L'ingegner Juliani descrisse queste delimitazioni uniformemente al possesso che Pesco e Sant'Angelo avevano ottenuto dal Tribunale dell'Udienza di Chieti (Corte di Appello) precedente Decreto della Regia Camera. Da tempo, infatti, già dalla seconda metà del 1600, era sorta una feroce lite per quei confini. (1)
Quando ne fece ricognizione l'ing. Juliani si contrapponevano nella causa l'Università di Piesco e Sant'Angelo da una parte e quella di Borrello dall'altra.
Nei decenni precedenti, invece, il nostro Comune (Università) aveva avuto come coattori anche la Baronessa Faustina Melucci e le due Baronesse Ciampelli. Fu questa una delle più lunghe cause sostenute per il riconoscimento dei nostri confini.
La lite era sorta, come già detto, nella seconda metà del 1600. L'oggetto del contendere riguardava i confini a Sud-Ovest nei territori chiamati: Croci; Lago delle Cornacchie; Lama e Canala tra il fiume Sangro, i Valloni del Vallacchiere (o Maio) e del Rubeo (o Priore); Montalto del Castellano; Selva Piana; Orticelli; Cesa; Cascieri e Vallazzuna.
Borrello riteneva i confini molto più profondi ed estesi. Sosteneva che dovessero incominciare dal Vallone Priore o Rubeo (oggi Priuolo) verso ponente, quale sbocca nel fiume Sangro, risalire seguendo il Vallone stesso, fino a Montalto detto Castellano (dove incominciava la tenuta del Feudo di San Giovanni in Verde), continuare per macchie frattose fino a giungere sulla cima della Selva Piana (parte della quale rimaneva in territorio di Pesco proprio nel feudo di San Giovanni in Verde) e proseguire fino alla Pietratura di Pietro Azzone (da cui poi il nome Vallazzuna). Quindi, al Termine dei tre confini tra le terre di Pesco, quelle del Feudo di Pilo della Principessa della Villa e le altre del Comune di Borrello. Tanto cercarono di dimostrare gli esperti del nostro Comune.
Era allora Feudatario di Pescopennataro e Sant'Angelo del Pesco il Duca della Celenza. I suoi vassalli avevano, in un primo tempo, riconosciuto valide le ragioni dei Borrellesi. Questi, d'altra parte, si erano appellati allo stesso Duca, affinché‚ cessassero le violenze e gli incendi perpetrati dai Pescolani nei territori di confine.
Gli abitanti di Pescopennataro avevano, infatti, anticipato di molti decenni gli scenari Westerns ai quali ci ha abituato la cinematografia americana. I furti di bestiame e gli incendi a danno dei Borrellesi furono numerosi e costanti per molto tempo.
Primi a farne le spese furono i fratelli de Lisio. A Notar Giulio de Lisio incendiarono lo pagliaro e rubarono le mandre di vacche. . .
Già nel 1689 e nel 1690 c'erano stati due decreti favorevoli ai cittadini di Borrello. Ciò, tuttavia, non impedì nel 1691 che quelli di Pesco non commettessero nuove violenze et incendi e per gran pregio dell'ingiusti attentati non affiggessero cartelli di minaccia. Non solo, ma macchinarono in maniera tale che per mezzo di un certo Ignazio di Vivo, scrivano della Dogana, carcerarono Giulio de Lisio, Carlo Simonetta e altri Borrellesi, i quali nel mese di agosto furono portati nelle carceri di Foggia. I diritti umani, in quell'occasione, furono l'ultima cosa presa in considerazione. Tanto è che il povero Simonetta morì per i strazi durante il viaggio.
