LA CONFUSA TRANSIZIONE DAI BORBONI AI SAVOIA DURANTE IL REGNO DI FRANCESCO II (FRANCESCHIELLO)

(tratto da Borrello tra i vicini comuni della Val di Sangro di Eugenio Maranzano)

I CONTADINI CONTRO I GALANTUOMINI CON LA COCCARDA TRICOLORE

I cosiddetti galantuomini liberali del profondo Sud appoggiarono con energia e ardore lo sbarco dei Mille e la loro avanzata verso Napoli.
Giunsero perfino a reclutare dei Corpi armati, approfittando della organizzazione delle Guardie Nazionali, la cui istituzione era stata concessa dagli stessi Borboni. E lo fecero non certo rivolgendosi alle masse contadine. Gran parte fu reclutata tra la borghesia, gli artigiani e gli operai. La Guardia Nazionale era un Corpo armato alla meglio col compito di mantenere l'ordine pubblico, oltreché di difendere le pubbliche libertà.
Vi facevano parte in maggior numero quei galantuomini ai quali ho accennato.
I galantuomini, o comunque una buona parte di essi, delle zone a Nord del Regno erano a loro volta in trepida attesa. Quando nell'agosto 1860 Garibaldi oltrepassò lo stretto di Messina per la incredibile conquista del resto del Regno di Napoli senza un vero esercito, a Borrello quasi tutti i galantuomini si erano fregiati della coccarda tricolore. I nuovi colori, per la verità, erano stati adottati con la nuova Costituzione concessa da poco da Franceschiello (il Re Francesco II).
Ma la massa contadina non vide di buon occhio la decisione dei Galantuomini. Per i contadini quella coccarda, i cui colori, ad ogni modo, erano gli stessi della nascente Italia, era indice di intenti rivoluzionari e, quindi, di innovazione e sovvertimento delle cose. E, poi, chi erano coloro che costituivano la Guardia Nazionale se non, in gran parte, i galantuomini, i professionisti, i possidenti, liberaleggianti che, tra l'altro, avevano interesse a tenere i contadini quasi soggiogati? E con le tasse, poi, come sarebbe andata a finire? Non sarebbero state aumentate a loro danno?
Questi erano i dubbi e le convinzioni dei contadini. Confermate, del resto, nel corso del processo per i fatti relativi alla barbara uccisione del giovane avvocato Giuseppe Calvitti di cui dirò nel capitolo che segue. Valgano due testimonianze, rese in quell'occasione, a confermare quanto sopra detto.
Gabriele d'Auro, per esempio, premesso che (evidentemente per prendere le distanze dai fatti) si trovava "in un angolo del paese", da dove sentì il "chiasso" della sommossa popolare dove apprese della morte del Calvitti, cercò di spiegare così i motivi di quanto accaduto: "Da lungo tempo correva voce a Borrello di una sommossa popolare per abbattere Lo Stato dappoichè nel contadinismo prevaleva il falso principio che le novelle istituzioni fossero dannose per i poveri".
Il d'Auro aveva 48 anni ed era uno dei proprietari del paese.
Un altro testimone indubbiamente perspicace, nonostante la giovane età (aveva soltanto 21 anni), anch'egli proprietario e membro della Guardia Nazionale, Francesco Spagnuolo, disse a sua volta che: "Dopo pubblicato lo Statuto Costituzionale, cominciò a sussistere un certo malcontento dei contadini" (ignorando da chi poteva provenire). Questi "credevano che tali novelle istituzioni dassero al galantuomismo del paese maggior forza per opprimere essi contadini, e lo sdegno maggiormente si aumentava vedendo sui proprietari i nostri colori italiani e le voci corse sul conto di Calvitti di essere un emissario del Generale Garibaldi".
Perciò, quella coccarda venne considerata peggio del fumo negli occhi, come annunzio di cambiamento dannoso. Eppure erano i colori, come già accennato, che Franceschiello aveva indicato nella nuova Costituzione emanata da Portici il 25 giugno di quell'anno. Il Re, che il padre aveva sempre chiamato "Lasa" (da lasagna, per il suo carattere molle e per la sua indolenza), l'aveva concessa a malincuore su pressione della tenace moglie di Carlo Filangieri (Generale, pensatore politico e suo grande consigliere), nonché di Papa Pio IX. Allo scopo evidente di smorzare gli animi dei liberali.
Recita, infatti, il punto 4° di quell'atto sovrano: "La nostra bandiera sarà d'ora innanzi fregiata dei colori nazionali in tre fascie verticali (rosso, bianco e verde) conservando sempre, nel mezzo, le armi della nostra Dinastia". Ma neanche il riferimento di quella innovazione alla sicurezza e prosperità in avvenire, e l'intento di adeguare le istituzioni a quelle degli altri popoli, destarono entusiasmo tra gli illiberali e gli illetterati. Anzi, si può dire che proprio di questo avevano paura.
Accadde così che quelle piccole strisce tricolori furono causa di sanguinose sommosse un po' ovunque.
