LA “CALLARE”
di Riccardo D'Auro
In dialetto è chiamata così la caldaia di rame della capacità di una salma (108 litri) posseduta generalmente dalle famiglie benestanti per usi diversi; esisteva, però, anche la CALLARELLA di mezza salma usata anche essa col treppiede. Credo che ora in paese entrambi gli esemplari superstiti siano rari, hanno quindi acquisito un certo valore storico. Infatti, sfuggirono alla requisizione dei metalli che iniziò negli Anni Trenta con il dono simbolico dell’oro alla Patria, considerato una sfida alle nazioni che le avevano imposto le sanzioni per la conquista dell’impero. Le fedi nuziali vennero sostituite da cerchietti verosimili di acciaio ostentati con una punta di orgoglio. Seguì la guerra nei primi Anni Quaranta e dalla donazione si passò alla requisizione del ferro, definita con solennità dono alla Patria. Vi fecero parte i pannelli della recinzione della casa che mio padre dovette rimuovere e portarli al centro di raccolta. Si sparse, però, la voce della fine fatta, non proprio per amor di patria, da considerevoli quantità del ferro che veniva conferito. Ciò indignò i possessori delle caldaie, che con rabbia le occultarono nelle campagne vicine alle case dove restarono fino al dopoguerra.
Non mancarono episodi curiosi. Un pomeriggio, di ritorno con i miei compagni dalla Porta dei Saraceni, dove di solito trascorrevamo la consueta ora di svago, ne scorgemmo una nascosta sotto una meta di paglia che il vento scopriva quasi per dispetto. Il proprietario, un vecchio diffidente, che la controllava a vista dalla propria casa, ci venne incontro e con fare suadente, disse e non disse, per cercare di fare apparire di poco conto la violazione dell’ordinanza che a noi, in verità, interessava ben poco perché i nostri familiari avevano fatto altrettanto.
Ma torniamo alla callara, in particolare all’uso che se ne faceva durante la vendemmia. L’uva dopo la bollitura, messa in un sacco di iuta, posto a sua volta in una mesa, veniva pigiata, sotto il controllo igienico di mia madre, da Duminiche di Castiellenuove scalzo. Nel passato il vino si faceva con l’uva posta nell’incavo di un lastrone di pietra e schiacciata da un macigno penzolante da un albero che funzionava da sali-scendi. Il marchingegno, esistente nelle grandi proprietà dei Di Nardo, Palmieri e Simonetti, era a disposizione anche di altri produttori. I torchi esistenti erano rari.
Va detto che il vino prodotto dalle numerose vigne di Borrello, prima dell’aggressione della peronospora, era molto richiesto dai paesi dei dintorni. Successivamente, a causa del costo eccessivo della manodopera, furono ripiantate poche vigne che, col tempo, sono tutte scomparse per la rapida espansione dei boschi. Merita di essere ricordata quella di 5000 viti ripiantata dal Nonno nel podere del Casino dell’Arciprete la cui prima vendemmia, nel 1943, produsse 45 ettolitri di vino. La guerra in casa causò la fuoriuscita, in parte, dalle botti alle quali i tedeschi avevano anche sparato; raccolto e filtrato pazientemente da mio padre, costituì merce di scambio durante quel periodo di crisi.
Per la storia l’ultima vigna del paese fu piantata in contrada Le Valli, negli Anni 1960/’70, da Antonio Spagnuolo di Vincenzo un appassionato ex valente minatore del Belgio. Ma con le nuove regole di mercato cambiò anche la consuetudine di andare a prelevare con i barili l’inesauribile vino di Bomba e di Pennadomo.
L’uso della caldaia, limitato alla bollitura delle bottiglie di purè, è andato lentamente a scomparire da qualche decennio; appesa ad un chiodo, resiste alla tentazione di diventare merce di scambio con i ramai di Agnone.
Pescara, Gennaio 2022
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