadore come una saettante fucilata mentre, con rinnovata vigoria, riprendeva la corsa con gli sci. Raggiunse la guarnigione in men che non si dica e consegnò il dispaccio al Comandante. Questi lo lesse con rapidità e ordinò ai suoi soldati: “Presto, smontiamo le tende, dobbiamo abbandonare il campo”. Il Capitano che aveva inviato il messaggio, con il binocolo, aveva visto che gli Austriaci stavano puntando un mortaio proprio in direzione del piccolo accampamento; era, pertanto, necessario avvisare rapidamente quei soldati laggiù. Il Comandante della guarnigione chiese a Zi’ Orlando come avesse fatto ad evitare i cecchini e questi, mostrando la mantellina perforata in più punti dalle pallottole, raccontò la sua rocambolesca avventura. Rivolgendosi poi ad un sergente il Comandante ordinò: “Rifocillate questo valoroso alpino”. Di lì a poco cominciarono a piovere sul campo colpi di mortaio ma, ormai, la missione era stata gloriosamente compiuta e i soldati della guarnigione si erano messi in salvo.
Ognuno dei vecchi combattenti, seduti sui gradini di cemento, stimolati dalla foga dei racconti, ma ancor più dal vinello asprigno di S. Marco, aggiungeva una propria storia avventurosa. Come fanno i giovani d’oggi che si danno l’un l’altro schiaffetti sulle mani quando si raccontano cose eccitanti e dicono: “E vai!”, Zi’ Vincenzo, dopo ogni storia udita, per suggellarne il gradimento, si alzava in piedi e diceva: “Montegrappa, tu sei la mia Patria”.
L’orchestrina continuava a suonare piacevoli motivi, ma i vecchi commilitoni, con gesti sprezzanti delle mani, lasciavano intendere che quella musica non era di loro gradimento. Musica lasciva, quasi da debosciati. Era meglio cantare “La leggenda del Piave”, musica più virile, più eroica.
Ma Zi’ Orlando, però, la ritirata di Caporetto non l’aveva proprio mandata giù. Non accettava che, dopo aver conquistato col sangue, posizioni su posizioni, l’ordine perentorio di abbandonare le linee di difesa, ricacciava i soldati italiani al di qua del fiume Isonzo. Nella sua mente si insinuò il sospetto che Generali dell’Alto Comando avessero tradito e tale sospetto cominciò a serpeggiare anche fra le truppe. Ancora stizzito al ricordo di tale vigliaccata, ma ancor più stimolato dai fumi del vinello di S. Marco, diceva di aver mandato sotto processo un sacco di generali e aggiungeva, compiaciuto: “E stanno ancora sotto processo”.
Ho rievocato spesso questi simpatici episodi e quando frequentavo il liceo classico, ricordo che il professore di latino e greco ci faceva tradurre passi salienti di opere famose. Una volta ci assegnò, come compito, la traduzione, dal latino, di un brano dell’opera “Miles Gloriosus” di Plauto, commediografo vissuto duecento anni prima di Cristo. L’opera parlava di un soldato romano spaccone che raccontava agli amici le sue gesta di grande guerriero. Parlava di sanguinose battaglie mai combattute, del suo valore mostrato in campo e della sua irresistibile dote di rubacuori, impenitente. Millantatore delle sue eccelse capacità, pretendeva che il suo servo lucidasse ogni giorno la sua spada ed il suo scudo perché, alla prima battaglia, il bagliore delle sue armi accecasse il nemico sì da sventrarlo senza colpo ferire. Tutti facevano finta di credergli ed anzi lo stimolavano a nuovi racconti e le donne gli facevano gli occhi languidi ma, in realtà, disdegnavano la sua compagnia. Un malizioso accostamento di quei militi che io ascoltavo le sere d’estate in Via del Littorio al “Miles Gloriosus” fu inevitabile nella mia mente, ma molto fugace. Di persona avevo visto le medaglie al valor militare dei nostri soldati. Recuperate sotto le macerie delle case distrutte dall’ultima guerra, venivano, ora, conservate in una scatola di scarpe o appuntate con spilli su pezzi di cartone. Non se ne gloriavano i nostri “Militi Gloriosi” dei riconoscimenti ricevuti per aver partecipato a battaglie sanguinose. Non avevano fatto alcun cenno ai cruenti scontri quotidiani all’arma bianca. Anche loro avevano ucciso dei nemici e la consapevolezza che, seppur nemici, erano anch’essi degli esseri umani, suggeriva riservatezza e rispetto per chi aveva perso la vita. Zi’ Guglielmo ne aveva meritata una d’argento di medaglia. Era un veterano, aveva combattuto anche in Libia nella guerra Italo-Turca del 1911-12.
