Arsenio Lupin
un racconto di
Cesare Palmieri
(tratto dalla raccolta "Racconti Sangritani")


Nella cucina di mastr Duminech, a piano terra, era in corso il pasto serale dei braccianti.
Avevano zappato la vigna tutto il giorno ed ora si trovavano riuniti intorno al tavolo rotondo, su cui campeggiava la grande spasa1 di sagne e fagioli.
Vi attingevano veloci cucchiaiate e se le portavano al limitare della bocca da dove, con un’energica aspirazione, facevano scomparire le sagne nello stomaco, senza bisogno di masticarle. Il ritmo si faceva via via più frenetico e la cucina risuonava di un surpa-surpa2 ritmato e sempre più incalzante.
Per i braccianti, il pasto serale era il più gradito dei tre normalmente consumati nella giornata, perché si mangiava comodi, non più sdraiati a terra su di un fianco e, soprattutto, non c’era il pensiero di dover riprendere il lavoro faticoso di lì a poco.
Le sagne di za Giuvìn erano famose. Come sempre, la padrona di casa le aveva preparate a regola d’arte, cominciando dalla scelta della farina, impastata con acqua e ridotta in larghe sfoglie (pèttele) a colpi di mattarello. Anche il taglio aveva la sua importanza: né troppo corte e strette, perché non scadessero nella dimensione di tagliarelli; né troppo lunghe e larghe perché non cascassero fuori dal cucchiaio durante il tragitto.

Aveva curato meticolosamente la cottura dei fagioli, ammollati precedentemente e messi nella panciuta pignata3 di terracotta, insieme ad un pezzo di cotica, tagliata a listarelle.
Situata a lato della piastra del camino ed attizzata con brace e cenere, aveva gorgogliato placidamente con sbuffi di vapore: sembrava una locomotiva.
Ogni tanto l’aveva alimentata con un po’ d’acqua bollente, per ristabilire la quantità di quella evaporata ed, a mezza cottura, aggiunto gli odori del suo orto.
Non lesinava mai col condimento, za Giuvin, perché sapeva che quello era il segreto di una buona riuscita in cucina. Aveva fatto un generoso battuto di lardo, e messo il tutto in una padella di coccio, insieme alle salsicce, un cucchiaio di conserva, un paio di diavrìll.4 un pezzo di cipolla ed un gambo di prezzemolo.
Cotte le sagne, aveva sganciato il grande paiolo dalla catena pendente dalla cappa del camino, l’aveva posato per terra ed aggiunto un po’ d’acqua fredda, per schiarire la vrota5 e fermare la cottura; le aveva poi travasate nello spasone, cui aveva aggiunto il contenuto della pignata e il sugo della tiella6
Jseppe Curetunn, Mingh d’Traturiell, Arsenij Lupin, Flicitt Cocciasecch, ‘Ndonie Flascòn e Vincenz Virdesecca avevano seguito con attenzione quest’ultima fase di preparazione, deglutendo e pregustando ciò che li attendeva. Non appena la spasa era stata messa al centro del tavolo avevano iniziato il pasto, senza frapporre indugi.
Durante il surpa-surpa la luce si era spenta un paio di volte, ma non c’era stata interruzione del pasto: tutto veniva eseguito a memoria.
Succedeva spesso che si verificasse l’inconveniente, con quella linea elettrica fatta a rattoppi e quei fili poco tesi che entravano in corto circuito ad ogni soffiar di vento.
Quella sera non fece eccezione, ma la cosa, come sempre, passò inosservata.

