Di tutti questi nomi meritano particolare menzione quelli di Jacopo Caldora e del
figlio Antonio che cercò di emularne le gesta.
Nel 1430, Borrello, Rosello, Civitaluparella, Pizzoferrato, Quadri, Pilo, Castel del
Giudice, Colledimezzo, Agnone, Vasto, Lama, Pacentro, Lettopalena, Taranta, Montelapiano,
Monteodorisio e altri centri ancora, erano feudi di Jacopo Caldora. (7)
Il suo Stato si estendeva a Sud fino a Trivento e a Nord-Est anche su alcune località
marittime. Controllava, quindi, non soltanto i tratturi verso il Sud, ma anche quello
costiero. E controllava Guastameroli "per la sorveglianza fortifcata sulla città di Lanciano, alla
quale era stata sottratta”. (8)
Ma chi era Jacopo Caldora? Perché il Comune di Castel del Giudice (ls) ne va tanto
fiero? Nacque in quel Comune intorno al 1370 da Giovanni Antonio e da Rita Cantelmo,
le cui famiglie provenivano dalla Francia da dove erano discese con la prima invasione
degli Angioini. Sposò Medea d'Eboli, Contessa di Trivento. Perciò ebbe in dote quella
Contea (9). Fu un grande capitano di ventura e non un re, come dicevano, invece, alcuni
nostri nonni quando parlando del castello di Civitaluparella ce lo ricordavano come il
castello di Re Caldora.
Lo storico Angelo Di Costanzo di lui scrisse che era "reputato per tutta Europa padre di
Soldati”. Benedetto Croce quando ne parla dice che sommo tra i Caldora fu Jacopo "vincitore
di Braccio da Montone, e, valente, e magnanimo, che, insaziabile acquisitore di domini, recava per
motto Coelum coeli Domino, terram dedit filiis hominum, e Signore di più Ducati e Contee, non volle
mai per se altro titolo che quello, nudo e orgoglioso di Jacopo Caldora”. (10)
Anche lui fu il più grande di una famosa famiglia baronale tra le più note e potenti
del Regno di Napoli, così come grandi e famosi erano stati "I Figli di Borrello” al tempo dei
Normanni, anche se in verità, sul piano politico i Borrello ebbero un'importanza ben
diversa e mai furono mercenari. Militò nella lunga lotta per la successione nel Regno di
Napoli e servì prima gli Aragonesi, poi gli Angioini, al soldo della Regina Giovanna II, storicamente
ricordata, tra l'altro, come impudica e capricciosa.
Come abbiamo già visto, nel 1414, Giovanna II d'Angiò Durazzo, era succeduta sul
trono del fratello Ladislao che nel 1391 aveva concesso il feudo di Civitas Burrelli e quelli
di altri luoghi della nostra valle ai Lancianesi.
Il governo di questa nuova Sovrana, che soltanto qualche storico isolato non ha condannato,
fu quello di una donna rimasta tristemente famosa per più ragioni. Fu incredibilmente
immorale. Alcuni suoi favoriti, tra i quali principalmente ser Gianni Caracciolo (poi
fatto ammazzare) approfittarono di quei suoi favori per arricchirsi a danno della Corona e
di pochi Baroni onesti in un periodo in cui imperava l'anarchia feudale. Non dimostrò
buon intelletto nella conduzione dello Stato, né seppe opporsi al prepotere dei Capitani di
ventura che il fratello, invece, aveva saputo tenere in pugno. Altalenanti e incoerenti furono
i suoi indirizzi politici e le sue scelte ereditarie. Tra amori e guerre non seppe trovare
tempo e soldi per favorire e proteggere le lettere e le arti (fece qualcosa nel campo della
giustizia, riformando i Tribunali). (11)
Ecco, questo fu il contesto in cui dovette destreggiarsi e mostrare le sue capacità militari
Jacopo Caldora, contemporaneo e compagno di ventura dei più noti condottieri dell'epoca,
rimasti famosi nella Storia d'Italia: Muzio Attendolo Sforza, il figlio Francesco
Sforza, Braccio da Montone, Gattamelata, Baglioni, Piccinino, Navarrino e altri. Dopo
essersi formato alla scuola di Braccio da Montone, creò una propria compagnia di ventura
con l'intento di formarsi uno Stato. Il Di Costanzo nella sua ISTORIA, nell'esprimere il proprio
giudizio su Jacopo Caldora e sull'esercito che guidava (costituito nel 1436 da un
nerbo di tremila cavalli oltre ai fanti), lo ritiene superiore ai pur famosissimi Nicolò
Piccinino e Francesco Sforza; e ciò in quanto, mentre tra le file di questi erano soltanto
capitani valorosi, nell'esercito del Caldora militavano oltre a capitani valorosi anche Baroni
"presso i quali aristocrazia e milizia venivano, quindi, a congiungersi in una unità reciprocamente
Potenziata”. (12)
Si distinse in modo particolare quando, per liberarla, marciò sull'Aquila (fedele alla
Regina di Napoli Giovanna II e al Papa) che da tempo stava resistendo all'assedio degli
Aragonesi comandati dal suo ex maestro Braccio da Montone, dal Gattamelata, dal
Piccinino, nipote di Braccio, dall'Orsini e da altri non sconosciuti Capitani. Dalla sua il
Capitan Generale Jacopo Caldora aveva per gli Angioini della Regina Giovanna e per il Papa
Martino V, il Conte di San Valentino, Lodovico Colonna, il Navarrino (Capitano delle
truppe papaline), Luigi San Severino, Micheletto Attendolo, Nicolò da Tolentino,
Federico di Matelica, Scaramuccia d'Ascoli e il giovane Francesco Sforza. (13)
Francesco Sforza era rimasto orfano, da pochi mesi, del padre Muzio Attendolo, che,
nell'inseguire, durante l'assedio, Braccio da Montone, rifugiatosi a Chieti, mori travolto dal
fiume Pescara in piena il 3 gennaio 1424, senza che il suo corpo venisse mai più ritrovato.