A Borrello una prima avvisaglia di ribellione si manifestò il 15 agosto 1860, giorno della Madonna. Ci andò di mezzo Don Annibale Simonetti (agrimensore, come abbiamo già visto), di ritorno da Villa Santa Maria dove si era recato per la fiera.
Lungo la strada per Borrello (preceduto dal "pedone", un ragazzo che gli guidava il cavallo) incontrò i compaesani Antonio del Pesco, Domenico Antonelli, Nicola Antonelli e Vincenzo Antonelli. Giunti che furono nella contrada Colle Rosso (oggi Lame Rosse) Antonio del Pesco si ricordò di aver lasciato del baccalà nella Masseria di Felice di Luca, dove poco prima si erano fermati per "rinfrescarsi". Pregò, perciò, don Annibale di mandare il suo pedone a riprendere quella roba. Il del Pesco si fermò ad aspettare il ritorno del ragazzo, mentre il resto della compagnia proseguì il cammino. Proprio al Colle Rosso, dove la strada è lambita dal fiume Sangro, Vincenzo Antonelli si voltò all'improvviso e "preso per il petto" Don Annibale, gli intimò di togliersi la coccarda tricolore che aveva sul cappello in quanto Guardia Nazionale, aggiungendo che "quel segno era rivoluzionario e che assolutamente doveva toglierlo". Povero Don Annibale per salvarsi "dalle male intenzioni dell'aggressore" farfugliò che ciò "era voluto dal Governo e che aveva dovuto mettere quel nastro per ordine del Tenente della Gendarmeria di Villa Santa Maria". E così, alla fine, precisa l'aggredito nella sua denunzia inviata al Giudice Regio, "fui lasciato in pace, ma con timore sempre di essere precipitato nel fiume, mentre il Vincenzo a bella posta prescelse quel luogo per farmi tale affronto". In seguito Don Annibale accusò Vincenzo Antonelli di aver detto anche che "se l'Arciprete locale avesse predicato per la terza volta a favore della Costituzione", lo avrebbero cacciato. L'Antonelli, invece, dichiarò, ovviamente, che non l'aveva minacciato, ma... semplicemente consigliato di togliersi la coccarda, potendo questa "eccitare una rivolta nel paese".
Il fatto dà la misura dell'atmosfera politica che si era già creata a Borrello e che diciotto giorni dopo sfociò nel barbaro scempio di Calvitti.


 
 
L'ORRENDO ASSASSINIO DELL'AVVOCATO GIUSEPPE CALVITTI A BORRELLO NEL 1860


 

Come ogni anno, il 1° e il 2 settembre si festeggiavano a Borrello Sant'Egidio, Patrono e Titolare della Parrocchia, e la Madonna. C'era la Banda di Casalanguida, costituita da venti elementi diretti dal trentenne maestro Crisante del Cioppo, il quale rese la più viva e lunga deposizione sui fatti.
I festeggiamenti per divertire la popolazione e i forestieri accorsi, come l'esibizione della Banda e le corse degli uomini e degli asini, si tenevano al "Largo Garenna".
Questo luogo appena al di là delle vecchie mura di cinta e che si estendeva fin quasi alla Chiesa di Sant'Antonio, è conosciuto dalle nostre generazioni come Carenna, senza mai averne saputo il significato. È da ritenere, invece, che il nome corretto sia quello con la "G" iniziale derivante evidentemente dalle Gare che vi si tenevano.
Il giorno di Sant'Egidio in quegli amplissimi spazi non si verificarono violenze. Si notarono soltanto borbottii e malumore contro coloro che avevano fregiato il proprio cappello con la coccarda tricolore. Le Guardie Nazionali, però, erano state allertate e una cinquantina di esse, divise in pattuglie, perlustrarono le vie per il mantenimento dell'ordine pubblico. Non accadde niente. Da ricordare che il Re Francesco II e la Regina Maria Sofia erano ancora a Napoli. Dalla Capitale si sarebbero poi recati a Gaeta (per resistere ai Garibaldini e ai Piemontesi). Se ne andarono il giorno prima che Garibaldi entrasse a Napoli, cioè il 6 settembre.
Il 2 settembre, giorno dei festeggiamenti di Maria Santissima, verso le ore 21, una gran folla e anche molte Guardie Nazionali erano ancora presenti nella Garenna. A un certo momento il Sindaco Don Carmine Palmieri, il Comandante in capo della Guardia Nazionale Don Federico Spagnuolo, e qualche altro tra i galantuomini, furono avvertiti dal "Servente" comunale, Giuseppe Napoleone, che, a poca distanza, sul Colle Carbonaro (la parte più alta della Garenna) si era riunito un certo numero di cittadini, tra cui molti giovani tumultuanti, armati di pali di legno, accette e roncole. Le corse degli uomini e degli asini erano ormai terminate. Accorsero le Guardie Nazionali nella speranza di poterli disperdere e riportare la calma. Una delle Guardie, il medico Don Anselmo di Nardo, si fece avanti invitando quei giovani a ritirarsi "dinotando a essi che mai a Borrello si erano fatte le cose con le armi alla mano". Nessuno si mosse, ma una voce, non individuata, gli gridò che volevano uccidere tutti i galantuomini. Cosa che costrinse Don Anselmo a puntare il proprio fucile contro il gruppo di scalmanati. Antonio del Pesco, Capo Sezione della Guardia Nazionale, che accompagnava Don Anselmo, si scagliò contro uno dei giovani per disarmarlo della scure. Ma si ferì in modo piuttosto grave, tanto da pregare Don Anselmo di portarlo a casa sua per le medicazioni del caso.