Quando videro il gallo sul fondo della spasa7, con un colpo di cucchiaio eliminarono la striscia di sagne, inevitabilmente formatasi tra quella e la propria postazione e ne fecero un ultimo boccone.
Una passata del tovagliolo sulla faccia e sugli occhi per eliminare gli schizzi di sugo ed asciugare le lacrime prodotte dal peperoncino.
I visi erano rossi, quasi congestionati, e le pance, gonfie di sagne e di aria, per la surpata aerofaga, premevano per espellere il rutto che urgeva naturale; ma non sarebbe stata buona creanza farlo in casa altrui, e quelle brave persone, all’arrivo del prepotente riflusso, gonfiavano le gote e dilatavano le narici per ammortizzare lo sfiato, assumendo le sembianze dei soffiatori di vetro.
Arrivò, infine, la fièsca8 di vino e tutti ne bevvero, passandosela a turno. Quando giunse fra le sue mani, Lupin, ritenendosi inosservato, infilò abilmente, nel buco centrale, la pagliuca9 che solitamente portava penzolante da un lato della bocca. Il vino uscì copioso e, da quella cascata, si dissetò a garganella.
Un’aria beata e soddisfatta era dipinta sui loro volti: quel momento li ricompensava della dura fatica del giorno trascorso.
Zà Giuvin mise in tavola un piatto con sei cannelli di salsiccia, tagliati di sbieco: un espediente che faceva sembrare i cannelli più lunghi

-Pfaff- si spense la luce.

Si udì una bestemmia soffocata.

Si riaccese la luce.

Jseppe Curetunn aveva in mano la forchetta con due rebbi storti, ‘Ndonie Flascòn si teneva la sua mano sotto il tavolo con un’espressione dolorosa: gli altri sembravano indifferenti. Nessuno si mosse.
- Iamm- fece za Giuvin - ch c’iaspittèt: nin vi piece cchiù la salgicce?-10
In cinque si servirono e Mingh d’ Traturiell rimase con la forchetta a mezz’aria: mancava il suo cannello.
- Zà Giuvìn - fece Mingh – avèt sbaijète a cundà -11
-Ie nen so sbaijèt niend!-12 fece zà Giuvina, risentita.
Mastr Duminech, che non partecipava alla cena (avrebbe mangiato dopo), ma che se n’era stato a guardare tutto il tempo, appoggiato alla spalletta del camino, fece cenno alla moglie di lasciar perdere.
Zà Giuvìn lo guardò risentita, ma inghiottì il rospo: ubbidire al marito era normale; meno lo era passare per scema davanti a tutti.
La donna era analfabeta, (allora lo erano moltissime donne anziane); ma suppliva a quell’handicap con una memoria di ferro.
Aveva un’organizzazione mentale, che le permetteva di disporre tutti gli oggetti in una dimensione spazio- temporale precisa e puntuale, e non le sfuggiva mai nulla. Figurarsi se si era sbagliata a contare! Infatti non sapeva contare, ma aveva fatto, dentro di sé, l’appello dei commensali e, come li nominava, aveva messo nel piatto il corrispettivo cannello: “quist13 è Curetunn, quist Traturiell, quist Lupin, quist Cocciasecch, quist Flascòn e quist Virdesecca": non avrebbe potuto sbagliare! Ciascuno di quei cannelli che si trovava nel piatto aveva, per lei, la faccia di un commensale.
“Ecch, quadùn m’ha fatt féssa!"14 concluse dentro di se, contrariata.
Mastr Duminich la guardò di nuovo, significativamente.
Lei si rassegnò. Aprì l’anta inferiore dello stipo, dietro i commensali e tolse il coperchio di legno da una grande ancella,15 piena di cannelli di salsiccia, conservati nello strutto. Ne prese uno e lo mise nel piatto di portata

