I Figli di Borrello
(tratto da “I Figli di Borrello: storia dell’anno mille”)
di Angelo Ferrari

Il libro di Angelo Ferrari sulle imprese dei Borrello dal titolo “Feudi prenormanni dei Borrello tra Abruzzo e Molise” è stato pubblicato a gennaio 2007 e può essere richiesto via internet direttamente all’editore UNI Service, Via Verdi 9/A, 38100 Trento; www.uni-service.it editrice@uni-service.it

6. La protesta di Mario Borrello

….. Mario Borrello era figlio di Oddone del ramo dei Borrello Signori di Agnone, suo figlio Bartolomeo era feudatario del Conte di Conza e possedeva le terre che in passato erano state assegnate a Gregorio Pagano. Nel 1155 fu uno degli organizzatori della lega che si ribellò al re normanno Guglielmo I, sostenuta dal papa e dall’imperatore bizantino. La rivolta scoppiò improvvisa in diverse regioni del regno contemporaneamente e, per parte sua Mario Borrello insieme a Riccardo d’Aquila Conte di Fondi, scese con l’esercito nella ricca valle di Sora e il 21 agosto si presentò sotto le mura di Arce e assediata la città la espugnò in pochi giorni dandola alle fiamme. Negli stessi giorni Riccardo conquistava Sessa e Teano.
I disordini durarono circa un anno e quando nel 1156 il re normanno Guglielmo I il Malo ebbe ragione della ribellione, Mario Borrello chiese ed ottenne il perdono e il permesso di mantenere i propri feudi, con la promessa di non prendere più le armi contro il proprio re.
ipotesi di ricostruzione di Borrello nell'anno 1100Trascorsi alcuni anni di relativa calma, nel 1160 divampò l’ennesima rivolta dei baroni meridionali. La congiura fu organizzata da Mario Borrello, che trascinò in questa avventura anche altri due Borrello, Simone e Filippo di Sangro, da Riccardo d’Aquila, da Gionata di Conza, da Ruggero di Acerra e da Roberto di Gravina. Il 10 novembre uno dei ribelli al servizio di Mario Borrello, Matteo Bonello, uccise in un imboscata Maione di Bari, il più potente consigliere del re e uno dei più accaniti nemici dei rivoltosi. In quei giorni Mario Borrello si trovava a Salerno e con abili arringhe incitò la popolazione alla rivolta contro il re e ad accogliere all’interno della città i capi della ribellione con i loro eserciti e fu talmente convincente che molti notabili salernitani, che si erano organizzati in una fazione favorevole a Mario Borrello detta dei “Capiturini”, giurarono fedeltà al capo borrellense.
L’anno seguente Guglielmo I riuscì a domare le rivolte in quasi tutte le regioni del Regno di Sicilia e nel 1161 il suo esercito al completo puntò su Salerno che ancora resisteva. Matteo Bonello fu catturato e accecato, i capi della rivolta che ancora si trovavano nella città fuggirono, Mario Borrello, Simone e Filippo tornarono nella Terra Borrellense, mentre Gionata di Conza, Riccardo d’Aquila e Florio di Camerota ognuno al proprio feudo. Il re aveva pessime intenzioni riguardo alla città di Salerno e in modo particolare contro i “Capiturini”, ma grazie al provvidenziale intervento del notaio Matteo d’Aiello, molto ascoltato a corte, la città fu risparmiata. Non così per i capi ribelli, essi furono tutti banditi dal regno, compresi Mario Borrello, Simone e Filippo di Sangro.
Nel 1166 alla morte di Guglielmo I il Malo gli successe all’età di tredici anni il figlio Guglielmo II il Buono, sotto la reggenza della madre Margherita di Navarra. I prigionieri dell’ultima rivolta furono liberati e gli esuli, tra cui Mario Borrello con i nipoti, furono richiamati in patria.
Sotto lo stabile dominio normanno del Sud la casa dei Borrello ebbe ancora molto da raccontare e i vari rami della famiglia, con nuove parentele e rinnovato vigore, si affermarono in vario modo tra le classi sociali che furono le protagoniste dei regni che si avvicenderanno nell’Italia meridionale.
I Borrello di Petra Abbondante furono coloro che sino ad ora erano stati protagonisti attivi della storia, loro e dei territori che dominavano.
Nella discendenza dei Borrello di Anglone furono celebrati il cardinale Simone che era abate di Subiaco nel 1154 e il già citato Mario Borrello che ricoprì cariche di prestigio nella politica del regno della reggenza della regina Margherita. La discendenza di Borrello III mantenne il possesso di Anglone fino al 1198 quando l’ultimo Borrello, fratello di Oderisio e di Oddone, fu fatto uccidere da re Manfredi per oscuri motivi e il suo feudo fu concesso ad un’altra famiglia. La discendenza dei Borrello di Anglone si estinse poco dopo.
La discendenza più nota è stata quella di Oderisio I Conte di Sangro, nella genealogia di questo ramo dei Figli di Borrello ci fu Filippo Conte di Sangro e poi Simone di Sangro citato nel Catalogus Baronum; le notizie riguardo a costui risalgono al 1156, anche se la regina Margherita gli conferì il titolo di conte solo nel 1166.
Simone era figlio di Rainone e fratello di Riccardo, tutti e tre portavano nomi di chiaro stampo normanno insoliti nella stirpe dei Conti di Sangro e tra i Borrello in generale. Era la testimonianza degli stretti legami di parentela con i nuovi conti normanni della Contea di Molise, allora potentissimi e legati direttamente alla casa reale di Sicilia.
Alla morte di Simone, pur avendo figli maschi, gli successe il fratello Riccardo dal quale discesero i successivi Conti di Sangro che in parte confluirono, per via di matrimoni, nella famiglia dei Mariconda e dei Caldora di Aversa. Un altro ramo dei Conti di Sangro si spostò a L’aquila condottovi da Gentile di Sangro quando nel 1290 era capitano della città e si estinse verso la metà del 1500 nella famiglia aquilana dei Rivera.