Lo scontro decisivo avvenne il 2 giugno 1424, scontro sanguinoso e crudele durante
il quale i fanti del Caldora, "quasi esclusivamente forti montanari delle sue terre” (12), "sgusciavano
tra i cavalli nemici e li sventravano” (14). L'esercito del Caldora in quell'occasione era forte di
tremila cavalli e mille fanti. La battaglia fu vinta dagli Angioini, dal Papa e dalla resistenza
degli Aquilani assediati dal 7 maggio 1423. In quella circostanza rifulse la pietà di Jacopo
Caldora e si rivelò la crudeltà del giovane Francesco Sforza verso Braccio da Montone
dopo che questi, trovatosi circondato, non volle arrendersi e fu colpito da lancia e spada.
A questo proposito Giov. A. Campano, autore della HISTORlA ET VITE DI BRACCIO
DETTO DA MONTONE ET DI NICOLÒ PICCININO PERUGINI, scrive che il Caldora "temperò con
le lacrime l'allegrezza della vittoria ricevuta e fattolo smontar da cavallo e condottolo dentro al suo padiglione,
cortesissimamente gli parlò. Ma egli o che non udisse o che fingesse di non udire, non rispose mai
né a lui né ad altri una minima parola, o perché le mortali e profonde piaghe gli avessero tolto il sentimento
o perché quantunque la fortuna avesse dato in poter dei nemici il suo già quasi perduto corpo, egli
non di meno ritenesse seco l'animo invitto”.
E fu in quel padiglione che qualche giorno dopo, mentre un chirurgo con rudimentali
arnesi stava cercando di pulire l'orrenda ferita al capo che il condottiero aveva ricevuto,
Francesco Sforza, quasi infastidito per tanta attenzione verso il nemico ferito, calò un
pugno con la mano guantata di ferro su quella del medico, facendo affondare la lama nel
cranio del moribondo.
Un poeta abruzzese contemporaneo, Nicola di Cimino, detto Ciminello, autore di
un poema dialettale su quelle gesta di Braccio, così ne cantò la fine:
"El medico si fece presto venire,
Feli bentare ciascuna ferita,
Tucta soa posta lu volea guarire
Et returnarelu di morte a vita.
El Conte Franciscu sci li ebbe a sentirlo,
Quilla persona Mangna e tanto ardita,
Colle soi mani scillo medicone
Et poco stette che Braccio spirone". (15)
Il grande condottiero morì ultrasettantenne durante una delle sue imprese contro
Alfonso d'Aragona. Accadde il 15 novembre 1439 mentre si preparava alla conquista e al
sacco di una località chiamata Colle Sannita in quel di Benevento, i cui abitanti si erano
rifiutati di fornire vettovaglie al suo esercito. Renato d'Angiò aveva invocato l'aiuto del
Caldora a favore di Napoli e il vecchio Capitano stava cercando di raggiungerla.
Narra il Di Costanzo nella STORIA DEL REGNO DI NAPOLI (Milano 1831-32) che
mentre il Caldora “passeggiava per lo piano discorrendo col Conte d'Altavilla e con Cola di Osieri
del modo che potea tenere per passare a Napoli, gli cadde una goccia dal capo nel cuore (colpo apoplettico?) che bisognò che il Conte lo sostenesse a ciò non cadesse da cavallo, e disceso, da molti che
concorsero fu portato al suo padiglione dove poche ore dopo uscì di vita a quindici novembre 1439. Fu
accompagnato da nobili e Capitani e da tutto l'esercito a seppellire a S. Spirito di Sulmona dove furono
celebrate le esequie con pompa grandissima”.