- T’ lia magnì crut -16 disse rivolta a Mingh d’ Traturiell.
-Nin fa niend, zà Giuvì17! Rispose Mingh.-
Sembrava che le cose si fossero rimesse a posto, ma non per qualcuno dei presenti, che, alla vista dell’ ancella piena di quel ben di Dio, era rimasto di stucco, quasi abbacinato. Dentro quello stipo c’era uno scrigno che avrebbe cambiata la sua dieta di pane e cipolla: ci avrebbe potuto tirare avanti per quasi un anno!
Arsenio, (chiamato Lupin dai suoi compaesani, per non confonderlo con suo padre Lupòn), elaborò, seduta stante, un piano per venirne in possesso: architettò un "esproprio proletario”.
La fiesca rifece il suo ultimo giro ed i commensali, espletati i convenevoli di rito, si alzarono tutti per tornarsene a casa.
Arsenio Lupin, fingendo di volersi dissetare, si avvicinò al tinàro18 che stava nel vano della finestra, prese fra le mani il maniero19 e lo tuffò nella conca di rame. Se lo portò alle labbra, mimando una bevuta e, nel riappenderlo, lo sbatté rumorosamente sulla conca. In perfetto sincronismo, con l’altra mano, tirò giù la spondapeta20 della finestra che dava sulla strada. Tutto perfetto.
-Buonanotte.-
-Buonanotte.-
Quando tutti se ne furono andati, za Giuvin sparecchiò e riapparecchiò la tavola; questa volta per sé, il marito ed il figlio Niculin, che si presentò puntuale, come sempre, a questo appuntamento: quando si trattava di mangiare era preciso come un orologio svizzero.
- Secondo te, ch z’à frecàt ‘l canniel?21- disse, rivolta al marito.
- Ch è stat è stat, nen ce penzà cchiù-
- tu fi sembr ‘l bbuon, perciò tutt z’ nannapprufitt22- rispose za Giuvin. Poi proseguì, quasi parlando a se stessa:
-Livém23 Curetunn che c’ha provato con la forchetta, ma ha infilzato la mano di Flascòn: si sono annullati a vicenda; rimangono in quattro; leviamoci Traturiell che è rimasto a secco ed aveva la bocca vuota; su Cocciasecch ed il povero Virdesecca ci metto la mano sul fuoco; resta Lupin, figlio di Lupòn: ognun articch a li si.-24 concluse convinta.
- Zitt, Giuvì: prim d’ parlà, za da ess sicur.
-Siengh sicur com è vèr Crist!25
I due uomini iniziarono la cena, ma zà Giuvin era troppo stanca e nervosa per avere appetito. In quel giorno aveva preparato tre pasti: due li aveva portati fino alla vigna, in un grande canestro piazzato sulla testa: sentiva ancora quel peso che le aveva insaccata la testa fra le spalle; ma ciò che più l’angustiava era quella sparizione, che ella giudicava come un affronto personale. Intanto Niculin, che aveva spazzolata velocemente la sua cena, si diresse verso la porta per uscire.
- L’albergo è sempre aperto!- fece mastr Duminech, - non ti preoccupare per il ritorno!-
Niculin neanche lo sentì, perché si trovava già in strada, abbastanza lontano.
- Fijt è n’ dulor d’ cocce!26 -
Zà Giuvin fece finta di non udire.
Sempre la solita tiritera, e lei non aveva voglia di litigare. Avrebbe voluto fargli notare che quello era il loro figlio e tutti e due ne erano responsabili, ma, stanca e senza cena, si mise a rigovernare.
Lavò le stoviglie con la vrota27 ancora calda, aiutandosi con uno straccetto bagnato, che aveva intinto nella cenere del fuoco.
Coprì la brace del camino con due palelle di cenere e…
-Jamm, Dumì, ca ‘n m’attiengh cchiù allambièt28-
Fecero lentamente la scala che li portò nella loro camera, al piano di sopra.

