Il Pellegrinaggio Digressioni e considerazioni fantasiose su una tradizione che va scomparendo
di Raffaello D’Auro
Non li ho visti partire a piedi questa mattina. Non c’era gente festosa lungo la strada per Rosello a salutare devotamente il quadro della Madonna dei Miracoli e ad incitare i pellegrini che si accingono a percorrere a piedi, fra viottoli di campagna, mulattiere e strade rotabili, i circa sessanta chilometri per arrivare, l’undici giugno, al Santuario di Casalbordino.
Uomini, donne, giovani ed anche persone anziane, (queste ultime confidando più nella fede che sulla forza delle proprie gambe) di solito, costituiscono dei gruppetti ben affiatati e ben equipaggiati per affrontare gli aspri sentieri. Non li ho potuti seguire col pensiero, né udire, con immaginoso intento, la squilla della Chiesetta di campagna, quasi nascosta tra ulivi e alberi in fiore, che manda in cielo rintocchi festosi salutando il passaggio dei nostri pellegrini, né vedere le vecchiette che si inginocchiano in preghiera al passaggio del quadro della Madonna, né gli uomini, distratti dal duro lavoro dei campi, scoprirsi il capo e chinarsi con rispettosa devozione.
Mi hanno detto che alcuni devoti, l’undici giugno, andranno in pullman al Santuario di Casalbordino. Non è stato possibile mettere insieme un gruppetto di persone valide capace di affrontare il lungo e defatigante percorso fino alla Chiesa della Madonna dei Miracoli.
Il nostro paese, una volta molto popoloso, conta, adesso, pochi abitanti e fra essi prevalgono persone anziane che una volta, anno dopo anno, furono esse a mantenere viva la tradizione storica del pellegrinaggio. La macina del tempo stenderà il velo dell’oblio su questo evento religioso che ha temprato la nostra gente nella fede e resterà solo la tristezza pietosa della rimembranza? “Ti ricordi quando si andava a piedi a Casalbordino?”
Non a piedi, ma con un mezzo pubblico, anch’io, negli anni ’50, fui quasi trascinato da mia madre ai piedi della Madonna dei Miracoli. Avevo superato una lunga malattia infettiva, il tifo addominale e non le medicine che, anzi, avevano contribuito ad aggravare il quadro patologico, ma la resistenza di un organismo giovane mi aveva stappato alla morte sicura.
Mia madre aveva pregato tanto la Madonna dei Miracoli ed io anche se scettico e recalcitrante dovevo seguirla per recarci al Santuario ad accendere una candela votiva ai piedi della Madre di Dio.
Arrivammo nel pomeriggio del dieci giugno e già la piazza antistante la Chiesa era gremita di pellegrini giunti da ogni dove. All’imbrunire arrivarono anche i nostri compaesani che, partendo a piedi da Borrello la mattina del giorno nove giugno, ora, sudati e sfiniti, cercavano un posto a sedere per rinfrancarsi un attimo dopo la marcia estenuante. Era ormai quasi notte quando si udirono dei canti venire da lontano che, pian piano, si sentivano sempre più vicini e distinti. Erano i pellegrini che, a gruppi separati, venivano dalla zona del Vastese e di S. Salvo. Poco più dietro, seguivano i pellegrini di quei paesi che costituiscono delle isole etnico-linguistiche, Guglionesi, Ururi, Montecilfone, i cui abitanti, in un lontano passato, dall’Albania, approdarono presso le nostre terre. Alcuni pellegrini, varcata la soglia della Chiesa, ginocchioni, si portavano fin sotto l’altare e i loro canti, non proprio intonati, sembravano quasi dei lamenti angoscianti di fervida supplica. Altri mostravano gravi deformità degli arti o cicatrici profonde del viso ed erano quelli, fra tanti, che, incredibilmente, apparivano i più soddisfatti di essere giunti alla meta dopo un lungo cammino. Era ormai notte inoltrata e la Chiesa era piena fino all’inverosimile. Molti si erano distesi lungo il corridoio adagiando il capo su un tascapane o sulla propria giacca piegata in quattro parti. Non me la sentivo di trascorrere tutta la notte in Chiesa dove l’aria era calda ed afosa e, scavalcando con attenzione millimetrica braccia, gambe e teste di quanti ostruivano il passaggio, uscii fuori e l’aria fresca della notte mi rinfrescò il viso. Andai a sedermi su un muricciolo diruto che delimitava un orticello ad un lato della Chiesa ma, trascorsa un’oretta, dovevo tentare di rientrarvi. Anche se era giugno, l’aria si era fatta pungente e qualche brivido di freddo mi faceva rattrappire braccia e gambe. Non fu possibile rimettere piede in Chiesa. Le persone che si erano adagiate lungo il corridoio, ora, nel sonno profondo, avevano meglio distese le loro membra sicché tutto lo spazio a loro disposizione era diventato un unico, variegato tappeto umano. In Chiesa l’aria si era fatta irrespirabile. Miasmi fastidiosi di sudore rappreso, fetore di abiti non mai lavati, di escrementi mal trattenuti, di esalazioni moleste provenienti dal respiro di quelle persone affette da patologie del cavo orale, dello stomaco e dell’intestino, costituivano una barriera insormontabile posta davanti all’ingresso del Santuario.
