ENRICO DI LUCA … UN AMICO
di Eugenio Maranzano

Alcune note caratteriali sul nostro illustre, compianto compaesano Enrico di Luca, conosciuto come "Il padre del chip elettronico". Sono state scritte da Eugenio Maranzano in una lettera dell'Aprile 2011 a Riccardo d’Auro, autore della storia familiare e scientifica del personaggio."



Fine crudele di un piccolo scoiattolo

Eravamo andati alla terra di Damasina,sotto le rupi.
Terra che i miei di famiglia chiamavano: "di Cicacielle". E che si trova prima di quella dell'antico casino dell' "Arciprete".
Tra gli altri alberi da frutta, mi disse Enrico, c'era un pero …. Già pronto. "Z'avama fa na magnieta".
Sul ramo più basso scorgemmo un animaletto, bello e leggiadro, con una coda lunga e fluente, che stava, indisturbato, rosicchiando una pera (di quelle con la polpa marrone chiaro). La reggeva stretta tra le zampine anteriori come rosee manine. Enrico, anziché ammirare l'inconsueto spettacolo, spiccò un salto e l'afferrò. La bestiola però, cercò di difendersi e l'addentò al pollice. E' proprio il caso di dire che mal glie ne incolse. Enrico la strinse appena, ma tanto quanto bastò per ucciderla.
Cosa farne?
Proposi di portarla in paese, a casa mia, per scuoiarla e salvarne la pelle con la meravigliosa coda. E così facemmo dietro l'orticello di casa sulle rupi.
Ci servimmo di uno dei tanti bisturi custoditi nel cosiddetto ”studio" di famiglia. Era dentro un armadio-vetrina nel quale giacevano ancora, come fossero reliquie, tutti ….. I ferri da chirurgo di mio nonno buonanima.
Tutto lo scuoiamento procedette bene fino alla coda. A metà della quale la pelle si sfrangiò in malo modo.
Da … acerbi chirurghi ci guardammo sorpresi e … torbidi. Io incolpai Enrico di aver mal tenuto il delicato corpicino. Lui, di rimando, mi rinfacciò poca capacità e attenzione.
Decidemmo, comunque, di non buttarla per le rupi. Salii sul muretto dell'orto e mentre Enrico mi teneva ferme le gambe, distesi per bene quella pelliccetta con la coda monca sull'accessibile tetto della casa confinante (nella parte in cui era la stanza da letto del notaio Tiziano Grilli).
II sole l'avrebbe asciugata. Ma già la mattina successiva non c'era più, nonostante che l'avessi protetta con un pezzo di tegola. Forse il vento (o forse qualche donnola, faina o rapace notturno) aveva provveduto a vendicare il piccolo roditore.



Cattura e morte di una serpe

Fu un episodio veramente indimenticabile.
Eravamo andati a Monte Calvario a vedere l'acqua del serbatoio dell'acquedotto che fuorusciva dalla bocca del sovrappieno.
Vidi una lunga serpa nera che, allarmata dai nostri passi, si era messa a correre verso una macera. Richiamai l'attenzione di Enrico che le corse velocemente dietro. Mentre la serpe si intrufolava nella macera fece in tempo a catturarla per la coda. La tirò con forza. La bestiaccia venne fuori roteando come una frusta. Enrico la scagliò contro il muro a secco tramortendola.
“Mò, mi disse, la trasciniamo fino a casa mia e ti faccio vedere io che brutta fine deve fare". E così facemmo. La gente ci guardava con occhi stralunati, mentre, a turno, la trascinavamo. La portammo che ancora si muoveva, sul piazzale davanti all'ingresso.
Enrico salì a casa. Ne ridiscese con un grosso barattolo dal quale, con una “ceppa", incominciò a tirare fuori una sostanza gommosa e giallognola.
La cosparse sulla serpe con attenzione e messosi in ginocchio, diede fuoco al tutto con uno zolfanello.
Era cera per pavimenti! (Forse allora era l'unica famiglia ad avercela). Il nonno in quel momento era assente, altrimenti gli avrebbe detto: "Quanda sì purche"! Mi raccontava infatti, Enrico che mastre Duminiche (che non era di Borrello) quando lui la faceva grossa, non gli diceva “puorche", come da nostro dialetto, ma “purche".