Stavamo scalzando le macerie della casa di nonna Cristina distrutta dall’ultima guerra quando, suo figlio Tonino, incastrato tra due mattoni, trovò un piccolo oggetto di forma circolare simile ad una moneta. Lo diede al padre perché spiegasse cosa fosse. Zi’ Guglielmo vi soffiò sopra per togliere la polvere, vi sputò e con la manica della giacca lo lucidò da ambo le parti. “Oh!” esclamò e, ripetendo una celebre frase, disse: “Tutto è perduto fuorché l’onore”. Due grosse lacrime gli solcarono il volto e, quasi con noncuranza, diede la medaglia al figlio dicendogli: “Conservala, se vuoi” e ricominciò a spalare e picconare nella speranza di ritrovare, giù in cantina, le patate che aveva nascosto dentro una botte. La bella medaglia gli era stata appuntata sul petto dopo la sanguinosa battaglia delle “Due Palme” nell’Oasi di Suani Abd el Rani, poco distante da Bengasi, combattuta per quattro ore di seguito il 12-3-1912. Ma, nelle trincee disseminate lungo il corso dei fiumi Piave e Isonzo non vi erano solo i soldati. Idealmente presenti al loro fianco, vi erano anche le mamme, le spose ed i figli dei combattenti che, rimasti nei luoghi natii, combattevano la loro guerra tra mille difficoltà sostenuti solo dalla speranza di rivedere sani e salvi i propri cari.
Nonna Cristina aveva ben cinque figli al fronte e da tempo non aveva più notizie di loro. Era in preda alla disperazione ed allo sconforto. Una donna minuta, ma laboriosa e perspicace, che aveva allevato i suoi figli con amore e col pugno di ferro di un generale di Corpo d’Armata, non poteva rassegnarsi a non vederli più. Poteva succedere, allora, come in quel bellissimo film proiettato qualche anno fa nelle sale cinematografiche, in cui si racconta che una madre americana che aveva già perso quattro figli nell’ultima guerra mondiale, scrisse una lettera al Presidente degli Stati Uniti, Delano F. Roosevelt, supplicandolo di rimandargli a casa almeno l’ultimo figlio rimasto vivo. Il Presidente, commosso dall’accorata preghiera di quella madre, diramò un ordine perentorio a tutte le truppe americane dislocate in Europa nel quale si leggeva: “Salvate il soldato Ryan” (titolo del film). Dopo mille peripezie, nell’ampio teatro bellico dello Sbarco in Normandia, i soldati addetti alla ricerca del giovane combattente, finalmente, lo rintracciarono e fu rimandato a casa dalla madre.