Irritato ed indignato da quello spettacolo disumano, me ne tornai all’addiaccio sul muretto diruto. Poggiai i gomiti sulle ginocchia e strinsi la testa tra le mani sperando che il sonno allontanasse da me quelle sensazioni orripilanti.
Invano cercai di dormire. Mi chiedevo perché quelle persone, senza alcun ritegno, si erano portate sotto la statua della Madonna. Volevano adorarla o oltraggiarla? Perché non avevano avuto cura del proprio corpo e rinnovato l’abbigliamento prima di partire? Mancava solo che avessero posto sotto l’altare un agnello sacrificale come si usava nei barbari riti pagani e la scena sarebbe giunta alla sua completezza espressiva. Ero frastornato e scettico sulla necessità ed utilità di affrontare un pellegrinaggio.
All’alba, un fugace addormentamento stava dando pace ai miei pensieri tristi e tumultuosi quando sentii darmi dei colpetti sulla punta di un piede. Aprii gli occhi e di fronte a me vidi un giovane che, ridendo, sembrava beffarsi di chi ancora dormiva. Rivolgendomi la parola disse: “Ni vide ca fa jorn?” E poi aggiunse: “Famme appiccià”. Aveva tra le labbra una sigaretta già fumata per metà e poi spenta (si usava così allora per risparmiare e poter fumare più volte). Trassi da una tasca la scatoletta di cerini e, tremolante dal freddo, gliela porsi. Non la prese. Con la mano sinistra sollevò dalla tasca destra soltanto la manica della giacca. Non aveva più l’avambraccio. Gli accesi la mezza sigaretta e guardò in cielo i primi bagliori del sole che tingevano di rosa un cielo sereno. “Ngrazie a Dì” disse, “Oggi è ‘na bella jurnate pe la Madonne”. Socchiusi ancora gli occhi per qualche istante e, quando li riaprii, il giovane era già scomparso. Restava solo, nell’aria, l’odore acre della sua mezza sigaretta.
Aveva ringraziato Dio perché offriva a sua Madre una giornata splendida. Ma per cosa lo ringraziava? Aveva dimenticato che la sua grave menomazione lo avrebbe reso infelice per tutta la vita? E la Madonna, a cui tanto teneva, perché non lo aveva protetto abbastanza?
Riflessioni contrastanti stavano rendendo tormentoso il mio pellegrinaggio. L’impatto improvviso con una realtà insospettabile aveva sgominato dalla mia mente la tranquillità del vivere quotidiano, la superficialità delle riflessioni. Appena dopo mezzogiorno, i pellegrini si rimisero in marcia per tornare, ancora a piedi, nelle loro contrade. Il giovane dalla mezza sigaretta, con la sola mano sinistra, teneva in alto il cartello con sopra scritto il nome del suo paese. Aveva nello sguardo la fierezza e l’orgoglio di aver condotto il pellegrinaggio della sua gente sotto l’altare della Madonna.
Nel corso degli anni, ho spesso ripensato a quella esperienza giovanile e, nel tempo, ho fatto ammenda di tutto ciò che, l’inesperienza dell’età, mi faceva percepire, allora, come indegno, indecoroso, oltraggioso.
Non avevo capito ancora nulla del dolore, della miseria, della malattia, dei dispiaceri, delle ansie e delle speranze degli uomini. Eppure, ero andato a Casalbordino per ringraziare la Madonna dopo che, fra deliri da febbre, allucinazioni visive, coliche addominali e sudorazioni profuse, avevo avuto la sensazione che la vita stesse per abbandonare il mio corpo. L’irrazionale senso critico della gioventù, a volte, è irrispettoso del prossimo, dei suoi comportamenti, della sua fede, delle sue aspirazioni, dimenticando che il prossimo siamo noi, gioventù compresa.