Poi, però, nel 1692, prese le opportune informazioni dai Ministri Supremi, Signori Consiglieri della Regia Camera della Sommaria Messones e D'Andrea, allora Avvocato fiscale, e, dopo altrettanto opportuno accesso da parte di quest'ultimo, la Regia Camera ordinò la scarcerazione dei cittadini di Borrello e la carcerazione, invece, dello Scrivano di Vivo. Furono promulgati anche altri decreti favorevoli ai Borrellesi, decreti che, riconoscendo i confini di quelle contrade, ordinavano di non arrecare ulteriori molestie a quei cittadini (terminos designatos non rnolestetur). Ma gli ordini non venivano rispettati. Anzi un Pescolano che (con altri compaesani, secondo la Baronessa e l'Università di Borrello) aveva falsificato più fogli del processo, con sfacciata calunnia, temeraria falsità e pecoraggine chiese un castigo esemplare contro un Borrellese.
Il Procuratore di Pescopennataro, da parte sua, non smise di calunniare nelle scritture e allegazioni Notar Giulio de Lisio e dar continuo motivo ai suoi paesani a fare nuove violenze e incendi ai cittadini del Borrello. In seguito fece introdurre nella causa altri motivi e sofismi per impedire l'esecuzione dei decreti, chiedendo anche un nuovo accesso. Gli animi, quindi, si esacerbavano sempre di più. I Borrellesi, ovviamente, non è che fossero degli stinchi di santo e, nella reazione, qualcuno di essi esagerò al punto di fare ricorso all'arma bianca. Il grave episodio accadde verso la fine di ottobre del 1692. Ne fu occasione la ricognizione dei confini che la Regia Camera aveva affidato al già menzionato Avvocato fiscale d'Andrea, col compito di riconoscere e fare chiarezza sui confini. Erano stati convocati come esperti e persone fidate (quasi tutti fabbricatori, scarapellini, uomini d'onore) sia alcuni cittadini dei Comuni interessati che dei paesi vicini (Castel del Giudice, Pizzoferrato , Roio , ecc.). Sostanzialmente fu formata una specie di Commissione. Per Pescopennataro e Sant'Angelo furono chiamati a farne parte: Mastro Francesco di Vincenzo; Mastro Evangelista Calvitto; Mastro Cesare Calvitto; Mastro Giovanni Calvitto e qualche altro, (tutti fabbricatori, e scarapellini). Per Civita Burrelli: il dottor Giulio de Lisio; Mastro Falco Ranallo (carpentiero); Mastro Giovanni Ferraro (fabbricatore); il dottor fisico Virgilio de Lisio e un pedone (come guida, evidentemente). Erano (pedone a parte, è ovvio) tutti a cavallo. Con loro: due soldati (del Consigliere e Avvocato fiscale) inviati sul posto, affinchè non vi fusse nata rissa fra di noi.
Era l'alba quando i ricognitori, avvolti nelle loro cappe (mantelli) si avviarono verso i confini contesi nella zona del Monte Alto.
Appena giunti, fermati i cavalli, si accorsero che al limite di una seminata di grano ai piedi del monte, era già presente una moltitudine di Borrellesi tumultuanti.
Accadde l'immaginabile. Scesero tutti da cavallo. I soldati ebbero l'ordine di far arretrare la folla. Alcuni membri della Commissione si fecero avanti per chiedere spiegazioni e calmare i riottosi. La turba, invece, continuava, minacciosa, a... consigliare, ad alta voce, a Mastro Francesco di Vincenzo di Pescopennataro di non azzardarsi a fare la ricognizione delle croci di confine. Mastro Francesco, infatti, doveva localizzare a questo proposito una chianca croce segnata. Impaurito, rassicurò gli scalmanati che non l'avrebbe fatto. I soldati e gli altri, invece, gli urlavano di farlo. Mastro Francesco, sempre più impaurito, si rivolse ai due soldati e ai compaesani urlando a sua volta: Andateci voi quello che farete voi, sarà benfatto! E mentre Mastro Giovanni Ferraro di Borrello si offriva di accompagnarlo, prudentemente decise di tornare indietro. Fu allora che si imbatté in due fratelli Borrellesi, D.Marco (ferraio) e Leonardo (barbiero) che erano insieme con Mastro Falco Ranallo (carpentiero), e, altra gente.
