DON ALESSANDRO D’AURO
Uno dei cinque Borrellani vittime dei Massisti nel 1799

di Riccardo D'Auro

Quando Eugenio Maranzano mi privilegiò della lettura del manoscritto del capitolo del suo libro, riguardante l’eccidio di cinque cittadini di Borrello, avvenuto in Altino durante la Repubblica Partenopea, rimasi sgomento notando il nome di un D’Auro: il Dottor-fisico Don Alessandro D’Auro di anni 65, il più vecchio del gruppo. Tre degli altri sfortunati erano sacerdoti – Don Carlo e Don Giulio Zocchi, rispettivamente di 60 e di 39 anni, e Don Domenico Elisio di 33 – mentre l’ultimo, Silverio Zocchi, era uno studente ventenne. Erano deceduti per morte violenta il 22 febbraio 1799 e sepolti nella locale Chiesa di Santa Maria del Popolo. L’autore era venuto a conoscenza dell’eccidio essendo stati trascritti i loro atti di morte nei registri parrocchiali di Borrello. Proseguendo l’indagine sul posto egli seppe di qualche vecchio che aveva raccontato che i poveretti “si trovavano in quel paese presso la famiglia, sembra, di un compare” . Non si conoscevano altri particolari, in compenso venne in possesso delle copie degli atti di morte.
Nella zona fervevano le insorgenze delle masse, delle bande armate, vere accozzaglie di poveri sciagurati capeggiate da uomini violenti, masnadieri e ladroni, costituite all’appello dei Borboni per salvare il Regno. Una buona scusa per incrementare le loro insaziabili brame, un fine che spesso conseguivano perpetrando orrende stragi. E’ ciò che avvenne a Casoli e che influenzò anche le comunità vicine, compreso Altino in cui l’uccisione dei nostri cinque concittadini mosse soltanto la pietà della Chiesa ad accogliere i loro corpi.
Continuando le ricerche, Eugenio scoprì il ricorso di un certo Vincenzo Romerj di Chieti presentato nel settembre del 1799 in quella Regia Udienza. Fratello della signora Anna Luisa, sposata da Don Alessandro in seconde nozze e deceduta nel 1791, egli rivendicava i suoi diritti sull’eredità del predetto. Dichiarava che il congiunto era rimasto vittima dell’ “esegrando massacro, nel caduto febbraio, per opera di quel Barone Mascitelli di Atessa feudatario di detta terra di Borrello, contro cui armò le sue denuncie il supplicante in questa Regia Udienza”. Che era “rimasto deluso dell’acquisto della sua proprietà” della quale se ne era appropriata, senza alcun diritto, la sorella del de cuius. Il Romerj ritiene “che quella Corte del Borrello è sospetta, anzi sospettissima” dal momento che aveva esposto denuncia contro il Barone, come “ogni corte perciò rappresentante la Giurisdizione di detto Barone, servirebbe di un mezzo per scaricare l’inimicizia e l’odio derivante da sì terribile denuncia”.
La denuncia costituisce una grave accusa contro il feudatario, ma non fa luce sul movente dell’eccidio. Probabilmente le prove erano state fornite dall’esponente in prima istanza; ma il testo, di per sé poco chiaro, soprattutto su questo punto, non permette di capire bene se competente fosse stata la corte di Borrello. E’ certo soltanto che il Romerj vuole il riconoscimento del suo pieno diritto sui beni di Don Alessandro, forse minacciati anche dallo stesso Barone.

Il fatto è descritto da Maranzano nel suo interessante volume di storia “BORRELLO TRA I VICINI COMUNI DELLA VAL DI SANGRO

La scoperta aveva avuto su di me e i cugini D’Auro (1) un effetto sconvolgente e lo stupore si tramutò in una voglia morbosa di fare al più presto luce sui punti oscuri della vicenda. Bisognava cercare di capire anche il motivo che aveva determinato il misterioso silenzio delle famiglie delle vittime e della stessa comunità riguardo al clamoroso fatto; soprattutto il silenzio della nostra famiglia, in cui non è mai mancato qualcuno che ne abbia curate le memorie. La circostanza appariva sconcertante. Pertanto, era giusto porsi ogni genere di domande, riflettere e fare ipotesi, anche sul silenzio della Chiesa colpita così duramente.