Mentre ciò accadeva, Vincenzo Cavallaro gridò per primo: "Viva il Re". E allora tutto il popolo si infiammò e si "ammutinò", ripetendo freneticamente l'Evviva. La massa incominciò a far indietreggiare le Guardie Nazionali a molte delle quali fu strappata e buttata via la coccarda tricolore e imposto di gridare: "Viva il Re".
Il giovane avvocato Giuseppe Calvitti di Pescopennataro (Is), ma residente allora a Villa Santa Maria, si trovava a Borrello. Era seduto in quell'istante davanti alla casa di Pietro e Vincenzo Mariani. Dalle numerose testimonianze emersero i motivi più vari sulla sua presenza nel paese: per godersi semplicemente la festa; per ragioni attinenti la sua professione di legale; per assoldare uomini necessari all'esercito di Garibaldi che era sul punto di entrare a Napoli. Forse la ragione era quest'ultima, se è vero che, come confidò un compaesano, aveva già contattato qualcuno con successo. Ma era sufficiente per la massa contadina che il giovane avvocato fosse anche soltanto antiborbonico.
E quei contadini che ancora oggi ricordiamo per il loro motto "La coccia a le cippone, ma viva Francische" (La testa sotto la mannaia del boia, ma Viva Re Francesco), si misero alla sua caccia. Assaltarono subito due case in cui ritenevano che si fosse rifugiato con altri galantuomini. Quella di Pietro e Vincenzo Mariani dove, al grido di "Viva il Re e Abbasso la Costituzione", reclamarono il loro ricercato e incominciarono a divellere porte e finestre. Salirono addirittura sul tetto per scoperchiarlo. L'altra di Arcangelo Spagnuolo con lo stesso trattamento. Qui se la presero col maestro della Banda musicale che vi si era rifugiato. Uno degli assalitori, però, forse anche per sdrammatizzare la situazione, disse che la sera prima aveva riconosciuto la "suonata fatta dalla Banda". Si trattava del "Bivacco", una "suonata che era contro il Tedesco". Lui se ne intendeva -aggiunse- perché era stato un soldato del 1848.
Poi si accorsero del resto della folla che, invece, si dirigeva verso la casa di Don Domenico di Nillo, dove effettivamente il Calvitti aveva chiesto rifugio e protezione. L'abitazione del di Nillo sorgeva vicino al Palazzo Baronale, nell'attuale Piazza Marconi, dove è adesso il garage di Vincenzo Croce. (1)
I caporioni, con la turba ormai fuori senno, si erano ammassati in quel punto e tra le ricorrenti grida di "Morte a Garibaldi e Vittorio Emanuele" e "Viva il Re e Abbasso la Costituzione", urlarono al padrone di casa di far uscire... l'ospite se voleva evitare l'incendio della casa. Don Domenico e il figlio affacciatisi al balcone, cercarono di calmare la folla. Dentro, intanto, il Calvitti voleva difendersi ad ogni costo sparando dalle finestre. Il padrone di casa non solo glielo impedì, ma lo costrinse a uscire, consegnandolo così al furore della massa. E secondo la testimonianza di Don Michele Melocchi, Sacerdote di Pizzoferrato, che si trovava a Borrello per le feste, il di Nillo cacciò via il perseguitato senza alcuna pietà. Raccontò, infatti, l'Arciprete Melocchi che il di Nillo gli gridò: "Esci via, ladro fottuto"... Comportamento questo che lo indignò al punto di allontanarsi frettolosamente da quella casa dove anch'egli aveva chiesto ospitalità. Appena apparso sulla porta, il povero Calvitti ricevette un primo colpo con una mazza di legno. Visto che le sue grida di invocazione erano inutili si divincolò e si precipitò correndo per Via di Pocafarina. E corse, corse, inseguìto da una folla enorme; enorme anche di donne e ragazzi. A perdifiato giù per le viuzze che precipitano quasi verso il cosiddetto Cantone di Marcello (una enorme roccia a torre: le "Candone de Marcielle"), all'imbocco della mulattiera per la contrada Chiusa che porta alla Fonte della Cannella, alle Coste Fosche, al Verde, alle Lame Rosse, a San Martino e Villa Santa Maria. Doveva essere quest'ultima la sua meta.