La mia prima barba

Lo sai come, quando e perché mi feci per la prima volta la barba?
Studiavo a Lanciano da alcuni anni. Vi frequentai il Ginnasio e il primo Liceo Classico.
Io e Enrico non frequentavamo le stesse aule né gli stessi Professori pubblici o privati.
Ma ci incontravamo spesso. Anche se lui abitava molto più lontano. In un grosso casale a ridosso di un lungo muro del Viale dei Cappuccini.
Mi ricordo che per accedervi si doveva salire una lunga e piuttosto ripida gradinata che si sviluppava rasentando il muro dell'abitazione.
Ma andiamo al fatto.
Mi erano cresciuti i primi peli sul viso. Di questi, quattro-cinque, più lunghi degli altri, mi pendevano, deboli e solitari, per qualche centimetro dal mento.
Quando Enrico si accorse di questa mia .. Anomalia, con gli occhi lucidi e… con un ampio, satanico sorriso di incipiente soddisfazione, ci si tuffò sopra e, con una destrezza e sveltezza veramente più uniche che rare, me li “asciuppò" tutti.
Non è che provai, ovviamente, chi sa che … dolore. Tuttavia,quel lieve pizzicore e le risate degli altri amici presenti, mi fecero reagire con la ricorrente, comune parolaccia.
Ma I’inconveniente fu che Enrico incominciò a prenderci gusto. Lnfatti,ogni volta che ci vedevamo, mi scrutava furtivamente e se quei sfortunati peli erano ricresciuti a sufficienza per un'altra fulminea aggressione, non avevo scampo. Mi devi credere: era un vero e proprio “schiattato ncuorpo"!
Fu così che mi decisi a intervenire sul mio viso. Prima con delle forbicette.
Poi, a peluria estesa, con un piccolo rasoio a lametta che mi facevo prestare da un compagno del pensionato (stavo a casa di una maestra elementare).
Eliminato l'oggetto del contendere, Enrico quando ci incontravamo mi diceva: "Ah,ti li sì tusati ssi pile"! Ma me lo diceva quasi dispiaciuto della mia decisione, pago, però, e soddisfatto della sua … vittoria. E tutto con un sorriso …. Rifrecatorio che metteva più in evidenza un suo incisivo scheggiato a seguito di chi sa quale impresa o incidente.



L'abete nel cortile del Liceo

Era da tempo che rimuginava l'idea. Ma l'impresa non era facile!
Innamorato com'era della campagna e dei boschi, non gli andava giù quel cortile del Liceo, così arido, così disadorno!
E poi, se ad arricchirlo ci fosse cresciuto un albero dei boschi di Borrello sarebbe stato non solo un vanto per il paese e per l'autore, ma anche il ricordo vivo della …. Propria terra (….come se fossimo nelle lontane Americhe!). Indubbiamente, un atto …d'amore!
E realizzò il progetto.
Di ritorno a Borrello, fece tutto da solo.
Si recò nell'abetaia del Marsimone. Espiantò con abilità e cura una giovane pianta di abete. La mise con del terriccio dentro un sacco e se la “incollo" fino a casa. Come riuscì a trasferirla a Lanciano non me lo ricordo.
Certo è che dopo i dovuti permessi delle competenti autorità scolastiche e senza neanche il mio aiuto (Enrico non solo era gioviale e molto intelligente, ma era dotato anche di una forza fisica non comune) riuscì a trapiantare il borrellano abete nel cortile del Liceo.
Ma, a occupazione tedesca finita, quando tornai a Lanciano per cercare di vendere in quei casolari di campagna alcune lenzuola e una coperta di famiglia (peraltro,senza riuscirci) per….sopravvivere, feci in modo di entrare in quell'edificio.. Ma trovai il cortile più arido e disadorno di un tempo. Nessuna traccia dell'abete che Enrico vi aveva orgogliosamente trasferito con tanta amorevole ostinazione e fatica. Anche quella pianta aveva perso la guerra!!!