Nel suo tugurio, Arsenio Lupin era rimasto sveglio come un grillo, nonostante la stanchezza accumulata per la giornata faticosa. Approfittò del tempo di attesa per eseguire gli ultimi preparativi: si fasciò i piedi con due stracci, per non far rumore, s’infilò un sacco vuoto sotto il ditillo (ascella), si calò la coppola fino ad inglobare le orecchie e, dopo che l’orologio comunale ebbe scandita la mezzanotte, uscì sulla strada e procedette con passi furtivi, guardandosi circospetto, a destra e sinistra.
Ebbe cura di portarsi al centro della strada, per evitare che qualche braccio, sportosi improvvisamente da una finestra, dopo una veloce rotazione di cent’ottanta gradi, gli rovesciasse addosso il contenuto del pisciaturo29. Gli era successo più di una volta, e per giorni e giorni si era portata addosso quella puzza, nonostante il continuo non lavarsi.
Giunse davanti la casa di mastr Duminech e si fermò sotto la finestra del pian terreno. Quel bel sedile di doghe, fatto come un’onda del mare e posto proprio sotto la finestra della cucina, era un invito a nozze: una scala invitante.
Primo passo: sul cavo dell’onda; secondo passo: sulla cresta dell’onda; terzo passo: sulla soglia della finestra.
Qui Lupin spinse in dentro le due ante della finestra e buttò il sacco all’interno della cucina.
Quarto passo: un piede nella conca dell’acqua.
- Acc….- si mise una mano davanti alla bocca.
Liberò il piede grondante acqua; un breve saltino ed eccolo nel centro del caveau. Gli era andata bene: se la conca si fosse rovesciata, addio colpo del secolo!
Una volta dentro, sentì le voci dei padroni di casa, che provenivano dalla camera da letto.
“Non si sono ancora addormentati quei due?” pensò contrariato.
Che fare? Agire subito, col rischio di farsi sentire da sopra? No, gli conveniva attendere che si addormentassero.
Si avvicinò al camino, che aveva la brace ancora calda, entrò nella furnella30e si sedette sulla panchetta che si trovava all’interno.
Si stava a meraviglia! Un bel calduccio, un sedile comodo: cosa avrebbe potuto pretendere di meglio?
Arsenio allargò le gambe, una di qua, l’altra al di là del capo-fuoco e si spaparanzò soddisfatto.
Dal di sopra gli giungevano le voci, ora ancora più nitide, perché gli provenivano attraverso la cappa del camino.
-T’ho detto di finirla; sempre con quel povero figlio!- diceva za Giuvin – Non capisci che è ancora giovane? Più avanti metterà giudizio!-
- Se non l’ha messo fino ad ora, cosa dobbiamo aspettare?- ribadiva mastr Duminech.- Ca diventi come fratt31? E ’pruoprij vèr cà ognun articch a lì si.-
- Che vuoi dire?-
- Cartucce e femminucce32 -
- Eh, fratt è ‘n sand!.... Oh oh oh33!-
Dopo un po’ Arsenio cominciò a sentire le voci sempre più lontane. Il tono si era fatto più conciliante; la voce di mastr Duminech più suadente, quasi carezzevole.
-Statt sòt- diceva za Giuvin- stiengh stracca e n’n ci la facce mangh a halà34-
Un attimo dopo, Arsenio non udì più la voce di mastr Duminech, perché gli si erano abbassate le palpebre.
Sarà stato il tepore del fuoco, la stanchezza, la voce suadente di mastr Duminech, sempre più carezzevole: sta di fatto che si addormentò profondamente.
Ogni volta che prendeva sonno, Arsenio Lupin cominciava a sognare. Era la sua fortuna, perché il sogno gli era sempre amico e lo risarciva delle privazioni che subiva continuamente a causa della sua indigenza. Nel sogno realizzava tutti i sui desideri, le sue pulsioni trovavano appagamento e passava le notti in paradiso.
Disse il Profeta:
“If you could hear the whispering of the dream you would hear no other sound.
Se poteste sentire il bisbiglio del sogno non potreste sentire altro suono”.
Arsenio non sentì neanche il rumoroso rientro di Niculin che aveva aperto il portone e si era fiondato su per le scale, senza neanche accendere la luce.


Ora Arsenio era entrato nella grande piazza del paese, addobbata a festa, passando sotto uno striscione di benvenuto:

“Welcome, Arsenio!”