Ma dopo poche centinaia di metri, quella corsa disperata verso la vita si trasformò in viaggio precipitoso verso la morte. Raggiunto dai più inferociti ricevette i primi colpi di scure. Fu Donato O. a vibrargli il primo fendente quando ancora era sulla strada. Fuggì, fuggì sempre più stremato. Saltò un terrapieno e corse ancora fino ad arrivare sfinito dentro l'orto di Ferdinando Zocchi. Inseguito come una belva, fu raggiunto ancora e colpito barbaramente con pali, accette, roncole e pietre, mentre tanta gente da poca distanza assisteva al misfatto. Un campionario di armi lo massacrò quando era ancora in ginocchio. Così rese l'anima a Dio il giovane avvocato Giuseppe Calvitti.
In particolare, fu ucciso dalla stupida arma dell'ignoranza e da non pochi colpi decisivi sulla testa e sulla nuca. Impressionanti i risultati dell'autopsia praticatagli qualche giorno dopo. Ecchimosi a non finire sul volto; l'arco orbitale superiore dell'occhio destro fratturato con perdita del bulbo oculare; tagli alle spalle e alle braccia, profondi fino alle ossa; frattura dell'osso parietale sinistro e riduzione dell'osso occipitale in minuti frammenti e "il sottoposto cervello non più esistente".
Accorse - è da ritenere - anche l'Economo Curato Don Diomede Simonetti per l'ultimo conforto nel passaggio dalla Terra al Cielo. Si legge infatti, nella registrazione di morte che ne fece: omissis, "venne miseramente ucciso nell'orto di Ferdinando Zocchi sito appié di questo abitato sulla via che conduce a Villa Santa Maria, la sera del 2 settembre verso le ore 22, DANDO SEGNI DI CRISTIANO SENTIMENTO".
Erano stati principalmente tre a fare... il grosso del lavoro. A loro si aggiunsero altri quando il Calvitti dava ancora flebili segni di vita, colpendone il corpo già martoriato con pietre. Uno in particolare, giunto con un po' di ritardo perché si era trattenuto più del solito in campagna, volle mettere... la firma su quella scelleratezza, vibrandogli più colpi con un palo e finendolo con una grossa pietra sulla testa. Non soddisfatti depredarono la vittima del denaro che aveva nel gilè (sei ducati, all'istante divisi tra di loro), della pistola, di molti documenti, di un coltello "a piega" e di un anello "con corniolo". Non risultò vero che, come si diceva, gli avessero tagliato il dito per rubargli l'anello. Ma ci fu un paesano che gli staccò sinanche un bottone dalla camicia. Chiese subito a qualcuno quanto poteva valere! L'autore del furto dei documenti dichiarò al primo interrogatorio che li aveva presi per... conservarli.
Lasciato il cadavere laggiù, risalirono tutti in paese. E continuarono a modo loro la sommossa. Imposero al Sindaco di far rimettere lo stemma borbonico sul Corpo di Guardia da dove era stato tolto qualche giorno prima per l'ordinaria manutenzione (?). Poi presero dalla Cancelleria comunale le effigi di Re Franceschiello e della Regina Maria Sofìa e "processionalmente" si recarono ancora furiosi nella Chiesa Parrocchiale, gridando i soliti "Viva il Re e Abbasso la Costituzione". Fecero suonare alla Banda durante il percorso I'Inno borbonico nello sventolio della vecchia bandiera, quella vera secondo loro, priva, cioè, delle strisce del tricolore italiano previsto, come già ricordato, dalla recente Costituzione del Sovrano Francesco II. Una volta in chiesa, pretesero che l'Arciprete officiasse un solenne "Te Deum". Era troppo! Il Sacerdote riuscì ad accontentarli con la sola benedizione. Usciti dalla chiesa, costrinsero la Banda musicale a suonare anche una Tarantella napoletana "e in confusa massa si ballò". Nella minuziosa testimonianza del maestro di musica si sente quasi l'affanno dei suoi bandisti costretti a tanta continua fatica tra accette e roncole, tra pali e fucili. E sì, perché non pochi rivoltosi erano armati anche di fucili.
Verso mezzanotte, mentre il cadavere dell'avvocato garibaldino giaceva ancora caldo sotto il cielo di un tiepido settembre, sparsero un'altra ondata di terrore per le vie e le case del paese. Infatti, nel timore di una controreazione degli odiati galantuomini e delle Guardie Nazionali, su suggerimento di Vincenzo Cavallaro (il quale, però, non risultò implicato direttamente nel delitto), una quindicina di quei caporioni fecero irruzione nelle case di molti compaesani e con violenza sequestrarono le armi in loro possesso.
Furono momenti terribili. Tanto accadde, per esempio, anche a casa dei miei antenati
(tuttora esistente in Via Marsica, n.7) dove si trovavano il vecchio medico Don Giocondo e i figli Don Anselmo, medico anche lui, Don Antonino, legale, e Don Ermanno, Sacerdote, col resto della famiglia nascosta in altre stanze. Pretendevano due fucili, ma fecero loro credere che un'arma si trovava nel Casino di campagna al di là del fiume, vicino al Parello. Fu veramente una notte di terrore. Basti pensare che qualcuno degli assalitori aveva ancora le mani sporche del sangue dell'ucciso.