Visita a Lanciano di un comune amico, reduce però, dalla campagna di Russia.

Allora ogni sabato non era un sabato qualsiasi, ma il “Sabato Fascista".
In quel giorno, tutti gli “Avanguardisti" e i "Giovani Fascisti" dovevano andare a “fare le istruzioni". A Lanciano si svolgevano lungo il Viale dei Cappuccini, dopo l'Editrice Carabba e il lanificio Tinari.
Sempre di pomeriggio.
In divisa, ovviamente. Anche armati di pugnale se ce lo avevi. Io ce lo avevo (lo persi poi, durante la macchia alla Cravara). Mi tornava utile la mattina del sabato quando invece, si andava a scuola. II Preside non voleva assolutamente quell'ornamento e ci cacciava via. Per alcuni di noi era l'antidoto contro temute" interrogazioni" alle quali non avremmo saputo far fronte. Le "istruzioni" consistevano in lunghe marce, in esercizi vari, in corse spesso disordinate e…ingloriose, nell'ascolto di altrettanti vanagloriosi discorsi e in tanti, tanti canti di vittoria certa pur nell'imminenza dello sbarco alleato in Sicilia (“ …. A Primavera s'apre la partita" erano le parole ricorrenti di uno di essi).
A proposito di canzoni, mi ricordo la parodia di un'altra. La intonammo dentro un capannone che fungeva da palestra quando il cattivo tempo non permetteva di tenerci all'aperto. Ricordo che il professore di ginnastica, un ex fornaio, che era non poco illetterato, ma che, comunque, era stato "squadrista e antemarcia", ci fece intonare, come di consueto, il ricorrente canto di vittoria. Siccome però, si era sparsa anche la voce che … paracadutisti alleati erano stati addirittura lanciati sulla Puglia (forse per sabotarne il famoso acquedotto), venne spontaneo a molti di noi di cantare i versi della nota canzone allora in voga: "Illusione, dolce chimera sei tu".
Per reazione, il professore, scelse sedici …. Incauti … scellerati tra le nostre file, annunciandoci che ci avrebbe fatto ritirare la tessera di “Avanguardista" e che, comunque, incredibile a dirsi, saremmo stati bocciati e rimandati a ottobre per la sua materia: la ginnastica! Questa l'atmosfera poco patriottica e schizofrenica, che si incominciava a vivere.
E fu proprio nel pomeriggio di un sabato, durante una pausa di quelle esercitazioni, che io e Enrico ci sentimmo chiamare a gran voce. Era Vincenzo di Luca (più conosciuto come Vincenzo del postiere), da non molto rientrato in Italia dopo il disastro della guerra in Russia. Non ricordo perché si trovava a Lanciano in quei giorni.
Ci raccontò, tra l'altro, di aver attraversato tutta l'Ucraina, di aver conosciuto la capitale Kiev, di aver prestato servizio nella "Sussistenza" (lui era cuoco), di aver dovuto partecipare alla distruzione, durante la ritirata, di tutti i viveri che avevano ancora a disposizione (compresi quintali e quintali di caffè(?)).
E fumammo, e questo me lo ricordo benissimo, una quantità di sigarette direi voluttuosamente, come dimostra la fotografia che allego: Ci mostrammo soddisfatti io e Enrico, anche se con le divise non proprio uguali (come si può notare, io avevo un paio di ghette, Enrico no), mentre Vincenzo aveva un pastrano che gli copriva quasi le scarpe.
Fu un bel momento. E la fotografia è un gran bel ricordo.