Tutti i compaesani lo acclamavano, battendo la mani:
“Viva Arsenio!”, gli dicevano e col braccio lo invitavano ad accomodarsi, a servirsi su quelle lunghe tavolate che avevano imbandite per lui. Una sagra dei cibi locali, un trionfo di colori e di sapori, che le mani sapienti delle donne avevano approntato per lui - Vieni qui, Arsenio, - lo invitava il panettiere – ho preparato per te ogni tipo di pane e di pizza! - Sul suo bancone si trovavano ruote di pizze di mais, d’accellana35, con cicri , col pomodoro. Pane alla ‘n drimappa36, panelli di pane bianco, caldi e profumati.
Più avanti, spase di sagne, di spaghetti, di maccheroni alla chiatarra, di ciuffulùni37 al ragù, ravioli, cavaddetere38, sagne a pezze e a laganelle, insomma tutta la serie dei primi locali.
Arsenio si fermava, assaggiava, sceglieva, si abbuffava.
Sulla seconda tavolata una serie di secondi. Dalle cuccette39 ai torcinelli40, alle sfilze di nnuoije,41cotti in caldaie di rame, vintricine, salsicce di carne e di fegato, salami, prosciutti.
- Mangia, Lupin!- dicevano i macellai, che avevano approntato tutto quel ben di Dio; ed egli non si lasciava pregare. La sua voracità non aveva limiti: mangiava tutto.
Si avvicinò ai tavoli della frutta e le donne gli offrivano canestri di primizie. Anche le nobildonne erano uscite dai loro palazzotti e si prodigavano per servirlo. La baronessa del feudo di Gravara y Pilo y Fruscete, aveva fatto arrivare le pesche da Peràno e, con una di queste in mano lo implorava: - assaggia, Lupin, la mia precoca, ti prego -!
Donna Lucrezia delle Cavezze y delle prete Taratuffe, insieme alle sue numerose figlie lo invitavano ad assaggiare i loro fichi ottani: - Hanno pure la goccia - dicevano quelle, tutte infervorate.
Il bar dello sport gli offriva caraffe di caffè, di cioccolata con la panna, tranci di pizze-dolci, scrippelle, pizzelle farcite, fiadoncini alla ricotta: tutta la produzione della pasticceria indigena.
Arsenio non respingeva niente.
Era così arrivato allo stand della distilleria locale, dove sorseggiò tutti i liquori esposti: punch, alchermes, elisir, mefistofele, anice maraschino, caffè sportman, tre stelle, china-china, amari.


Il gallo cantò e za Giuvìn, sgusciata fuori dal letto, scese con cautela la ripida scala che la portò in cucina.
Il primo atto della giornata consisteva nell’accendere il fuoco.
Si avvicinò al camino ma si ritrasse spaventata: due gambe uscivano fuori dalla furnella!
Si precipitò verso la camera, risalendo gli scalini, due alla volta.
Scrollò il marito, che ancora dormiva e, al secondo strattone…
- Chi è, chi è? - fece mastr Dumineche, sedendosi sul letto, ancora frastornato.
-Ssssttt, Ssssttt- fece la moglie portandosi l’indice davanti alle labbra. - dalla ciummnèr hann esce du piet! -
- Ma t’sì scimunit? -
- Zitt sennò z-n- scapp! - e poi – sbright, vi a vedé!42-
Mastr Duminech saltò dal letto e, ancora in camicione da notte e papalina, scese in cucina, seguìto, da presso, dalla moglie Giuvìn.
Effettivamente, dal camino fuoriuscivano due gambe, con relativi piedi fasciati di stracci: si avvicinò per conoscerne il proprietario.
- Quist è Arsenio Lupin ! – disse, dopo un’ispezione all’interno del camino.
Dette un’occhiata alla finestra aperta ed alla sacchetta sul pavimento: finalmente comprese.
Prese in mano ‘l zufflatùr43 e, con esso, picchiettò sotto i piedi del dormiente. Niente! Arsenio Lupin, con la faccia beata, stava sorseggiando il suo ultimo elisir.