Grazie anche alla mia attività professionale, nel tempo, ho avuto la possibilità di immaginare quale fosse la causa di quelle deformità degli arti, dei noduli secchi o ulcerati che molti presentavano sul volto e dei cattivi odori che aleggiavano all’interno del Santuario. A quante fratture potevano andare incontro i contadini nell’affrontare il duro e spesso rischioso lavoro dei campi nell’allevamento del bestiame e nella costruzione o riparazione dei piccoli rifugi per i loro animali? In quei tempi la chirurgia ortopedica, agli albori, veniva praticata solo negli ospedali di grandi città e le fratture non ridotte, né manualmente, né chirurgicamente, davano origine a deformità degli arti ed alla formazione del così detto, volgarmente, soprosso che alterava, ancor più, la silhouette delle membra.
Fin quasi agli inizi degli anni settanta del secolo scorso, una malattia infettiva, fra le tante, denominata Leishmaniosi, tormentava le popolazioni rivierasche ed anche interne dell’Adriatico, dal Molise fino alla costa Romagnola. Essa era responsabile dei noduli del viso, ma aggrediva anche la bocca, provocando dolorose ulcerazioni, e l’intestino, compromettendone la regolare funzionalità.
Lo sporco, che costituiva una condizione aggravante di queste malattie ed infermità, non era certo voluto. Non in tutte le contrade c’era l’acqua potabile che sgorgava dai rubinetti. Bisognava attingerla dai pozzi, dagli stagni o da sorgentine che, magari, con la bella stagione, si essiccavano. L’acqua era, pertanto, anche allora, un bene prezioso e tanta gente non ne poteva disporre a sufficienza, anzi, ne faceva un uso parsimonioso anche per la quotidiana igiene del proprio corpo. In più, spesso, era veicolo di germi e protozoi responsabili di quelle malattie che avevano infelicitati i loro corpi. E l’avambraccio del giovane che aveva in bocca la mezza sigaretta, da quale misteriosa malattia era stato asportato? Non da una malattia, ma dalla follia degli uomini.
Nell’immediato dopo guerra, era frequente sentire che qualche persona, ma, soprattutto bambini, armeggiando con residuati bellici (ce n’erano tanti in giro) avevano perso la vita o avevano riportato gravi mutilazioni. Il giovane fumatore, forse, era incappato nello scoppio di qualche proiettile inesploso o, in qualche mina anti uomo e, magari, anche tutto il suo corpo, ora, coperto dagli abiti, era stato dilaniato dalle schegge. Aveva avuto salva la vita e, per questo dono, il ringraziamento e l’omaggio della preghiera lo sollecitavano, forse tutti gli anni, a fare il suo devoto pellegrinaggio.
In questi ultimi anni, l’undici giugno, son tornato, alcune volte, al Santuario di Casalbordino trattenendomi il tempo necessario per ascoltare la Messa. Nel raccoglimento e nella meditazione che richiede un luogo sacro, rievocando quella lontana esperienza, ora provo comprensione, ammirazione e rispetto per quelle persone che si prostravano ai piedi della Madonna non curanti dei miseri abbigliamenti, delle ferite aperte e di quanto umanamente li degradava. Si prostravano con tutta la sincerità delle loro sofferenze e senza remore per le apparenze che potevano indispettire ed irritare la suscettibilità di altri pellegrini. In Chiesa tutto è sorprendentemente cambiato. Non più gente che si trascina con le ginocchia sotto l’altare della Madonna. Non più canti confusi e stonati. Non più gente dal viso deturpato. Non più persone invalide e con gli arti deformati. Non più odori sgradevoli. In tutti regna la compostezza e il silenzioso raccoglimento in preghiera. Tutti indossano abiti nuovi per la ricorrenza festiva e capita di osservare che, alcune donne, addirittura, fanno sfoggio di virtuosa eleganza anche se contenuta e riguardosa del luogo sacro ove sono entrate.
E’ questo il miracolo che imploravano quei miseri pellegrini di allora per sé, ma soprattutto per i loro figli e nipoti? Un miracolo che ha portato con sé, anno dopo anno, attraverso tappe importanti del progresso, alla emancipazione di quella gente dalla miseria, dalla povertà, dal dolore. La speranza, la fede, la preghiera, sono stati per loro i pilastri su cui oggi si fonda una vita più degna di essere vissuta.
Ma perché la gente di Borrello va in pellegrinaggio a Casalbordino e non in altri Santuari dove ugualmente è venerata la Madonna? Perché, ancora oggi, a piedi e non più comodamente con automobili personali o mezzi pubblici? Fin da qualche secolo addietro, la Madonna di Casalbordino ha esercitato un’attrazione speciale per i nostri concittadini e per gli abitanti di tanti altri paesi, dalla montagna fino al mare.