Nonna Cristina aveva deciso di scrivere al Supremo Comando delle Forze Armate Italiane, perché le dessero qualche notizia sui cinque figli dislocati al fronte, vivi o morti che fossero. Era un diritto conoscere la verità per una madre che stava dando molto per la patria. Nonno Giovanni e mia madre, allora giovinetta, cercavano di dissuaderla e la invitavano a pazientare nella certezza che qualche notizia sarebbe arrivata. E così fu. Un giorno il postino recapitò una lettera che non portava né timbri sul francobollo, né mittente. L’aprirono con trepidazione e col cuore pieno di speranza. L’aveva spedita Zio Peppino ed in essa dava notizie anche degli altri fratelli. Tramite il passa parola di Radio Fante, notizie che scambievolmente, i militari si trasmettono nei loro continui spostamenti, aveva appurato che i fratelli stavano bene pur non potendo rivelare le zone in cui essi erano dislocati. Neanche lui poteva dire dove si trovava. La severa censura della posta in partenza avrebbe bloccato la lettera nel timore che, se fosse caduta in mano nemica, si sarebbe potuta individuare una località dove erano dislocate le nostre truppe. Lo Zio, però, con molta scaltrezza, fece ricorso ad uno stratagemma. Disse che si trovava nel paese dei “Centrellari” e la censura che non capì a quale località si riferisse lo Zio, non bloccò la lettera. Non molto lontano da Borrello, vi è un paese che si chiama Castiglion Messer Marino dove, fin verso la fine degli anni cinquanta del secolo scorso, si producevano, artigianalmente, “le centrelle”, grossi chiodi dalla testa larga che venivano conficcati nella suola delle scarpe per renderle più resistenti nel camminare sulle strade brecciate. Sempre grazie a Radio Fante, si sapeva che spesso alcuni soldati, per il consueto avvicendamento delle truppe, venivano inviati a Castiglion delle Stiviere nel mantovano e quindi, l’accostamento del nome dei due paesi, rendeva esplicito il proverbio che dice: “A buon intenditor, poche parole”. Con questa trovata geniale, lo Zio aveva fatto capire esattamente dove si trovava, aveva dato notizie dei fratelli ed aveva riportato la serenità in casa di nonna Cristina.
Eravamo ancora molto piccoli ed io e mio fratello avevamo chiesto a nostro padre di raccontarci qualcosa della Guerra Mondiale. Ci aspettavamo di sentire storie avvincenti di soldati coraggiosi che sbaragliavano il nemico. Ci aspettavamo il racconto della favola bella che parlava della grande vittoria conseguita dall’Italia. “Non adesso, perché siete troppo piccoli, ma un giorno vi racconterò tutto”, ci disse. Papà non voleva disilluderci. Non voleva turbare l’animo di noi bambini descrivendo la cruda e tragica realtà di una guerra. Una storia, però, ce la raccontò e, nel parlare, sembrava ancora perplesso su ciò che gli era accaduto. Si trovava fra le Doline del Carso, sull’Altipiano della Bainsizza, ed una sera il Comandante della guarnigione lo chiamò e gli disse di raggiungere la piccola stazione ferroviaria che stava a valle verso la quale si poteva andare solo a piedi, percorrendo viottoli impervi che dalla montagna scendevano al piano. Il Capitano che presidiava la stazione lo avrebbe informato sul perché di questo insolito spostamento. Si stava facendo buio e da lontano cominciò a scorgere il lumicino che a malapena rischiarava la stazione ma, dalla radura, purtroppo, stava salendo una fitta nebbia. Accelerò il passo, ma il viottolo che stava percorrendo non si vedeva più. Finì dentro un bosco e tra rovi, rami secchi e cespugli spinosi, aveva perso la strada. Poco più che adolescente, non aveva ancora diciott’anni, non riuscendo più ad orientarsi, fu assalito dallo sgomento e si girava solo intorno nel vano tentativo di trovare una via d’uscita. All’improvviso sentì il rumore di zoccoli di un cavallo che sfangava nel terreno umido del sottobosco. Vide di spalle un cavaliere che montava il suo animale e capì che, seguendolo, sarebbe uscito allo scoperto, fuori dal bosco. Questa immagine, ora evidente, ora offuscata dalla nebbia, procedeva con passo sostenuto ed era, pertanto, molto difficile seguirla. “Ehi, fermati, aspettami”. Chiedeva papà, ma il cavaliere procedeva ancora più veloce. Eppure, la sagoma di quell’uomo sconosciuto, seppure vista di spalle, gli sembrava molto familiare. Chi era, dove l’aveva vista prima? Uscì finalmente dal bosco, il cavaliere era scomparso e la nebbia andava diradandosi. Giunse alla stazione trafelato e sconvolto e, all’ingresso di questa, il Capitano del presidio che lo attendeva, gli consegnò un biglietto ferroviario e gli disse: “Devi tornare a casa, purtroppo è morto tuo padre”. Fece appena in tempo a salire su una tradotta militare in partenza per Bologna e da lì, proseguendo lungo la costiera adriatica sarebbe arrivato, dopo qualche giorno, a Borrello, ma non certamente in tempo per rivedere la salma del proprio genitore. In piedi, nel corridoio di un vagone, strapieno di militari, piangeva di dolore per la scomparsa di nonno Gaetano. Intanto, ripensava alla corsa che aveva dovuto fare per raggiungere la stazione, al bosco impenetrabile che aveva dovuto attraversare e, ma certo, quel cavaliere sconosciuto, dalla sagoma familiare era proprio lui, il suo papà appena morto che gli indicava la strada per la stazione. “Roba da non credere! Il nostro angelo custode, nei momenti più critici della vita, assume tutte le sembianze per starci vicino e proteggerci”, commentava.