Poi si recarono sotto la casa di Don Domenico di Nillo (da dove la vittima era stata costretta a fuggire) e "con alte grida" costrinsero suo figlio a uscire, proclamandolo, all'istante e in mezzo alla strada, nuovo Capo della Guardia nazionale. Recatisi, infine, nel Corpo di Guardia, fecero fare dal nuovo Comandante "il notamento" (inventario) delle armi sequestrate.
Quella notte stessa il Sindaco Carmine Palmieri (di anni 47) e lo spodestato Capo della Guardia Nazionale, Federico Spagnuolo, inviarono la loro Relazione sul fatto accaduto al Giudice Regio (ancora borbonico) di Villa Santa Maria. I due personaggi concordarono, evidentemente, cosa dovevano raccontare al Giudice, senza preoccuparsi neanche di farlo con parole e stile diversi. Infatti, anche se può sembrare incredibile, le due relazioni sono identiche nel contenuto e nelle parole.
Per quanto si possa giustificare, stante la fretta e la particolarità del momento, la sommarietà della loro Relazione, resta, tuttavia, incomprensibile la incompletezza della elencazione dei fatti avvenuti. Non facevano nessun accenno: al disarmo violento dei galantuomini; alla processione con l'effige dei Reali borbonici; alla funzione religiosa alla quale avevano costretto l'Arciprete; al dispregio delle coccarde tricolori; alle altre intimidazioni. Il giorno successivo, di fronte al Giudice Regio che si era recato a Borrello con encomiabile rapidità, quel Sindaco si spinse a raccontare di più, ma non ancora tutto. Continuò a tacere sui motivi che avevano indotto le Guardie Nazionali ad armarsi. Anzi, ne dice uno alquanto poco credibile: erano armati "perché avevano assistito alla corsa dei somari e degli uomini". (?)
Quando giunse col Capo delle Guardie Nazionali nel Largo Garenna, vide tanta confusione e gente armata di scuri, roncole e pali, senza conoscerne i motivi. Pur essendo Sindaco, non si fece avanti per vedere meglio, accertarsi, convincere alla calma. Non mosse un dito. Non ci provò nemmeno. Anzi, appena vide fuggire tante persone in varie direzioni, pensò bene di imitarle. Davanti a lui fuggiva pure Giuseppe Calvitti (ma questi a ragion veduta). Per il resto - continua nella sua esposizione - fermatosi davanti a casa sua, chiese a tanti cittadini cosa stava accadendo. Finalmente qualcuno lo informò delle vicende tragiche del Calvitti, della sua fuga, cioè, dalla casa dei di Nillo per Via di Pocafarina "inseguito da più centinaia di contadini di diversa età e sesso". Tutto per sentito dire. Vide però, bontà sua, rientrare la gente in paese e seppe della morte del giovane avvocato. Raccontò che la folla gli fece gridare "Viva il Re" e che gli impose, come già abbiamo visto, di rimettere sul Posto di Guardia lo stemma reale. Vide la folla in processione verso la chiesa con la Banda in testa e sentì la funzione dell'Arciprete, "funzione che non conosceva". Non una parola, neanche questa volta, sul violento disarmo dei galantuomini. Infine, insistette nel dire che non conosceva affatto il motivo "dell'ammutinamento", ma che, per quanto più o meno aveva potuto sapere, "un certo malcontento era surto nell'animo dei contadini per le notizie sfavorevoli al Re, che si leggevano da galantuomini sui giornali, e poi si spacciavano".
Non aggiunse ciò che poi dissero quasi tutti e cioè che il Calvitti era fautore di Garibaldi e che forse andava reclutando gente per il suo esercito. Anzi insistette sull'ipotesi, evidentemente per spoliticizzare il più possibile il fattaccio (ammazzando così per la seconda volta il povero Pescolano), che contro di lui molte famiglie di Borrello "nutrivano odio per truffe e tradimenti commessi ai clienti nell'esercizio della professione di legale". Qualcun altro sostenne, invece, che Calvitti ebbe quella fine non tanto perché era andato a Borrello per arruolare volontari per Garibaldi, quanto perché curava gli interessi del Comune di Pescopennataro contro molti Borrellani che avevano causato danni nel bosco di quel paese.
Il Sindaco Carmine Palmieri non fece il nome di una sola delle persone che pur aveva visto e incontrato e con le quali aveva parlato. E tanto meno di quelle che avevano iniziato il tumulto, perché - disse - "il tumulto incominciò repentinamente, e egli, compreso dal timore e confusione, non avvertì (non vide) le persone, ecc.". Quanto, poi, a conoscere se prima dei fatti, vi fosse stato "un qualche concerto" (accordo segreto) tra cittadini, una congiura, una preparazione, neanche a parlarne. Non ne sapeva niente. Figurarsi poi, il nome degli autori materiali del delitto. Cosa del resto, proprio impossibile "giacché il Calvitti fu inseguito dalla maggior parte di questa popolazione e tutti con animo di privarlo della vita".
Difendeva così la sua "massa" quel Sindaco nei cui comportamenti è difficile non ravvisare pusillanimità, reticenza e omertà oltre ogni ragionevole giustificazione. Non omise di ricorrere, come sopra visto, all'eterno: "tutti colpevoli, nessun colpevole".