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L'illustrazione, realizzata dall'autore, rappresenta un'ipotetica ricostruzione dell'abitato di Borrello nell'anno 1100.



7. La vita quotidiana nei feudi dei Figli di Borrello

Nel medioevo, in un mondo in cui la ricchezza e il potere si misuravano in terra posseduta e coloni che la lavoravano, i Borrello erano continuamente dediti all’ingrandimento dei propri domini sui quali esercitavano una autorità ferrea. Dato che la prolifera famiglia si ingrandiva sempre più era necessario acquisire continuamente nuove terre per i giovani Borrello in modo da evitare una estrema parcellizzazione dei possedimenti. Essi non costituivano una eccezione nella amministrazione dei propri possedimenti e si comportavano come ogni feudatario nei confronti dei propri sudditi e riguardo al signore che gli concedeva il feudo.
Il sistema delle signorie feudali nell’Italia meridionale si basava sul possesso del territorio e i feudatari frazionavano il suolo in lotti concedendoli ai contadini subfeudatari tramite contratti chiamati livelli. I canoni di affitto erano pagati con parte del raccolto, di solito il 50%; quando si trattava di beni non di prima necessità, come ad esempio il vino, la percentuale arrivava fino al 70-75%. I livellari cioè gli affittuari del territorio, vivevano sul terreno che coltivavano e dovevano al proprietario, in sostituzione del raccolto, anche delle prestazioni di lavoro agricolo.
attrezzi agricoli conservati nel Museo della Civiltà Contadina - rielaborazione grafica di Angelo FerrariI feudi della Terra Borrellense erano costellati di borghi piccoli e grandi, a ridosso di castelli e torri, fortificate e ben sorvegliate, che garantivano la sicurezza di tutti; ovunque erano sparsi monasteri, chiese, badie, eremi e luoghi sacri di ogni genere, estremamente curati e fiorenti.
Nel periodo che seguì la conquista normanna all’incastellamento tipico dell’età longobarda si affiancarono la fortificazione dei centri rurali esistenti e la nascita di una nuova tipologia di insediamento abitativo nelle campagne: il casale. In particolare questo consisteva in una grande masseria costituita da diversi edifici adibiti alle attività agricole ed era situato direttamente sui terreni da coltivare, cioè in aree disabitate anche se non molto distanti dai centri abitati.
Le strade erano delle sterrate aride e polverose d’estate e in inverno diventavano scivolose e piene di fango e spesso, all’interno dei piccoli centri, fungevano anche da fogne; ovunque c’era il rischio di imbattersi nei predoni che derubavano di tutto.
I contadini vivevano a ridosso dei piccoli centri fortificati e coltivavano quasi sempre gli stessi terreni che si tramandavano di padre in figlio, anche se non esisteva alcuna legge precisa riguardo a questa consuetudine.
Una quota del prodotto veniva prelevata dal padrone, di solito costituiva la metà del raccolto e in alcune annate particolarmente difficili i contadini arrivavano stremati alla fine dell’inverno. Ancora oggi il ricordo dello spettro della carestia affiora nei racconti degli anziani, quando i più poveri erano costretti a chiedere in prestito farina e legumi per superare la triste costa di maggio e in tal modo compromettevano buona parte del raccolto successivo.
attrezzi agricoli conservati nel Museo della Civiltà Contadina - rielaborazione grafica di Angelo FerrariTra i contadini molto alta era la mortalità infantile e bassa la speranza di vita e, in alcuni periodi, la generale assenza di igiene favoriva contagi di ogni genere; l’acqua non era conservata in modo salubre, spesso si formavano letamai nell’orto a ridosso delle abitazioni, gli abiti dei contadini erano talmente ruvidi che causavano ulcere e croste su tutto il corpo.