Disse il Profeta:
“And the clay that fills your ears shall be pierced by those fingers that kneaded it.
E la creta che chiude le vostre orecchie sarà forata dalle dita che l’hanno impastata.”
Disse mastr Duminech:
- Arsè, s’nd svij subbt, t’ facce sunà le recchie ‘ngh quist zufflatùr44 -
La voce imperiosa di mastr Duminech e la minaccia di una zufflaturata in testa avevano evidentemente forato la creta che impastava le orecchie di Arsenio, che fece un salto, tirandosi in piedi.
Una spolverata di filina 45 gli cadde sulla testa.
- Ch è, ch è, addò mi trov'? -
- A la casa mé -
- Picchè?-
- E ’chill ch vuoij sapè46 -
Arsenio tornò completamente in sé e constatò che quei due, (l’uno armato di zufflatur, l’altra che stringeva fra le mani le molle del camino) gli ostruivano completamente il passaggio. Non aveva più scampo: si sentì braccato.
Si rimise a sedere sulla panchetta, con la faccia rassegnata.
La domanda di mastr Duminech attendeva una risposta, ma Lupin decise di avvalersi del quinto emendamento: “facoltà di non rispondere”.
- Allòr ?- insistette mastr Duminech.
Quinto emendamento.
- Ch’ ciavieva fa ‘ngh sta sacchett? -
Quinto emendamento.
Mastr Duminech guardò la moglie.
- Quist nen parl -
- Daije na vattùt -
- Ma ‘n zarrubbat niend47 -
Rispose mastr Duminech, assolutamente incapace di bastonare chicchessia: non lo chiamavano ‘lu bbuone48 ? Za Giuvin intuì che il marito stava cedendo al suo solito buon cuore e che la cosa sarebbe finita a tarallucci e vino. Cercò di ricavare almeno il minimo dalla situazione:
- T’ pozz pure perdunà, ma vuoij sapé ch’ za magniet ‘l canniell, ier sér49-. E così dicendo, afferrò il naso di Arsenio con le molle del camino, cominciando a scuoterlo da una parte all’altra e costringendolo ad un’apnea indesiderata.
Arsenio Lupin spalancò la bocca per respirare.
Decise che avrebbe dovuto evitare assolutamente un’ammissione del genere. Se si fosse saputo in giro che Arsenio Lupin si era fatto prendere in fallo per un piccolo pezzo di salsiccia, sarebbe sprofondato nel ridicolo e la sua reputazione irrimediabilmente compromessa. Ebbe un sussulto di orgoglio e rinunziò al quinto emendamento.
- Arsenio Lupin lavora all’ingrosso, non è un pidocchio! - disse.
- Ah, allora volevi prenderti la vintricina! - disse za Giuvìn.
- Macché vintricina. Volevo portare via l’ancella! - fece Lupin pieno d’orgoglio.
- Brutto screanzato! - fece za Giuvin inviperita – se la cosa ti fosse riuscita, cosa avrei potuto darvi, per companatico, le prossime volte? Cosa avreste mangiato in occasione della mietitura, della trebbiatura, della semina, della vendemmia, del taglio della legna? Non sai che quelle salsicce non le tocchiamo neanche noi?
Mò z’arrubbém tra puover? Nen te n’abbruhugn50?-
Arsenio si vergognò solo per essersi addormentato quando non avrebbe dovuto.
- Arsè, mò arvatten a la casa te. Se nen fuss acchscì priest avassama putùt fa culazion ‘nziembr51 - disse conciliante, quasi scusandosi, mastr Duminich, ‘l bbuon.
Arsenio non se lo fece dire due volte: raccolse la sacchetta, l’arrotolò e se la mise sotto il ditillo.
Si diresse verso la porta d’uscita.

Za Giuvina gli sbarrò la strada:
- Ija scì d’addò si‘ndrat52- e gli indicò la finestra.
Arsenio Lupin, con un’agile salto si portò sul tinaro.
Primo passo: sulla soglia della finestra; secondo passo: sulla cresta dell’onda; terzo passo: sul cavo dell’ onda; quarto passo: verso un’effimera libertà.
Si incamminò mestamente verso casa, ma questa volta non ebbe l’accortezza dell’andata: ora camminava rasente i muri delle case.
“Che nottata di merda!” pensò Lupin.
E puntualmente quella gli arrivò addosso, dalla finestra di zà Lisetta, che, senza neanche guardare giù, aveva vuotato il suo pisciaturo.
- Ma ch’ ccazz za magnièt sta vecchia p’ puzzù acchsce’ !? 53-
Fu il suo laconico commento.


n.d.a. : la traduzione delle parole dialettali, riportata a pié pagina è ridotta all’essenziale, per una veloce comprensione.
Chi volesse approfondire, con maggior ricchezza di particolari, il significato e gli etimi dei vocaboli, si consiglia la consultazione dell’ottimo dizionario di G. D’Auro “Raccolta di voci del dialetto di Borrello”.