Ma, alla fine del 1999, la pubblicazione del 2° numero di ”Particolari in Abruzzo – Rivista di storia del territorio abruzzese” edita da Tinari, ha parzialmente svelato il mistero dell’eccidio di Altino. Vi è riportata un’interessante ricerca della Dr.ssa Annamaria De Cecco, funzionario dell’Archivio di Stato di Chieti, intitolata: “La Valle nella tempesta – Testimonianze notarili sulla Repubblica Giacobina nel Sangro-Aventino” . Nella premessa l’autrice spiega come era stato vissuto dalle popolazioni di quelle vallate il torbido periodo della loro quasi totale sollevazione, in difesa del Borbone e della Religione, contro l’esercito francese ”figlio della Rivoluzione” . Ciò accadde quando esse si accorsero che a far osservare le innovazioni amministrative repubblicane imposte dai francesi venivano incaricati i rappresentanti delle stesse classi benestanti che avevano fino ad allora governato per conto della Monarchia. Uno sconvolgimento del sistema che il popolo giudicò potesse ulteriormente avvantaggiare i suoi secolari sfruttatori, quindi da combattere. Accorsero numerosi ad arruolarsi in formazioni scalcinate guidate da capimassa che per la maggior parte erano dei delinquenti comuni. La ventata di rinnovamento del sistema e delle riforme istituzionali, sollevatasi nell’inverno 1798/1799, si esaurì con l’imprevista partenza dei francesi. Ebbe così fine il grande sogno di speranza e di libertà accarezzato da una ristretta élite di uomini di cultura e del ceto più rappresentativo.
Nella seconda parte del testo sono riportate le testimonianze notarili alle quali fecero ricorso, con la restaurazione della Monarchia, quelli che erano stati coinvolti nella gestione della cosa pubblica per difendere il loro operato. Una di queste testimonianze, resa il 26 marzo 1799 ad un notaio di Rosello, modifica in parte la versione della morte di Don Alessandro e dei suoi sventurati compagni. Quattro probi cittadini borrellani, tra i quali “il magnifico Notar Don Francesco Antonio Carusi” ed “il magnifico Don Michelangelo D’Auro” , entrambi parenti del suddetto, dichiararono che gli sfortunati furono catturati il 19 febbraio a Borrello da una masnada di scellerati venuti da Altino, “senza sapersene il motivo” . Inoltre, che l’arciprete Don Domenico Elisio venne aggregato al gruppo la mattina successiva, quando furono spinti in marcia “per il loro destino” e che il sacerdote Don Carlo Zocchi ripeteva, a chiunque incontravano, che lasciava i propri beni ai nipoti, figli di Dario suo fratello germano. Dunque, a prescindere dalla vecchiaia e dalle sue malferme condizioni di salute, il reverendo sapeva che difficilmente sarebbe tornato. I testimoni non fanno menzione di che cosa erano stati incolpati, né della morte dei prigionieri, di cui, forse, non erano ancora informati, e si guardano bene di dichiarare che cosa effettivamente era accaduto a Borrello. Eppure il Notaio Carusi, come vedremo, il 14 febbraio, cinque giorni prima della cattura, aveva certificato un episodio connesso ai fatti stessi. Il silenzio si giustifica con la situazione caotica che in quel momento si viveva in tutti i comuni e che consigliava molta prudenza.
La squadraccia fece ritorno con i deportati ad Altino, località ubicata in un punto strategico, all’incrocio di strade e di fiumi con la montagna a ridosso, ideale per la difesa e per gli scontri, contigua a Casoli dove, forse, risiedevano i capi dei massisti. Da quei luoghi muovevano le spedizioni punitive contro i centri che avevano marcatamente aderito alla Repubblica, come i nostri vicini Pescopennataro ed Agnone in cui avevano innalzato anche l’albero della libertà..
Un altro particolare molto interessante, che fa luce sull’orribile crimine, risulta dall’attestato del predetto Notaio Carusi (atto erroneamente elencato nella piazza notarile di Chieti), riportato nel volume “Il 1799 in Abruzzo, Vol. I°, a cura di Miria Ciarma e Annamaria De Cecco” . Il Notaio certifica di aver sequestrato nelle mani di un corriere proveniente da Atessa, nella taverna di Borrello, su richiesta del camerlengo Clemente Di Luca, due lettere del Barone Felice Mascitelli dirette ad altrettante personalità di Napoli. In esse il mittente dava notizia dell’occupazione violenta del Feudo rustico di Pilo da parte di contadini armati ed esprimeva “ancora dubbi circa il pericolo di perdere titolo e feudo nel nuovo regime repubblicano” .
L’attestato costituisce una scoperta importante sul piano storico perché svela l’atto di forza compiuto dalla popolazione contro il potere feudale per il possesso della terra, bene necessario per la sopravvivenza. Avvalora, nel contempo, la supposizione che il Barone, per recuperarla, avesse con la sua influenza richiesto ed ottenuto l’intervento dei massisti.