Non era una vita facile anche se non diversa da quella delle altre regioni della penisola e di gran parte dell’Europa.
I prodotti della terra erano abbondanti, anche se richiedevano enormi fatiche, i fiumi erano ricchi di pesce, i terreni venivano coltivati con grano e ortaggi di diversi tipi, si raccoglievano olive e frutta di ogni genere, i vigneti erano diffusi come pure l’allevamento delle api per la raccolta del miele.
Gli orti e le colture più pregiate erano situati sui terreni prossimi alle abitazioni ed erano ben delimitati dalle macere dove per anni i contadini accumulavano le pietre sottratte al terreno coltivato. Nell’orto il vegetale più in uso era il cavolo che, adattandosi in modo particolare al clima freddo, garantiva un abbondante raccolto anche negli inverni più rigidi.
Una produzione importante per l’aspetto nutrizionale era costituita dalla coltivazione dei legumi, in particolare fave, ceci, cicerchie e piselli, mentre altre piante spontanee erano utilizzate a scopo domestico e selezionate per colture particolari come le rape, i finocchi, la cicoria, i carciofi, ecc.
Un posto di primo piano era costituito dall’allevamento del bestiame, specie suini, dalla pastorizia, pecore, capre e bovini e dalla caccia.
attrezzi conservati nel Museo della Civiltà Contadina - rielaborazione grafica di Angelo FerrariEra molto diffuso l’allevamento dei maiali che talvolta venivano lasciati allo stato brado mentre in altri casi erano affidati ad un porcaro che sorvegliava i suini dell’intero villaggio. I maiali erano molto simili ai cinghiali e negli inverni più freddi venivano portati nei centri situati a valle.
I diversi tipi di allevamento del bestiame consentivano di sviluppare attività collaterali come la lavorazione della lana, la produzione dei formaggi e la preparazione delle carni suine.
Una delle principali caratteristiche della Terra Borrellense erano le foreste che gli abitanti sapevano sfruttare abilmente per integrare le risorse già disponibili, sia per ricavare legna da ardere, sia legnami da costruzione.
Tra gli alberi si potevano raccogliere lamponi, cornioli, prugne selvatiche, sorbe e pere che con particolari accorgimenti erano conservati per tutto l’inverno. Le castagne e alcune varietà di ghiande fornivano una farina rudimentale che permetteva di ricavare un pane rustico utile nei periodi difficili.
Nei boschi si potevano cacciare cervi, caprioli e daini, cinghiali, volpi e lepri, mentre lungo gli impetuosi fiumi si pescavano vari tipi di pesci e gamberi, mediante l’uso di nasse rudimentali o erba velenosa, talvolta anche con la calce viva.
Ogni borgo aveva la sua rocca e le case erano prevalentemente basse, costruite in pietra quasi mai lavorata, le facciate non avevano fregi né balconi, se non quelle dei ricchi, le finestre erano piccole protette da inferriate e da spessi portelli e mancando i vetri lasciavano passare freddo, pioggia e vento, sul retro quasi sempre c’era un orto per uso domestico.
All’interno vivevano il padrone, i servi e talvolta anche qualche animale, per proteggerlo dal freddo; le suppellettili erano ridotte all’essenziale: il tavolo con le sedie, madie, credenze, cassettoni, panche e letti. Questi ultimi erano costituiti da pagliericci stesi su tavole di legno, i più abbienti usavano materassi di crine, i ricchi di lana e infine i nobili, i Borrello, di piume. Lenzuola e coperte erano un lusso di pochi, quasi tutti si coricavano interamente vestiti e d’inverno non toglievano neppure le fasciature dei piedi a causa del freddo intenso e solo i ricchi possedevano letti singoli con tanto di rozzo baldacchino; ai piedi di ogni letto la sera veniva posto un grande braciere acceso.