Marco incominciò a ingiuriarlo pesantemente dandogli del briccone e traditore, aggiungendo: non ti verranno tutto tondo le palle (non ti verranno tutte tonde le palle, cioè, in sostanza: non tutto riuscirà secondo i tuoi desideri). A quel punto, l'altro fratello, Lonardo, si scagliò sul pescolano e da barbiero esperto, evidentemente, anche … in tagli, lo accoltellò con l'indubbio intento di ammazzarlo. Infatti, senza timore di Dio né della giustizia con un coltello puntuto e tagliente infierì tre volte su Mastro Francesco facendogli apertura di carne et effusione di sangue. L'aveva colpito sulla parte destra del petto, proprio sopra la zinna (mammella), sulla spalla destra e sul braccio sinistro. Lonardo, in preda ormai a raptus omicida, cercò anche di colpirlo con una coltellata alla testa per - diremmo oggi in dialetto - stutuorle ndutte (spegnerlo del tutto). Ma per fortuna e miracolosamente, non ci riuscì; e ciò proprio nel momento in cui Mastro Francesco stava invocando la beatissima Vergine del Carmine che sempre sia lodata.
Nel timore di essere inseguita, la vittima, abbandonato il cavallo, si diede penosamente a correre, tra i faggi e gli abeti, verso Pescopennataro. Vi giunse comprensibilmente stremato tamponandosi alla meglio le ferite... dopo che l'eco delle sue grida di aiuto e di dolore alta si era ripetuta per tutta la Selva Piana.
Questa fu la deposizione del ferito.
L'episodio mise in moto l'ovvio meccanismo di testimonianze, sopraluoghi, accertamenti, e controlli vari di alcuni cerusici (due barbieri: Domenico Gentile della Terra di Agnone e Nicola Pellegrino di Roio ma abitante a Villa Santa Maria) ritenuti pratici nella chirurgia.
Era sopraggiunto novembre e a Pescopennataro era sopraggiunto anche il freddo intenso. Tant'è che Mastro Vincenzo riceveva i ... cerusici controllori disteso in un letto vicino al foco (in cucina, insomma, vicino al focolare).
Qualcuno disse che aveva esagerato troppo nel fare la vittima. Per la verità, qualche dubbio è rimasto anche a me dopo aver letto le carte relative ad altre testimonianze. Da un lato, infatti, gli stessi cerusici testimoniarono che le ferite del di Vincenzo erano poco penetranti e senza pericolo, (salvo li giorni critici in causa scíentie). Dall'altro, l'Università di Borrello, nei suoi numerosi ricorsi, faceva rilevare che Mastro Francesco di Vincenzo aveva fatto finta di essere stato ferito a morte e che si trattasse soltanto di un'impostura messa in atto per sfuggire le pene di tanti loro delitti (violencias j maltrattamientos) - si legge in un documento scritto in spagnolo - che ha patendo sus cittadinos (di Borrello) de la poderosa mano del Duque di Celenza j sus vassallos del Pesco j S. Angelo).
Era ormai l'anno 1693 e la risonanza di quei fattacci e degli altri scontri ... alla frontiera continuavano a tener deste le liti e la relativa causa.
I testimoni invocati dalle parti e convocati dalle autorità furono numerosi. Nel luglio del 1693 ne erano stati chiamati a diecine: da Pizzoferrato, Castel del Giudice, Pesco, Sant'Angelo, Roio, Villa Santa Maria, Agnone, Borrello, Quadri, ecc.. Non pochi testimoni di Borrello fecero però resistenza alle citazioni notificate dal Balio (Baglivo, Messo comunale) che era allora Lonardo Palmiero.
Il Palmiero era analfabeta come, del resto, la maggior parte della popolazione. Firmava, perciò, le sue notifiche col segno di croce, assistito da due compaesani che ne attestavano l'operato. Questi erano: alcune volte Domenico d'Annecchino e Mastro Antonio d'Antonelli; quasi sempre Alesio Ferraro e Antonio di Benedetto, almeno in quel periodo.
Ma non sempre le notifiche del Balio Lonardo Palmiero sortirono in pieno l'effetto voluto dalle varie Corti.