La morte del nonno

Enrico era risalito da San Martino. Entrò nella grotta, alla Cravara, dove eravamo rifugiati io, mio fratello Camillo,Tonino Beviglia e pochi altri (per me e mio fratello quel posto-macchia era il terzo.
Gli dicemmo subito di aver sentito lo scoppio di una cannonata o, piuttosto, di una mina, a distanza ravvicinata.
Col viso … "crudo", senza l'abituale sorriso, senza una lacrima, ci disse che era stato lo scoppio della mina che aveva ucciso il nonno.
Il vecchio, mentre attraversava quel breve tratto di terre rossicce (della contrada appunto chiamata “Amerosse"), non molto lontano dalla galleria della Ferrovia Sangritana, era incappato in una mina antiuomo. Le schegge, tra l'altro, gli avevano scoperchiato la sommità della fronte. Ricordo che con l'indice della mano destra ce ne indicò il punto.
Aveva riportato i resti al cimitero di Borrello. Non ci disse neanche con chi e come.
La sua … afflitta maschera ci trattenne dall'approfondire il racconto.
Mastro “Duminiche" era, se non mi sbaglio, di Castiglione. Aveva un carattere piuttosto burbero.
Era un bravo ebanista.
Quando andavo a casa loro, mi guardava con occhi appena, appena bonari, bassi e di traverso. Come per dire: "Ma quiste mò che vvò".
Ma Enrico gli voleva un gran bene. E lo dimostrava anche quando, con tenerezza, ne imitava le inflessioni dialettali …. Non borrellane.
Sorrideva, invece, il mio amico quando, in un'altra occasione, mi raccontò che un soldato tedesco aveva cercato, senza riuscirvi, di conficcare un chiodo nella “coccia'' della nonna. Sorrideva, evidentemente, perché l'energica nonna si era ben difesa e l'aveva scampata bella.



La spedizione dalla Cravara a Giuliopoli per un paio di scarpe - Il furto della prima uva.

In molti (i più giovani) vivevamo alla macchia già prima che arrivassero i tedeschi.
Avevo deciso di andare dalla Cravara a Giuliopoli a ritirare un paio di scarponcini.
Un calzolaio che abitava nella piccola casa di mio padre buonanima li aveva … approntati …. Per scontare l'affitto.
Ma non conoscevo bene le strade. Bisognava attaversare più boschi. A chi chiedere aiuto?
A chi se non a Enrico? Lo feci, a dir poco felice. E, con uno zaino per ciacuno, partimmo.
Calzai gli scarponcini nuovi e ripartimmo subito, anche perché nel paese avevano avuto sentore dell'arrivo dei tedeschi.
Mi accorsi che la strada del ritorno era diversa da quella dell'andata.
Uscimmo dai boschi su ampie campagne. Enrico incominciò a trotterellare. Cercavo di seguirlo alla meglio. Non mi voleva dire dove mi portava. "Dapù ti le diche, dapù ti le diche" mi ripeteva.
Capii quando incominciammo ad attraversare delle vigne. Ci fermammo in una vigna la cui uva ci sembrò più matura e abbondante.
Riempimmo gli zaini e ne mangiammo veramente tanta.
Ma qualcuno ci scorse. Forse il …. Padrone che incominciò a urlare e a rincorrerci.
Eravamo più giovani e lo distaccammo di molto. Ma continuammo a correre a perdifiato.
Ci trovammo su un'alta “macera". Sotto c'era un'altra vigna. Saltammo. Ma, mentre a Enrico andò tutto bene, a me un palo che reggeva una pianta, per poco non mi si “ficco" sotto il mento.
“Scappa, scappa ", mi diceva Enrico. "Forza, forza ca ti sì fatte soltante ne gragnelle sotta a le musse".
Quando arrivammo alla grotta-rifugio, gli zaini erano ormai pieni di "scricchiuojie". Ma non per questo, non ci fu chi non vi attinse a piene mani.
Dopo di che, mentre io giacevo svuotato di ogni forza, Enrico,come se fosse tornato da una semplice passeggiata, ridiscese subito a San Martino.






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