Dobbiamo cercare, però, di chiarire altri dubbi:

Perché arrestarono tre dei quattro sacerdoti presenti a Borrello, un vecchio professionista timorato di Dio ed uno studente? C’era stato un loro diretto coinvolgimento nei disordini? Avevano, forse, collaborato coi Francesi? E se i massisti avessero ricevuto l’ordine di azzerare il corpo sacerdotale? In tal caso, come fece ad uscirne indenne l’Economo Curato Don Luigi Evangelista? Ma, cosa c’entrava in tutto ciò il giovane studente, ammesso che Don Alessandro avesse avuto un conto aperto con il Barone?

Erano delle persone ragguardevoli, è difficile, pertanto, che abbiano potuto istigare alla violenza. Potrebbe essere verosimile, invece, l’ipotesi di una loro collaborazione coi Francesi. Forse non direttamente, ma convincendo i cittadini più “illuminati” e la popolazione, cautamente anche dal pulpito, a cambiare il decrepito ed opprimente sistema istituzionale garante solo dei privilegi nobiliari. Appare, però, spropositata la condanna a morte, che secondo le testimonianze non venne comminata nemmeno in casi di collaborazionismo armato. Non sono portato a credere che il Barone abbia brigato per l’arresto dei religiosi. Don Felice Saverio, è sempre Maranzano che racconta, aveva avuto con il clero ottimi rapporti per i suoi quattro matrimoni, i battesimi che ne erano derivati e per la morte della terza moglie della quale Don Carlo Zocchi aveva raccolto l’anima benedetta.
Non ci resta che supporre, dunque, che quella gentaglia, adusa a compiere scellerate missioni, abbrutita dal vino e da ogni sorta di malefatte, avesse ceduto a bieche denunce di delatori locali, che vennero ritenute valide dai loro caporioni per la condanna a morte dei cinque.

Stando così le cose perché le famiglie hanno taciuto su questo crimine efferato, come se si dovesse coprire una grave ignominia commessa dai loro poveri congiunti? Il silenzio della Chiesa si spiega proprio per i loro servigi resi ai “Figli della Rivoluzione”. Perché con il ritorno dei Francesi, in primo luogo, e con la credibilità della giustizia successivamente, nessuno si adoperò per “riabilitare” le loro figure e per punire i responsabili (meglio, il responsabile) dell’eccidio? Il motivo va ricercato nella capacità di persuasione esercitata dal Barone, ancora potente con il cambiamento dei tempi.
Per quanto riguarda il silenzio della nostra famiglia resta l’amaro in bocca avendo i suoi componenti professato sempre principi laici e di giustizia. Il citato Don Michelangelo, in segno di ammirazione per l’Imperatore dei Francesi, impose il secondo nome di Napoleone al figlio Gabriele nato nel 1812.
La vicenda ha, però, ancora molti punti oscuri.

Comunque, il sacrificio di questi nostri emeriti concittadini deve essere visto come un puro atto di altruismo a favore dell’affrancamento del popolo oppresso e sfruttato dal sistema feudatario e borbonico. Essi sono da innalzare al piano dei numerosi Martiri, Figli del Sud, che si immolarono per la stessa causa. La loro morte, infine, aprì la difficile strada che portò all’Unità d’Italia.


Pescara, 2000/2003 - Gennaio 2007


(1) Don Alessandro discendeva dall’altro ramo della Famiglia che aveva come capostipite Marco. Era, quindi, cugino diretto degli Eredi di Diamante.


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