Le cose, però, si misero diversamente.
La Giustizia intervenne con incredibile celerità. Eppure quei Magistrati facevano ancora parte del Corpo Giudiziario dell'ancora legittimo Re Borbone. Il giorno 4 settembre già due "Periti sanitari" avevano proceduto all'autopsia sul corpo dell'ucciso. La richiesta in questo senso era stata inviata al Giudice Regio di Villa Santa Maria con la seguente lettera del giorno prima: "Signore, il furore popolare avendo massacrato Don Giuseppe Calvitti, La prego favorire qua coi professori sanitari per procedere a quanto di legge". Firmato: "il facente funzione da Sindaco Antonio di Nunzio". Si noti... la latitanza del Sindaco.
Lo stesso giorno 4 il Giudice Istruttore di Lanciano ricevette il primo lungo rapporto sui fatti dal Giudice De Fabritiis del Circondario di Villa Santa Maria. Il giorno 6 il De Fabritiis veniva rassicurato che sarebbero stati inviati sul posto 40 Gendarmi "per eseguire i suoi ordini". Nella stessa data l'Intendente di Chieti invitava il Giudice Istruttore di Lanciano a occuparsi con la massima celerità "della Istruzione a carico degli avvenimenti, all'arresto dei principali promotori dei disordini e a quanto necessario per il ripristino dell'ordine pubblico". A questo fine disponeva che "una imponente forza di Guardie Nazionali di Lanciano, San Vito, Villa Santa Maria, Guardiagrele e Gesso Palena piombi subito sopraluogo insieme a un forte distaccamento di Gendarmeria sotto il comando di un Capo Compagnia della Guardia Nazionale di questa città" (Lanciano).
Il 7 settembre Borrello veniva posta in stato d'assedio. Il 13 successivo, Raffaele de Novellis, Maggiore Comandante di tutte le forze stanziate nel paese, aveva già interrogato diecine e diecine di persone e arrestatene una ventina. In quei giorni Garibaldi era entrato a Napoli (il 7) e si avviava verso la battaglia del Volturno.
Gli arrestati furono inviati tutti a Villa Santa Maria dove si era trasferito il Giudice
Istruttore di Lanciano. Li accompagnò, dopo averli ammanettati, Domenico de Francesco (di anni 43), napoletano, Caporale della Seconda Compagnia, 3° Battaglione, di stanza a Lanciano. Nella lettera che accompagnava il documento contenente gli interrogatori, il Maggiore faceva rilevare che: "Questa è gente caparbia e scellerata. E mi pare che già si sia accodata per timore o altro motivo di tacere!". Aggiungeva che "non tutti gli imputati ho potuto trasferire in carcere, perché i principali già consapevoli del tristo fatto che li aspetta si erano dati alla fuga prima della mia venuta". E poi ancora: "Il breve spazio di un giorno e le molteplici e svariate cure nelle quali sono involto, non mi hanno permesso di fare la cernita fra i catturati. Perciò ve li invio tutti e reputerei buoni provvedimenti se tutti voleste inviarli alle carceri di Lanciano per meglio riesaminarli". Concludeva precisando che sarebbe ripartito lo stesso giorno con le Compagnie di San Vito e Lanciano via Gesso Palena, non senza raccomandare di spiccare mandati di cattura per i fuggiaschi, "inviandone gli ordini al Tenente della gendarmeria che lasciava a Borrello".
Alla fine di settembre il numero degli imputati era salito a 51, di cui soltanto venti erano stati assicurati alla Giustizia. Tutti gli altri erano latitanti.
In una sua lunga esposizione dei fatti, il Giudice Istruttore F. Pasqualucci precisava a sua volta: "dagli stessi interrogatori degli imputati che trovansi in carcere chiara risulta la reità dal perché ciascuno addebitava al compagno di aver preso parte attiva nel dinotato omicidio e negli altri reati in esame". Riportava tra le altre testimonianze, la deposizione del Sacerdote Don Diomede Simonetti contro Don Federico Spagnuolo, Capo della Guardia Nazionale di Borrello. Si trattava di un'accusa gravissima che avrebbe poi indotto il Giudice competente a un supplemento di istruttoria sul conto dello Spagnuolo.
Dichiarò, infatti, Don Diomede "risultargli che detto individuo sia stato l'organizzatore della reazione". Secondo lui (siamo ormai al 30 settembre 1860 e Re Francesco II era praticamente decaduto pur resistendo eroicamente ai Garibaldini): Federico Spagnuolo era stato spia del passato Governo; aveva tollerato che gran parte delle Guardie Nazionali ai suoi ordini si fregiassero della coccarda tricolore pur sapendo che i contadini in particolare "ne erano risentiti"; non aveva attivato la Guardia stessa per sorprendere coloro che nelle notti precedenti avevano scagliato pietre alle finestre del parroco locale "per insultarlo"; aveva, infine, "mostrato buon viso a Vincenzo Antonelli il quale aveva fatto sapere a quell'Arciprete che se avesse predicato in Chiesa per la terza volta a favore della Costituzione, lo avrebbero espulso!". Nel riferire sul supplemento d'istruttoria disposto per queste gravi accuse, il Giudice Istruttore diceva però: "s'ignora se lo stesso (il Capo delle Guardie Nazionali) sia stato l'organizzatore dell'eccidio; non vi prese parte attiva, perché se ne fuggì con gli altri galantuomini".
