Felicità

di Donato Di Luca




Papà mi chiamò all'alba: “guagliò, allora, vuò veni' veramente?”. Mi feci forza e mi alzai. L'asino, da basso, ruminava. Era già pronto col basto e le gaiole. Era l'alba quando partimmo. Arrivammo al campo e l'alba era ormai diventata aurora. Papà cominciò a caricare i covoni nelle gaiole.
Mi disse: “va' sotto il noce. Io mo' porto questi e torno per il secondo carico; poi torniamo a casa insieme”.
Il noce era grande, frondoso, denso. Cresceva maestoso sul greto del torrente, al limite di un piccolo spiazzo erboso. Al vento di terra, che in estate soffia dalle due di notte alle otto del mattino, stormiva con vigore. Mi sdraiai. Il torrente scorreva sciabordando tra i sassi.
È strano come ogni cosa abbia un suono diverso: Lo stormire del noce era monodico, simile al mormorio del mare; ma il mormorio del mare è scandito dal
regolare sciacquio della risacca, invece lo stormire sembrava piuttosto il raccolto salmodiare gregoriano di un coro di frati.
Il torrente si chiama Rio Verde - Canta anche lui, ma la musica del torrente è polifonica.
Sdraiato, ascoltavo: un leggero perlage di soprano che sorgeva da un rigagnolo di piccoli sassi si intrecciava con il tranquillo sospiro della lenta corrente di un pantano; a scatto, interveniva un basso di contralto a scandire il ritmo e, sembrava, la direzione armonica del canto. Oppure, improvvisamente la musica si trasformava in un intenso chiacchiericcio di cui mi sforzavo inutilmente di distinguere le parole. Poi ritornava la musica.
Certo, allora non pensavo queste considerazioni armoniche perché ero bambino e del tutto ignaro di ogni minima conoscenza musicale, ma comunque ascoltavo il complicato intrecciarsi di tutti questi suoni.
Naturalmente, la natura si risvegliava sontuosamente in quella limpida estate che nel ricordo mi pare anche più limpida e calda di quanto fosse veramente. Non dirò diffusamente che vuol dire sentire il mattino estivo svegliarsi, con tutti i suoi fremiti; coi trilli, i richiami lontani e vicini, insistiti e pacati; i fruscii, i pigolii, gli squittii.
Non è che fossi molto tranquillo: il tempo, ai ragazzi soli che aspettano sembra lungo, senza fine: Pensavo a papà che ormai era lontano: forse già vicino al paese o forse aveva già scaricato i covoni sull'aia e si avviava a tornare da me. Mi dicevo che dovevo farmi trovare pronto e ben sveglio, quando fosse tornato. Pregustavo il piacere di rivederlo: avrei sentito forse il raglio dell'asino mentre attraversava il ponticello. (“Chi sa perché raglia sempre quando attraversa quel ponte”, mi chiedevo).
O magari posso fargli uno scherzo.
Ma si, salgo sul noce e mi nascondo là, su quel ramo che sporge verso il torrente, dietro quel fitto fogliame.
Immaginavo lo sgomento di papà nel non vedermi dove mi aveva lasciato, la preoccupazione che fossero venuti due lupi e mi avessero azzannato e trascinato con loro…
Era già successo che avessero tentato di rubarsi una pecora, ma papà li aveva scacciati minacciandoli col grosso bastone che portava sempre con sé quando era al pascolo (poi aveva preso in braccio la pecora ferita e l'aveva portata in paese, dal dottore, perché da noi non c'era il veterinario; e il dottore, che era uno di quei meravigliosi dottori di paese di cui s'è persa la semente, ne medicò la ferita!).
Ma i lupi di questa stagione!?...
Sarebbe corso al torrente avanti e indietro lungo il greto, scrutando tra le radici dei grandi salici e i mulinelli dell'acqua che girava intorno ai sassi più grandi.
Giova', Giovanni!”, lo sentivo gridare…
Non lo farò cercare a lungo, se no la paura diventa poi troppa e poi mi sgrida e non mi porta più con sé un'altra volta.
Papà, papà, sono qui”.
Papà mi sgriderà, certamente: “Brutto vagabondo delinquente, scendi ché ti voglio fare il sedere nero di schiaffi”, ma io vedo il cenno di sorriso sulle labbra che smentisce il cipiglio degli occhi e scendo correndogli incontro.

Intanto guardo il campo intorno a me. Non l'avevo mai visto da questa prospettiva, così da sdraiato. Qui l'erba verdeggiante, bassa nello spiazzo in cui mi trovo, sembra un immenso mare ondeggiante delle cui onde non vedo la sommità della cresta. Guardo più in là, le stoppie che gialleggiano (Si dirà così? Bah: giallèje, dice papà quando racconta a mamma del grano che è andato a vedere in qualche contrada per organizzare la mietitura; e così sarà).
Ecco lassù, tra le cime degli alberi in cima alla collina, si affacciano i primi raggi del sole.
Oh, si fa giorno!
Questo dà coraggio al bambino.
Ai piedi della collina la casetta (casetta dice adesso l'adulto, ma allora pareva un
castello, con la stalla per il gregge in basso e la stanza per mangiare e dormire di sopra): controluce, quasi non si distingue la porta al centro e la finestrella in alto sulla destra, semicoperta dalle fronde del tiglio.
Questo è il ronzio di un maggiolino”: guardo intorno, in alto, verso il sambuco coi fiori bianchi che non sono ancora diventati le dolci bacche nere: perché se lo prendo, poi lo lego al filo e lo farò volare e ronzare intorno per un po', prima di lasciarlo libero tra i sambuchi che verdeggiano sotto la nostra casa. Non lo vedo.
Si è fatto anche più lontano lo stormire del noce. Si è affievolito il canto del fiume…
Guaglio', che fai, ti sei addormentato?”
No no, pensavo!”
Ma non è vero. Mi rendo conto che mi ero addormentato e tutto quello che vedevo e sentivo era visto e sentito nel sogno.
Papà apre il tascapane chiedendomi se ho sete.
No -dico- ho un po' fame”.
Dal tascapane spunta un tovagliolo candido. Papà lo svolge e mi allunga la colazione: un bel panino di pane e frittata.
Mordendo con gusto seguo papà. Lo guardo caricare i covoni nelle gaiole. Fatto. “Andiamo”, dice.
Andiamo, mentre da un ornello frinisce la prima cicala. Il Terrano non soffia più, ora ci segue la tenue brezza che accompagna lo scorrere dell'acqua. Il nostro Valente ci precede col suo carico di grano. Noi lo seguiamo tranquilli facendoci guidare verso casa.


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