I FORNI
di Riccardo D'Auro


Intorno agli anni ’20 del 1900 a Borrello c’erano in attività tre forni di cui due nel paese antico, siti tra il vicolo compreso tra via dell’Orologio e via Marsica e la congiungente di dette strade. Erano molto vicini tra di loro, cosa che imbarazzava non poco la scelta della clientela. Il terzo era ubicato nella parte nuova dell’abitato, in fondo a via Silvio Spaventa lato Morrutto, in un locale sottostante la sala del culto della Chiesa Evangelica. Allora il paese contava oltre 1000 abitanti e molte case disponevano del proprio fornetto.
Le suddette attività appartenevano, nell’ordine, ad Antonio Di Biase fu Leonardo, a Domenico Spagnuolo fu Leonardantonio e a "za Cungette de la furnare", gestito in seguito dalla nuora (Milietta).
Intanto Gaetano Spagnuolo nei primi anni ’30 aprì, in Largo Risorgimento, un forno di nuova concezione azionato da un motore a nafta. Oltre alla tradizionale cottura del pane per le famiglie, veniva provveduto anche alla panificazione per il pubblico con vendita diretta nel vano antistante; un’attività, questa, che si intensificò nel periodo del tesseramento annonario. Dopo qualche tempo, poiché si avvertiva, un certo odore del carburante, si rese necessaria la trasformazione a legna. Nel dopoguerra il forno fu ricostruito nella stessa strada in un fabbricato poco distante.
Negli anni ’50 tre giovani continuarono, in successione, questa attività per un altro ventennio circa: Antonio Di Biase, Palmieri Giuseppe e Palmieri Oliviero. A causarne la fine fu l’abbandono graduale della coltivazione della terra, quindi la mancanza della produzione del grano, che provocò anche la chiusura del mulino. Il cambiamento radicale della vita, dovuto alla guerra e all’emigrazione - massiccia quella all’interno del paese negli anni del miracolo economico – ha portato, con il progresso, un profondo sconvolgimento sociale. Gli anziani hanno assistito con un certo velato compiacimento all’evoluzione del tempo, ma nel loro intimo rimpiangono il passato al quale ritorna sovente la memoria.


Cerchiamo di ripercorrere il tempo in cui i due forni del centro storico furono al servizio della comunità.
La loro vicinanza, che creava il problema al quale ho accennato, la concorrenza, l’emulazione e la reciproca intolleranza, portarono, a lungo andare, i titolari allo scontro fisico. Erano dei tipi alquanto infiammabili, protagonisti di azioni clamorose, soprattutto il più anziano, che ebbe la meglio. Ma i due, buon per loro, continuarono l’attività ancora per breve tempo. Verso la fine degli Anni ’20 il primo smise per motivi di età e l’altro, qualche anno dopo, per inagibilità del locale.
Domenico Spagnuolo riaprì il forno, nella prima metà degli anni ’30, nel nuovo rione di via del Littorio dove gli era stata assegnata una delle casette nuove. Il trasferimento ebbe breve durata a causa degli eventi bellici, che fecero perdere al proprietario la casa e la vita per lo scoppio di una mina.
Zi Minghe, “Mingalone”, grande e grosso e dalla voce possente, amava molto la scena. Scandiva le parole rimarcando il finale per intimorire l’interlocutore, specie se questi era minuto. D’estate, al ritorno dal bosco, per smaltire la calura era solito sedere al fresco davanti casa. Di fronte, sull’altro marciapiede, muto e meditabondo sedeva lo “zio Prete”di Don Oliviero. Egli sentiva? Parlava? Non lo ricordo, ma ogni tanto si scuoteva quando il dirimpettaio, forse assopito, emetteva sonori brontolii e sospiri profondi. Un atteggiamento che teneva, però alquanto attenuato, in presenza delle giovani nipoti del reverendo alle quali non disdegnava lanciare sguardi furtivi. Noi ragazzi non ci facevamo più caso e continuavamo a spingere le nostre rumorose carrozze sui marciapiedi lisci che circondavano le case, gli unici esistenti allora a Borrello per il nostro divertimento.

Il forno era un posto di aggregazione delle donne, che, posate sulle apposite mensole le tavole in attesa dell’uscita delle pizze e dei “pisciotti”, anteprima dell’infornata del pane, potevano finalmente tirare un sospiro di sollievo e scaricare la tensione accumulata dopo ore di lavoro intenso, scambiandosi le notizie, commentando i fatti del giorno e quant’altro. Un breve relax dopo di che tornavano a casa per ritornare di nuovo, dopo un paio di ore, a riprendere il pane che qualche volta era già stato sfornato1 .
Erano stanche per avere già fatto molte ore di lavoro per setacciare la farina, “ammassarla” con le patate2 e sfaccendato a lungo in attesa della lievitazione, che avveniva nella madia coadiuvata dal tepore di un panno di lana e di una coppa di fuoco. Infine, attendevano “la chiamata” del fornaio che passava ad avvisare i prenotati, confezionavano i panelli sulla tavola e li portavano al forno.

Al ritorno il profumo del pane attirava l’attenzione dei passanti mentre qualcuno diceva “Dej le bbenedeche”. Esse compiaciute indirizzavano loro dei frettolosi “favurisjce a le pane” accelerando il passo contente della buona riuscita della laboriosa fatica sostenuta.


Febbraio 2012


1 Ognuna di loro personalizzava i propri “panelli” con un segno di riconoscimento.
2 Le patate avevano la funzione di tenere morbido il pane per la durata di molti giorni, anche due settimane, perché “non si viveva di solo pane ma anche …di pizza di grandigne”.


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