L’undici giugno del 1576 essa apparve ad Alessandro Muzio, fedele di Pollutri e lo consolò annunciandogli che, la grandinata del giorno precedente che aveva distrutto il raccolto del grano in tutta la zona di Casalbordino, aveva risparmiato il suo campicello.
A quale Madonna votarsi, dunque, se non a quella di Casalbordino che sembrava aver preso a cuore le sofferenze provocate dalle carestie? Ad una Madonna agreste che scongiura la furia del vento che scuote le spighe del grano, che allontana le nere nuvole cariche di grandine che abbacchia l’uva e i frutti degli alberi, una Madonna che assicuri i pur miseri raccolti dei campi. Ad una Madonna che, nel tempo, ha elargito tanti altri doni ai suoi devoti fedeli.
La tradizione mantenuta viva dai nostri compaesani di andare in pellegrinaggio affonda le sue radici in tempi lontani, ma non mi sorprenderei al pensiero che essa possa avere origini molto remote.
Le famiglie che a Borrello portano il cognome Palmieri sono state, in passato, molto numerose. Diminuite oggi, per la spiacevole riduzione degli abitanti, sono comunque ancora presenti.
Il sommo poeta, Dante Alighieri, nella sua opera “Vita Nova”, scritta verso la fine del 1300, chiama “pellegrini” tutti coloro che vanno fuori dalla propria patria, ma in modo più specifico, chiama “palmieri” coloro che attraversando il mare Adriatico o lo Jonio, si recano in Terra Santa portando una palma al Santo Sepolcro. Chiama “Romei” quanti, partendo da Canterbury in Inghilterra, giungono a Roma percorrendo la via Francigena ed, in senso più stretto, chiama “pellegrini” coloro che percorrendo la via Francigena a ritroso, vanno al Santuario di Santiago de Compostela dove giace il corpo dell’Apostolo S. Giacomo.
Le tre città, pilastri della cristianità, Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela, come in passato, sono tutt’oggi meta di continui pellegrinaggi.
E’ azzardato pensare che i nostri Palmieri (portatori di palme) abbiano tratto il loro cognome da antichissimi pellegrini che, partendo dal nostro paese, si recarono in Terra Santa? Oppure un loro progenitore con tale cognome, proveniente chissà da dove, dette inizio alla stirpe dei Palmieri in Borrello? Se anche così fosse è chiaro che quel progenitore derivò il suo cognome dagli antichi pellegrini.
Angelo Ferrari, profondo studioso e conoscitore della storia della famiglia dei Borrello, dice che molti Feudatari discendenti di questa stirpe, al seguito del Conquistatore Normanno Boemondo d’Altavilla, parteciparono alla Prima Crociata nel 1096-98 e che questi, aiutati da Goffredo di Buglione, conquistarono l’antica città di Antiochia in Turchia. Erano guerrieri, ma anche pellegrini che, mossi dalla fede e da profonda sacralità, vollero strappare il Santo Sepolcro al dominio musulmano.
E’ pensabile che questi nobili Cavalieri avessero al loro comando alcuni uomini tra armigeri, palafrenieri e scudieri e che ad alcuni di essi, reclutati nel nostro paese, fosse anche assegnato il compito di portare la palma in Terra Santa. I Palmieri, e da essi, su, su nei secoli, l’affermazione di questa stirpe a Borrello.
La tradizione del pellegrinaggio deve essersi mantenuta sempre viva nel tempo perché alcune persone, molto anziane, di Borrello, si ricordano di un uomo, di cui citano nome e cognome, che sosteneva di essersi recato in Terra Santa per ben due volte e ci teneva a dire, rimarcando con fierezza, di esservi andato sempre a piedi. E’ inimmaginabile pensare che egli abbia risalito la nostra penisola scendendo poi per i Balcani fino in Turchia e poi fare il balzo finale fino ad Israele, anche se egli, per compiere i suoi viaggi, ogni volta, impiegava sei mesi. Avrà percorso, come molti, la via Gerosolomitana a piedi per poi imbarcarsi a Brindisi o Otranto. Altri, i più danarosi, potevano permettersi una cavalcatura che lasciavano nel porto di imbarco. Essa veniva governata da personale addetto a questa mansione e poi recuperata per il ritorno in patria.