Fu, invece, accertato che Don Federico Spagnuolo "non era in armonia con Don Diomede Simonetti, con l'Arciprete, con Don Annibale Simonetti e con altri".
A questo punto è doverosa una precisazione che può ribaltare completamente la convinzione dei Borrellani che ancora oggi ritengono promotore occulto della sommossa l'Arciprete Don Michele Franco, titolare della Parrocchia dal 1845. Era lui e nessun altro, stando ai documenti, l'Arciprete della Chiesa Madre. Don Diomede era soltanto Economo Curato. Quando parla del parroco che era stato minacciato perché dall'altare parlava a favore della Costituzione e che nelle notti precedenti al misfatto aveva avuto le finestre rotte da un lancio di pietre da parte di ignoti, lo fa in terza persona. Peraltro, Don Michele risulta come testimone a carico, insieme con molti altri, contro S.D. accusato di aver partecipato direttamente alla barbara uccisione del Calvitti. Vero è che nel 1861 pensò bene di tornarsene a Rionero Sannitico, suo paese natale, dopo che - si racconta - una grossa pietra (una "chianca"), lasciata cadere intenzionalmente da un tetto, gli aveva sfiorato la testa. Ma è inverosimile ritenere che un attentato del genere, se di questo si trattò, fosse stato messo in atto dai galatuomini. Ad ogni modo, nessun testimone affacciò mai il dubbio che Don Michele Franco avesse "concertato" per lo scoppio di quella nefasta reazione.
Un'altra "credenza" da sfatare è quella che ci ricorda Donna Lucia Salvi (vedova del medico Andrea Caruso) come la salvatrice di Borrello in quell'occasione. Si dice, infatti, che per le sue buone intercessioni presso il Comandante dei militari inviati sul posto, avrebbe scongiurato il sacco e l'incendio del paese ordinato come punizione per il massacro commesso. No. Proprio no. Come abbiamo visto (dai documenti processuali esistenti), non furono mai dati ordini del genere. È da ritenere, perciò, che gli interventi di Donna Lucia valsero forse, se vi furono, ad attenuare la severità verso la popolazione.
I capi di accusa contro gli imputati erano pesantissirni:

1) Attentato e cospirazione, aventi in mira di distruggere la forma di Governo;
2) Attacco, resistenza e vie di fatto contro gli agenti della pubblica forza;
3) Omicidio volontario in persona di Don Giuseppe Calvitti;
4) Furto qualificato con violenza in danno dello stesso
.

Della cinquantina di imputati iniziali, il vaglio della Giustizia ne lasciò liberi parecchi, perché non colpevoli o per mancanza di prove sufficienti.
Poi, dopo ulteriori accertamenti, nel dicembre 1860, dei venti accusati rimasti, molti furono anch'essi rimessi in libertà, perché non implicati direttamente nel delitto o perché nei fatti commessi non si rinvennero neanche gli estremi dell'attentato e cospirazione di cui al primo punto dei capi d'accusa.
La causa, pur trattandosi di fatti politici e penali, andò per le lunghe. Tuttavia, senza intoppi e scosse pur agendo ormai Magistratura e Forze dell'ordine nel periodo di transizione tra il vecchio Regime Borbonico e la Nuova Italia. A un certo punto le intestazioni degli atti processuali (il processo si svolse a Lanciano e all'Aquila) quasi si accavallarono nel riferimento ai due Re: "Francesco II, Per la Grazia di Dio Re del Regno delle Due Sicilie" e "Vittorio Emanule II, Per Grazia di Dio, e per volontà della Nazione Re d'Italia". Per tre rivoltosi la colpevolezza nell'omicidio e nel furto apparve subito inconfutabile. Per gli altri, tra prima condanna, appello e assoluzione le cause si protrassero fino al 1864.
Donato O., di Domenico, detto "Falso", Nicola E., detto "Campolacasa" e Domenico d.F., detto "Coccia di ferro" furono condannati, "come complici corrispettivi" dell'assassinio, ai lavori forzati. Due a 18 anni, l'altro a 20 anni perché riconosciuto colpevole anche di grassazione.
Altri caddero più tardi nelle mani della Giustizia.
Il 24 marzo 1862 la Gran Corte Criminale nel processo ad altri 7 imputati, ne mandò assolti ben 6: Francesco Antonelli, Gaetano di Luca, Domenico d'Orfeo, Vincenzo Simonetti, Felice Simonetti e Giovanni di Luca. Il settimo invece, S.D. fu dichiarato "in legittimo stato di accusa". Qualcuno, dopo lungo processo, come S.P., "vetturale", di anni 27, accusato di complicità in secondo grado, se la cavò per il rotto della cuffia. Infatti, i Giurati della Corte di Assise del Circolo di Lanciano, alla domanda se l'imputato fosse complice dell'omicidio, "ma con cooperazione tale che senza di essa il crimine sarebbe stato commesso ugualmente", risposero a parità di voti. Aveva scontato, però, più di tre anni e mezzo di carcere.
