Il consuòlo un racconto di Cesare Palmieri (tratto dalla raccolta "Racconti Sangritani")
Carminuccio Cocciasecca s’era deciso finalmente ad andarsene all’altro mondo ed oramai giaceva ‘ndutaràt dentro la cascia, con le mani incrociate. Indossava un dignitoso vestito di terlici, già rivoltato nel ’27, la camicia bianca col solino alla coreana, le scarpe con la suola di cartone, dipinta di nerofumo e cinque lire in tasca per pagare il traghetto a Caronte.
Filippone, il falegname, (detto Chianuozzo per via della grossolanità dei suoi manufatti) era stato chiamato a casa dei Cocciasecca subito dopo che il vecchio aveva avuto un “colpo d’aria”. Gli aveva preso coscienziosamente le misure e, appena rientrato in bottega, gliel’aveva approntata; ma la cascia era rimasta per cinque anni nella cantina dei committenti, utilizzata temporaneamente come contenitore per le patate.
Sembrava che Carminuccio fosse sul punto di morire da un momento all’altro, perché il colpo l’aveva lasciato paralizzato in modo grave: tutto il lato sinistro, compresa mezza bocca. “E’ proprio spacciato” dicevano; ma il vecchio era rimasto aggrappato alla vita con un accanimento testardo e non mollava la presa, nonostante la gravità del male e le preghiere che la nuora rivolgeva quotidianamente, prima a Sant’Egidio, poi, vista la mancanza di risultati, a Gesù Cristo in persona, perché l’accogliesse finalmente fra le sue braccia pietose. Adelina non era una cattiva nuora, ma tutto ha un limite, che diamine! Per cinque anni lo aveva assistito, a letto, come si richiedeva ad una brava donna di casa: per cinque anni l’aveva lavato, cambiato, imboccato, girato continuamente per evitargli le piaghe da decubito, insomma tutto ciò di cui abbisogna un malato in quelle condizioni; ma la cosa che più le pesava erano quelle vagonate di scorie che lo sfintere insensibile del vecchio produceva in continuazione; nemmeno si fosse trattato dello sbocco d’una fogna! Esagerati in tutto, quei Cocciasecca! Tutti i giorni doveva recarsi al lavatoio pubblico, col canestro in bilico sul cercine, per lavare quelle pezze di lino, immonde e puzzolenti, mettersi sempre a valle della vasca, per evitare discussioni con le altre donne.
Ora se ne stava seduta su una sedia impagliata, accanto alla cascia, a sorbirsi le visite di circostanza del paese intero, che si aprivano e si concludevano con baci lumacosi sulla faccia; a sentire quella tiritera consolatoria fatta di “coraggio!”, “mi dispiace”, “è la volontà di Dio”, “proprio non doveva succedere”
“Ma quale coraggio! L’ho avuto prima il coraggio, non ora! Ci vuole il coraggio per vivere una vita normale?” E poi quel “mi dispiace!” non riusciva proprio a mandarlo giù “Ah, a voi dispiace!? Di cosa vi dispiacete? Perché voglio riappropriarmi della mia vita e lasciarmi dietro le spalle quell’esistenza merdosa che ho vissuta finora?”
Erano questi i pensieri di Adelina, davanti a quella schiera che le sfilava davanti; tutti con la faccia contrita, addolorati perché erano finite le sue tribolazioni. L’ultima mazzata glie l’avevano assestata le pie donne (che non si fanno mai i fatti loro), presentatesi in massa, la sera prima, per fare la veglia funebre ed impedirle, così, di buttarsi sul letto a farsi una pennichella ristoratrice. Anche quello stotico di suo marito, che durante la malattia di suo padre non le aveva mai dato una mano (“sono cose di donne” diceva, e poi ”aveva soggezione di vedere le nudità del padre!”) ci aveva messo il suo carico da undici. Prevedendo che nessuno avrebbe pianto per la dipartita, il grande uomo aveva fatto venire, dal paese vecchio, tre prefiche, le piagnone, coperte di fazzolettoni neri, e quelle scostumate invece di fingere di piangere, (lavoro per cui venivano pagate) avevano cominciato a raccontare aneddoti e barzellette sconce, sicché la veglia funebre era andata irrimediabilmente in vacca.