Infine, un ringraziamento all’amico Franco Tiberio, dal quale ho appreso l’episodio della ”mano inforchettata”, inserito nel racconto.




1 Grossa zuppiera di ceramica, decorata con la figura del gallo sul fondo.
2 Termine onomatopeico che riproduce il suono del cibo acquoso aspirato
3 Pignatta
4 peperoncini piccanti
5 acqua di cottura
6 tegame di terracotta
7 il gallo era il logo delle ceramiche di Palena
8 fiaschettadi terracotta, con piccolo foro centrale,da cui fuoriusciva il vino a singhiozzo .
9 un corto stelo di grano.
10 Avanti, cos’aspettate, non vi piacciono più le salsicce?
11 Avete sbagliato a contare.
12 Io non ho sbagliato niente
13 questo
14 Ecco, qualcuno miha fregato.
15 Grande anfora di coccio usata per conservare le salsicce o le uova sotto calce
16 Devi mangiarlo crudo
17 Non fa nulla
18 Luogo dove si metteva la conca di rame, piena d’acqua.
19 Grosso mestolo di rame , con lungo manico, usato per attingere acqua dalla conca
20 saliscendi
21 Secondo te, chi ha rubato la salsiccia? –chi è stato è stato, non pensarci più
22 tu fai sempre il buono e tutti se ne approfittano
23 scartiamo
24 ciascuno somiglia ai propri ascendenti ( tale padre, tale figlio)
25 Prima di parlare bisogna essere sicuri di ciò che si dice -sono sicura, come è vero (che è esistito) Cristo!
26 Tuofiglio è un dolore di testa, una continua preoccupazione.
27 L’acqua in cui erano bollite le sagne
28 Andiamo a letto, perché non mi reggo più in piedi
29 Vaso da notte.
30 Incavo all’interno del camino in cui c’era una panchetta per sedersi
31 Che diventi come tuo fratello?E’ proprio vero che ognuno somiglia a qualche parente
32 Carte e donne.
33 Tuo fratello è un santo… oh oh oh
34 Stai fermo, sono stanca e non ce la faccio neanche a sbadigliare
35 Farina bianca e di mais
36 Farina bianca e cruschello
37 rigatoni
38 Gnocchi scavati con le dita
39 Testine d’agnello, spaccate e cotte al forno
40 Involtini di fegato tagliato, condito, avvolto nel peritoneo del’ovino ed avvolto con le sue budella.
41 Salame scadente, fatto con cotiche sommariamente rase, pezzi di orecchie, il tutto insaccato nell’intestino crasso del maiale.
42 Dal camino escono due piedi- Ma sei diventata scema?- Zitto, altrimenti scappa. Sbrigati, vieni a vedere!-
43 Un lungo tubo di ferro. Per soffiarci dentro.. “il soffietto”
44 Arsenio, se non ti svegli subito, ti faccio sentire questo soffietto in testa!
45 Il nero del camino
46 Chi è, chi è, dove mi trovo?- -a casa mia- perché?- è ciò che voglio sapere io!
47 Traduzione del dialogo: Allora, cosa volevi fare con questo sacco?-questo non parla! - bastonalo- - ma no ha rubato niente!-
48 Il buono
49 Ti posso pure perdonare, ma devi dirmi chi ha rubato il pezzo di salsiccia, ieri sera.
50 Ora ci rubiamo tra poveri? Non ti vergogni?
51 Ora tornatene a casa tua; se non fosse così presto, avremmo potuto fare colazione insieme.
52 Devi uscire da dove sei entrato.
53 Ma cosa avrà mangiato questa vecchia per puzzare così!?


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