Andò molto male, invece, a S.D. processato più tardi, perché arrestato dopo gli autori principali dell'omicidio. Anche lui contadino, era un poveraccio. Dichiarò che non sapeva "né leggere, né scrivere, né segnare" (neanche il segno di croce?), non aveva prove a sua discolpa né la possibilità di scegliersi un difensore. Aveva moglie e figli e 34 anni all'epoca dei fatti. Fu condannato a15 anni di lavori forzati! Il suo avvocato d'ufficio nulla poté contro le testimonianze a suo carico. Due - tre compaesani cercarono di salvarlo o, comunque, attenuarne la colpa. Uno, Luigi di Biase, undicenne, (che testimoniava senza aver prestato giuramento stante la giovane età) ritrattando le precedenti dichiarazioni, affermò che l'accusato non aveva in mano un palo, ma soltanto una "mazza" (piccolo ramo) con la quale "urtava il corpo di Calvitti". Un altro disse che aveva una semplice bacchetta. Un terzo che non aveva niente.
Il Presidente della Corte di Assise aveva letto ai Giurati la seguente formula di giuramento che ritengo meritevole di essere ricordata: "Voi giurate in faccia a Dio e in faccia agli uomini di esaminare con la più scrupolosa attenzione le accuse, di non tradire i diritti dell'accusato, né quelli della società che l'accusa; di non comunicare con chicchessia relativamente alla detta accusa dopo la vostra dichiarazione; di non dare ascolto né all'odio, né ad altro malvagio sentimento, né al timore, né all'affetto; di decidere solamente allo stato dell'accusa e delle fatte difese secondo la vostra coscienza e l'intimo convincimento, coll'imparzialità e con la fermezza che si convengono a un uomo probo e libero".
Poi, una volta ordinato di portare fuori della "sala di udienza" l'accusato, aveva letto agli stessi Giurati "la seguente istruzione":
"La Legge non chiede conto ai Giurati de' mezzi per i quali eglino si sono convinti. Essa non prescrive loro alcuna regola, dalla quale debbano far dipendere la piena e sufficiente prova. Essa prescrive loro d'interrogare se stessi nel silenzio e nel raccoglimento, e di esaminare, nella serenità della loro coscienza, quale impressione abbiano fatto sulla loro ragione le prove riportate contro l'accusato, e i mezzi della sua difesa. Essa propone loro questa sola domanda che rinchiude tutta la misura dei loro doveri: AVETE VOI L'INTIMA CONVINZIONE DELLA COLPABILITÀ OD INNOCENZA DELL'ACCUSATO? I Giurati mancano al principale loro dovere se pensano alle disposizioni delle leggi penali, o considerano le conseguenze che potrà avere per l'accusato la dichiarazione che devono fare".
Alla fine il Capo dei Giurati, in piedi e con la mano sul cuore, aveva detto: "Sul mio onore e sulla mia coscienza la dichiarazione dei Giurati è questa".
E S. D., mentre fu assolto per i reati di sovvertimento della forma di Governo, di attentato e resistenza con violenza o vie di fatto alle Guardie Nazionali e di grassazione, fu condannato per l'omicidio di Calvitti, perché senza la sua cooperazione il reato non sarebbe stato commesso.
Non ho potuto accertare dove scontò la pena. Sembra, però, che siano morti quasi tutti in carcere. Qualcuno anche di tifo petecchiale. E sembra anche che qualcuno, nel timore di essere avvelenato in carcere, pretendesse di nutrirsi preferibilmente di uova (deve trattarsi, evidentemente, di una leggenda, non potendosi credere... alla scelta della dieta da parte - e allora poi! - di un condannato del genere).
È certo, però, che Donato O. detto "Falso", morì 14 anni dopo il delitto, in Sicilia, dove stava scontando i lavori forzati. Aveva 44 anni. Trenta all'epoca del crimine.
Degli imputati minori, qualcuno morì nel carcere di Chieti nell'aprile del 1861, pochi mesi, quindi, dopo il delitto. Qualche altro nel carcere di Lanciano nel 1867. La loro scomparsa l'ho potuta accertare nei Registri di morte della Parrocchia.
Questi i fatti e i misfatti.
Mi raccontavano in famiglia che la vedova Calvitti, Donna Concetta Lalli che (sia detto per inciso) aveva chiesto anche, ma inutilmente, la incriminazione di Don Domenico di Nillo e del figlio, percorse a cavallo le vie di Borrello, gridando sotto le case:
"Giudei traditori".
Perciò, ci chiamavano "Giudei di Borrello".


(1) Questa casa fu poi adibita a Caserma dei Carabinieri e neI 1938 fu donata da un discendente del di Nillo (il notaio Domenico di Nillo) all'Ente Comunale di assistenza per farla destinare ad Asilo infantile.

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