Per esempio, il 25 luglio 1693 tra i Borrellani che ebbero le citazioni per testimoniare sull'accoltellamento (Mastro Antonio Spagnuolo, Mastro Valerio Spagnuolo, Mastro Diamante d'Auro, Mastro Giovanni Ferraro, Mastro Falco Ranallo (mastro d'ascia), Ruggiero di Fiore, ecc.), due, Mastro Falco e Mastro Diamante, replicarono con riverenza al detto ordine precisando che essendo loro infermi et vecchi non gli si promette il viaggiare et in conseguenza li vien proibito dall'allegate cause il portarsi nel Peschio, loco (luogo) ne men sicuro per essersi dichiarati più volte li cittadini di detta Terra del Pesco nemici di questa Terra (Borrello) per alcune liti che nascono fra di loro, per tanto fanno insistenza di non essere molestati, ecc..
Altri (Valerio Spagnuolo, Giovanni Ferraro e Ruggiero di Fiore) addussero che in quel periodo erano sottoposti all'Arrendatore (appaltatore) della manna e stavano intaccando (incidendo) l'arbori (gli alberi) che non ammette dilazione di tempo nepure per un momento, non possono pertanto personalmente conferirsi in detta Terra di Peschio senza gravi danni et pregiudizi, ecc. et però (perciò) fanno istanza di non essere per detta causa molestati ecc.. (2)
Qualcuno era assente dal paese per affari, come Antonio Spagnuolo che era andato fuori a sbrigare, appunto, alcuni suoi negozi e, perciò, faceva sapere anche lui di non molestarlo per detta causa. Altri (Liberatore Spagnuolo, Oro di Tiberio, Michele d'Arcangelo, Marc'Antonio Simonetta, Lonard'Antonio di Lisio, ecc.) risposero al dott. Salvatore Zambrato, Scrivano della Regia Udienza di Chieti, che erano disposti a comparire dovunque fuorché (come già altri compaesani avevano sottolineato) a Pescopennataro, luogo molto sospetto per li dissapori, ecc. (insomma, avevano paura della pelle!)
E non pochi furono convocati a Pizzoferrato, territorio neutro! Eppure in taluni casi l’accertato rifiuto a presentarsi entro il termine stabilito era minacciato con una sanzione pari a 25 once d'oro!
Sull'irrisolto problema dei confini, la difesa della Baronessa Melucci e dell'Università di Borrello opponeva, da parte sua, una trentina di altri testimoni: Don Martino Consalvo, sacerdote Arciprete di Giuliopoli; Don Giovanni delli Pizzi di Torricella; Don Filippo di Liberatore, Abate di Monte Negro (Montenerodomo); Lonardo Pacella delli Quatri; Dominic'Antonio del Pizzo di Torricella; Antonio di Pietro delli Quatri; Nicola Scheda di Civitaluparella; Don Ludovico Colaizzo del Rosello, sacerdote; Luca di Liberatore di Pietra Ferrazzana; Francesco Scopino di Pietraferrazzana; Nobile Sabatino della Villa Santa Maria, barbiere; Lonardo di Geronirno di Giuliopoli; Donato Consalvo di Giuliopoli; Giovanni Scopino di Pietra Ferrazzana; Dominico Sabatino della Villa Santa Maria; Dominico d'Amico delli Quatri; Donat'Angelo Scheda della Civita; Pietro Nardinelli di Pietra Ferrazzana; Antonio di Biaso delli Quatri; Berardino Sciullo, commorante (dimorante) in Napoli; Lonardo Mariano del Fallo; Giovvanni Antonio Simonetta, commorante in Napoli; Lonard'Antonio Apollonio del Fallo; Antonio d'Amore del Rosello; Nicola Jacaruso del Rosello; Giovanni d'Amico delli Quatri; Domenico di Pietro delli Quatri; ecc..
Alcuni di quei sacerdoti andavano a caccia nei territori contestati e gli atti della caccia e, quindi, di giurisdizione (con riferimento, evidentemente, alle autorizzazioni di caccia), dovevano pur valere qualcosa. Quei territori, secondo loro, erano certamente di Civita Borrello!