Il nostro compaesano pellegrino era soprannominato “Raffaele senza sangue”. Non credo che questo appellativo, ironicamente sprezzante, fosse da collegare, in qualche modo, alle sue peregrinazioni in Terra Santa. Per sostenere delle marce, così lunghe e faticose, certamente non doveva essere anemico. Aveva riportato da Gerusalemme uno zucchetto e un Tallit (o Thallit), lungo scialle che gli arrivava fino ai piedi. Indumenti tipici dei Religiosi ebrei che egli, non senza stravaganza, indossava, a Borrello, in tutte le feste religiose comandate. Gaetano D’Auro, nel suo dizionario “Raccolta di voci del dialetto di Borrello”, alla voce Tallit, riporta “uomo insignificante”. Raffaele senza sangue era lui Tallit, così ancora soprannominato per via dello scialle e per farne sfoggio con esibizionismo quasi ridicolo e poca serietà? Se il personaggio descritto nel dizionario fa riferimento, verosimilmente, a Raffaele senza sangue, esso va degnamente e nobilmente rivalutato.
Lasciandomi trasportare dalla fantasia, mi è suggestivo immaginare il viaggio di questi nostri antichi pellegrini. Dopo aver ricevuta la benedizione dal Sacerdote del paese ed aver fatto testamento (un viaggio così lungo e periglioso poteva mettere a rischio la vita), essi si mettevano in marcia per raggiungere l’ultimo tratto della Via Francigena che da Roma arriva fino ad Otranto, la via Gerosolomitana (via che porta a Gerusalemme). Con un cappello a larga tesa, con un lungo mantello, con una bisaccia a tracolla, con il Bordone (lungo bastone) sulla punta del quale un ferro uncinato sosteneva una zucca, fatta sviluppare a forma di fiasca per contenere l’acqua, ed una conchiglia, legata al petto, per attingere il bene prezioso da ruscelli e sorgive, essi intraprendevano un lungo ed interminabile viaggio. Si imbarcavano in uno dei porti delle Puglie non prima di aver visitato, in quella terra, il Santuario di Monte S. Angelo nel Gargano per giungere, dopo giorni di tormentata e rischiosa navigazione, presso il porto di Giaffa in Israele.
La bella statua di S. Rocco, pellegrino tra i pellegrini, posta nella nostra Chiesa di S. Antonio, ci offre l’immagine perfetta dell’abbigliamento e dell’equipaggiamento degli antichi viandanti.
Ma non era solo lo spirito di grande religiosità a spingerli lontano dalla propria patria. Com’è nella natura dell’uomo, essi erano anche animati dal desiderio di conoscenza, dalla voglia di scoprire altre terre, di stringere rapporti con altri uomini, di studiarne gli usi i costumi ed, in tanti casi, stabilire rapporti commerciali e culturali. Avventurosi pionieri alla scoperta del divino e dell’umano. Una specie, in somma, di globalizzazione ante litteram.
Finisce qui, con le nostre generazioni, la lunga storia del pellegrinaggio, per mancanza di materiale umano?
Dal secondo dopo guerra ad oggi abbiamo assistito ad un lento e progressivo depauperamento della nostra popolazione e tutti i nostri paesi di montagna, così danneggiati dalla guerra, anziché essere aiutati per una rinascita totale, sono stati abbandonati al loro destino. La politica, sia a livello centrale che periferico, sembra essersi messa i paraocchi in tutti questi anni. Non ha mai pensato ad attuare piani di rinascita per il nostro territorio, non dico per promuovere anche una crescita demografica, ma almeno per impedire un ineluttabile declino.
Non voglio abbandonarmi al pessimismo e, sempre attingendo alla fonte della storia, si nota come, nei secoli scorsi, la popolazione del nostro paese è stata altalenante.
A fronte di bruschi cali di presenze umane, forse dovuti ad epidemie e pestilenze, si sono avuti inimmaginabili recuperi di crescita, non solo per il riprodursi delle generazioni stanziali, ma, forse, anche dovuti alla immigrazione di coloni, garzoni e pastori alle dipendenze di alcuni possidenti di Borrello.
Questi eventi, giustificabili nei tempi andati, oggi non sono più riproponibili. Ma allora, dobbiamo dare spazio alla rassegnazione? Solo un impensabile evento miracoloso potrebbe determinare una inversione di rotta. Si dice che Dio come vede, provvede. Che non sia proprio la Madonna di Casalbordino a fare il miracolo implorando suo Figlio perché prenda a cuore la inesorabile decadenza di un popolo e rinfoltisca il numero dei pellegrini a Lei devoti?
Borrello 9-6-2013
Lo stemma dei Borrello è tratto dal libro “BORRELLO tra i vicini comuni della Val di Sangro” di Eugenio Maranzano
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