attrezzi agricoli conservati nel Museo della Civiltà Contadina - rielaborazione grafica di Angelo FerrariNella stanza grande, dove si lavorava, si cucinava e si svolgeva la vita della famiglia, era sempre presente un grande tavolo massiccio con ai lati grandi panche e qualche sedia; su una delle pareti faceva figura un cassettone nel quale venivano conservati gli oggetti preziosi della famiglia: vestiti per le cerimonie, qualche gioiello, i documenti di famiglia e gli oggetti sacri per le funzioni religiose.
La madia era vicino al focolare e conteneva la farina e il pane che veniva impastato e cotto in casa, la conca dell’acqua con il maniero era posta in una nicchia ricavata nello spessore del muro e sulle mensole appese ovunque lungo le pareti erano deposti piatti, bicchieri, bottiglie per l’olio e per l’aceto, barattoli per il sale e piccole botti di vino prodotto in famiglia, aspro e difficile da conservare inalterato. Tutte le stoviglie erano grezze, di terracotta o di legno, in pochi ne possedevano di rame o addirittura d’argento e solo qualche ricco d’oro per le grandi occasioni. Il pranzo veniva consumato su una rustica tovaglia con la quale i commensali si pulivano le mani dopo aver mangiato in tazze di legno con cucchiai di legno, le forchette erano sconosciute mentre il pugnale personale fungeva da coltello.
La dieta per i contadini borrellensi era costituita tutti i giorni da pane, bianco o nero, verdure, lardo, strutto, minestre di ogni tipo, la domenica e le feste c’era anche carne di maiale, pollo e talvolta vitello, per i nobili anche la cacciagione. Inoltre l’alimentazione era condizionata dalla rotazione delle colture che con l’anno del maggese, ogni due o tre anni di coltivazione, consentiva di far crescere molte leguminose: lenticchie, ceci, fave, ecc.
I feudatari, quando non erano presi dalle attività militari, si dedicavano alla caccia e con particolare piacere a quella agli animali di grande taglia, come orsi, cervi, daini, cinghiali e volpi. Eccezionalmente veniva praticata la caccia con il falcone.
Nel corso della breve ma dura vita dei contadini tutto il lavoro veniva svolto con attrezzi rudimentali anche se molto efficaci che sono andati perduti nel tempo. I pezzi di epoca relativamente recente, sapientemente raccolti da E. Maranzano con impegno e passione nel museo della civiltà contadina di Borrello, rendono una idea verosimile della tipologia degli strumenti utilizzati.
Nella Terra Borrellense la vita scorreva con ritmi lenti similmente a quella di qualsiasi borgo dell’Italia medioevale, scandita, tra una guerra e l’altra, dai grandi eventi pubblici e dalle sentite e numerose cerimonie religiose: festività, ricorrenze, matrimoni, battesimi e funerali. In particolare dopo il rito funerario i corpi venivano seppelliti in piccoli cimiteri situati presso le chiese, ma poi cominciò a diffondersi l’usanza di seppellire i morti nelle pareti delle chiese, come nel caso recentemente studiato della chiesa di S. Egidio (*) a Borrello.


(*) Maranzano E., Borrello tra i vicini comuni della Val di Sangro, Casoli 1998.
Le immagini, fotografate e riadattate graficamente dall'autore, illustrano attrezzi ed utensili per uso agricolo ed artigianale, conservati nel Museo Civico "Memorie della Vita Contadina" di Borrello (n.d.w.m.).

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