Numerosi altri testimoni asserivano di averli coltivati e seminati, fatti pascere con loro animali e venduti ad altri l'erba. E poi: le prove di cui all'Editto del Vescovo per lo patrimonio di Don Lorenzo di Luca del Borrello; il fatto che le mandre di Notar Giulio di Lisio erano in quelle zone già prima del 1686 (da una trentina di anni prima); uno strumento antichissimo del 1347 circa la vendita di uno di quei terreni; la concessione di un altro terreno da parte de li Caldori all'Annecchini nel 1451 nella Vicenna delli Gagliardeti; la vendita di un altro terreno ancora nel 1591, al Lago delle Cornacchie, che, come è detto nell'atto, era nel demanio di Borrello; e poi la vendita di un ulteriore terreno nella contrada Croci a Marc'Antonio Simonetta di Borrello da parte di Caterina Catanea del Vasto; infine, il Catasto dell'Università di Borrello del 1653.
A tutto ciò, osservavano i difensori della causa di Borrello, la controparte non opponeva che la testimonianza di pochi vassalli del Duca di Celenza, tra cui tre pastori di San Giovanni Lipioni e Torre Bruna, secondo i quali, per esempio, la Fonte delle Croci stava sotto il Castellano, ma oltre il Vallone di Majo (Vallacchiere) verso Borrello. Altra prova invocata dagli avversari era che i Pescolani avevano carcerato alcuni cittadini di Rosello sorpresi a tagliare la legna nella Vallazzuna.
Debbo ammettere, tuttavia, che ho trovato, e quindi esaminato, soltanto alcuni atti della difesa di Borrello, peraltro incompleti, e qualcuno soltanto della difesa di Piesco.
Si deve tenere presente, d'altra parte, che non poca confusione sorgeva dall'esistenza, per esempio, di due Montalto: uno chiamato Montalto del Pantanete (quello che, bontà loro, ci è rimasto) più vicino a Borrello; l'altro dal nome di Montalto del Castellano, più alto e prossimo a Pescopennataro.
L'annosa controversia dopo non pochi anni fu risolta, nonostante tutte le testimonianze accennate, a favore di Pesco e Sant'Angelo, con l'apposizione dei termini da loro reclamati. Vi provvide il Regio Governatore di Rocca Raso in esecuzione di un ordine della Regia Camera della Sommaria. Nei ricorsi dell'Università di Borrello più volte si accenna alla poderosa mano o alla potente mano del Duca di Celenza, con riferimento alle intimidazioni, ai soprusi e alle pretese a danno dei Borrellesi. Non è da escludere, quindi, che nelle decisioni finali possa aver influito anche la differenza dei titoli nobiliari, di gran lunga a favore di quel personaggio. Il Duca, infatti, nella gerarchia araldica seguiva il titolo di Principe. (3) E' ciò - dice l'ing. Juliani - pur avendo il Comune di Borrello presentato istanza protestativa. In considerazione, però, del silenzio caduto su questa protesta - ed era ormai l'anno 1754 - l'ing. Juliani, pilatescamente, si rimetteva alla savia giudicatura del Consigliere della stessa Regia Camera (al quale era diretta la sua Relazione) ed al Tribunale della medesima.
(1) Cfr. Biblioteca Storico-Topografica degli Abruzzi - Vol. II (Camillo Minieri Ricci).(2) La manna (a parte quella Biblica) è un succo dolciastro che si estrae dal frassino da manna, cioè dall'orniello o ornello più piccolo di quello comune. Quando l'albero raggiunge gli otto - dieci anni, viene ... ferito con incisioni trasversali dalle quali trasuda un liquido che si condensa al contatto dell'aria. Siccome contiene mannite, zucchero invertito, ecc., veniva usato per la preparazione di blandi lassativi. (3) Una lite analoga (forse non ancora sopita) sorse tra Pescopennataro e Rosello per gli estesi prati dell'altipiano tra i due Comuni.
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