Fra alcuni giorni ricorre il centesimo anniversario dell’inizio della Grande Guerra cessata nel 1918 con la Vittoria dell’Italia e delle altre Forze Alleate contro l’esercito Austro-Ungarico. Vittoria che qualcuno definì la “Vittoria Mutilata” perché nel trattato di Versailles, stipulato come accordo di pace tra le forze belligeranti, non si era tenuto conto delle giuste rivendicazioni territoriali dell’Italia. In un’accezione tristemente più estensiva, la “Vittoria Mutilata” si riferiva anche alle centinaia di migliaia di caduti, invalidi e feriti. Per tale ricorrenza sentiremo, attraverso gli organi di informazione, di celebrazioni solenni in cui la retorica e l’enfasi riempiranno i discorsi di circostanza. Qualche storico, poiché tutti i protagonisti della Grande Guerra sono passati a miglior vita, azzarderà qualche giudizio critico sulla condotta e sul comportamento strategico di alcuni grandi ufficiali. Vedremo vecchi filmati in cui appariranno anonimi soldati ammassati nelle trincee o lanciati, con furore, all’assalto alla baionetta. Sono essi, i nostri veri “Militi Gloriosi”, attori protagonisti ed artefici di una grande vittoria.
Spero che, nei cieli azzurri, dove volano i giusti, Zi’ Guglielmo abbia incontrato il giovane tenentino e che questi gli abbia chiesto scusa per essere stato insolente nei suoi confronti e che, nelle dure battaglie, si sia coperto anch’egli di gloria. Spero che, dall’alto, Zi’ Orlando abbia visto, nel profondo dell’inferno, il cecchino, assassino senza scrupoli, serial killer di giovani italiani e i generali traditori alle prese con Caron Dimonio. Spero che mio padre, incontrando nonno Gaetano, gli abbia chiesto se era lui il cavaliere sconosciuto ricevendone sicura conferma.
Io li voglio ricordare come in un vecchio film, con la colonna sonora intonata sul ritmo incalzante del tango argentino, bagnati, infangati, affamati, ammantati soltanto della spessa ed impenetrabile corazza dell’amor di patria.

Borrello, ottobre 2014


Personaggi del racconto per ordine di menzione:
Zi’ Isidoro - Isidoro Di Nunzio
Bruno - Leombruno Di Nunzio (fratello di Isidoro)
Peppe - Peppe Di Renzo
Rosario - Rosario Di Nunzio (figlio di Leombruno, nipote di Isidoro)
Zi’ Guglielmo - Guglielmo Beviglia (mio Zio)
Zi’ Orlando - Orlando Di Luca
Zi’ Vincenzo - Vincenzo Simonetti
Zi’ Filippo - Filippo D’Orfeo
Zi’ Peppino - Giuseppe Beviglia (mio Zio)
Nonna Cristina - Cristina Simonetti in Beviglia (Nonna materna)
Nonno Giovanni - Giovanni Beviglia (Nonno materno)
Mia Madre - Elena Beviglia
Mio Fratello - Gaetano D’Auro (Nino)
Mio Padre - Italo Antonio D’Auro
Mio Nonno - Gaetano D’Auro


1 Attuale Via Dante


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