Non lontano dalla casa dei Cocciasecca, la comare ‘Ndunietta era indaffarata a preparare il ”consuòlo”, il pranzo consolatorio per la famiglia del morto. Si erano messe d’accordo in sette, tra parenti e comari, per stabilire il turno: i consuòli dovevano essere sette, perché dovevano durare fino al funerale dell’ottava. ‘Ndunietta si era offerta di essere la prima, un po’ per levarsi subito l’impiccio, il fastidio, ma soprattutto perché aveva una bella gallina grassa con la quale avrebbe potuto fare il brodo, obbligatorio per il primo giorno di dolore. Si era alzata prestissimo, aveva tirato il collo alla sua amata gallina, l’aveva accuratamente spennata, privata delle frattaglie e messa a cuocere nella grossa pignatta, insieme ad un pezzo di agnello ed un tocchetto di scalinata di manzo (per evitare che il brodo sapesse solo di pollo); infine aveva aggiunto il solito cipollotto ed il gambo di sedano. Aveva assistito la cottura come si fosse trattato di una creatura: all’inizio a fuoco lento, per dar modo alla carne di tirar fuori tutte le impurità, poi aveva schiumato quella jozza di risulta, perché il brodo restasse limpido, come acqua di sorgente. Tirata fuori la spianatoia di legno, l’aveva messa sul tavolo; al centro una duna di farina, vi aveva fatto un incavo col dorso della mano, rotto dentro cinque uova, messo un pizzico di sale e lavorato il tutto ben bene. Una sfoglia larga e sottilissima, quasi trasparente, era risultata dall’abile lavorio del mattarello e, dopo averla ripiegata più volte su se stessa, tric e tric velocissimo col coltello affilato, l’aveva tagliata in striscioline sottilissime. Infine aveva diviso quel salsicciotto in più sezioni e li aveva lanciati in aria, uno alla volta, con un vivace frullar delle dita. Quasi avesse operato una magia erano ricaduti sulla spianatoia vaporosi tagliolini biondo oro, come tante forconate di paglia matura. Nel circondario si diceva che i tagliolini di ‘Ndunietta facessero resuscitare i morti; al solo pensiero ‘Ndunietta rabbrividì: “povera comare” pensò “ci mancherebbe pure questa!”
Accertatasi che i parenti, finita la quarta sbaciucchiata, fossero già rientrati dal cimitero, riempì il canestro di ogni ben di Dio, lo coprì con una candida tovaglia di lino, se lo issò sulla testa e si presentò a casa dei compari. Apparecchiata la tavola, versò i tagliolini in un’enorme zuppiera e la mise al centro della tavola; coprì con un coperchio la spasetta col pollo e la mise al caldo vicino al fuoco; infine pose sulla tavola uno schiggiotto di vino e se ne tornò a casa sua, non prima di aver rinnovato le condoglianze a tutti.
L’atmosfera da funerale aleggiava ancora per tutta la casa. Adelina era esausta e non toccò cibo per la debolezza; il marito doveva mantenere un contegno da orfano e si astenne dal cibo; sua madre, che si era rimbambita da molto tempo, non aveva capacità di iniziativa se non veniva sollecitata; ogni tanto diceva: “chi z’è muort?”
Solo il nipote Micheluccio era in condizione di assoluta normalità. Era giovane ed aveva una fame da lupo; era anche, emotivamente, il meno coinvolto. Non che non volesse bene al nonno, ma voleva molto bene a sua madre e nella morte del vecchio vedeva la fine delle sue tribolazioni. Oddio, per la verità nonno Carminuccio, in vita, non era stato molto brillante; parlava sempre e solo della prima guerra mondiale e del Carso. Per dirla giusta, era anche un po’ taccagno: non si rendeva conto della svalutazione della lira e, ad ogni Natale, gli metteva in mano la solita moneta di rame, da due centesimi, con la raccomandazione di spenderli bene quei soldi, magari di metterli alla Posta. Diavolo d’un nonno! Cominciò a mangiare da solo e, un piatto tira l’altro, si spazzolò tutti i tagliolini della comare: ora aveva la sensazione che la sua pancia fosse sul punto di esplodere. “La gallina me la mangio stasera”, decise; ma aveva sbagliato le sue previsioni: in famiglia l’elaborazione del lutto era durata lo spazio di un pomeriggio. A sera, appena la gallina fu messa nel centro della tavola, otto mani frenetiche l’aggredirono senza riguardi e se la divorarono in un baleno. Il padre orfano afferrò infine la testa del pollo rimasta nel piatto di portata, divorò cresta e bargigli e nella foga ne succhiò perfino chi occhi.
Micheluccio guardò di sottecchi la nonna che gli sembrò alquanto malmessa. Tutto speranzoso accostò la sua testa a quella del padre e gli bisbigliò all’orecchio: -tà, pensi che la nonna sopravvivrà al dolore?-
Il padre sulle prime rimase perplesso, poi comprese dove voleva andare a parare il malandrino e lo incenerì con un’occhiata eloquente.
Nota dell’Autore: I personaggi hanno nomi di fantasia, ma si muovono in un contesto storico reale.
Questo racconto ha ottenuto il “riconoscimento di merito” al Premio Letterario Nazionale Civitaquana 2013
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