A Jacopo Caldora che (con gli altri della stirpe) rese molto noto il paese di Civitaluparella,
dove era stato eretto anche un loro castello, seguirono tra i nomi più conosciuti,
Raimondo Caldora, il figlio Conte Antonio Caldora, Luigi Caldora, Maria Caldora che
andò sposa a Berlingiero Cantelmo e Berlingiero Caldora.
Ma il più notevole, anche se sfortunato emulo del padre, fu Antonio Caldora.
Anch'egli fu Capitano di Ventura e potente padrone della vasta Signoria ereditata dal
padre. Renato d'Angiò lo nominò Gran Contestabile (che allora equivaleva a Comandante
generale dell'esercito), Duca di Bari e, successivamente, addirittura Viceré degli Abruzzi.
Ma oscillò ambiguamente tra Angioini e Aragonesi, tanto che si diceva di lui che "non aveva
mai servito né Dio né il diavolo”.
Il 28 giugno 1442 fu sconfitto da Alfonso d'Aragona nella battaglia avvenuta tra
Sessano, Carpinone e Pescolanciano in Molise. Fu fatto prigioniero. Il Re non solo lo perdonò
dopo averne ricevuto giuramento di fedeltà, ma gli lasciò, oltre al Contado di
Trivento, anche gran parte delle terre d'Abruzzo che possedeva, fatta eccezione di quelle
conquistate dal padre.
Purtroppo, il Caldora continuò a tramare a danno del Re (fu tra i Baroni che si ribellarono
al nuovo Sovrano nel 1460) fino a quando Ferdinando d'Aragona (il Ferrante),
contro il quale combatteva unitamente a Francesco Sforza, riuscì a porre termine alle sue
imprese. Nel 1464, infatti, lo fece prigioniero. A questo riguardo il racconto degli storiografi
dà versioni diverse circa il luogo dove Antonio Caldora fu preso.
Alcuni hanno scritto che la sua caduta avvenne proprio a Civitaluparella dove era
stato assediato dal Ferrante.
Altri ci dicono che fu fatto prigioniero a Vasto, il cui castello era stato la residenza
invernale del genitore dove si era rifugiato e aveva resistito dopo che si era già "chiuso e
rafforzato nella torre di Civitaluparella” (v. in proposito B. Croce).
La verità è proprio quest'ultima. Infatti, Antonio Caldora, certo della impossibilità da
parte del Re di espugnare Vasto assediata (16) perché fortifcata con poderose mura e da cannoni,
e difesa dalle sue migliori truppe veterane, si ritirò nel castello di Civitaluparella. Era questo
luogo quasi inespugnabile dove le mura del castello -osservava Pontano, Ministro e
Segretario del Re- ancora contrastano col tempo, e dove vedesi la roccia calcarea tagliata in due parti.
Aveva lasciato a Vasto a capo del presidio Rinieri di Ligny, fratello della sua seconda
moglie. Il Re la spuntò grazie all'aiuto dei potenti fratelli de' Salvi di quella città. Il Caldora
vi tornò per soccorrere il cognato, ma il popolo gli si sollevò contro, lo catturò e lo consegnò
ai suoi nemici. Per intercessione di Francesco Sforza non fu ucciso. Infatti, Ferdinando
D'Aragona con lui fu magnanimo. Lo fece condurre a Napoli e lì lasciato a vivere da
privato cittadino, con piccolo assegno, insieme con la moglie e i figli.
Ma Antonio Caldora fuggì a lesi, dove finì tristemente e in povertà la sua vita presso
un veterano che aveva militato sotto il padre Jacopo.
Successivamente quella famiglia fu nota per molti anni ancora ma senza più l'importanza
di un tempo.
Ho già ricordato parlando di Pilo, che ancora nella seconda metà del 1400, un Luigi
Caldora possedeva "Civitas Luparella, Quatri, Pizzoferrato, Montemiglio, Fallo, Pilo, Rosello,
Civita Borrello, Pesco Pignataro e S. Angelo de Provincia Aprutii Citra”. (17)
Queste terre successivamente passarono in eredità alla figlia Maria Caldora, che andò
sposa a Berlingiero Cantelmo. (17)
L'ultimo Capitano di questa grande famiglia fu Berlingiero Caldora, che nel 1528
militò nella lotta riaccesasi tra Francia e Spagna per il predominio sul Regno di Napoli.
Infatti, fece parte con le proprie soldatesche dell'esercito del Generale francese Odet di
Foix, Visconte de Lautrech, quando questi marciò su quella città (Cfr.: F. Sabatini in LA
REGIONE DEGLI ALTIPIANI MAGGIORI D'ABRUZZO - ROCCARSO - PESCOCOSTANZO).
A questo punto della narrazione è opportuno aprire un altro spazio nella elencazione
dei feudatari di Civitas Burrella per soffermarci su due fatti, che, tra i pur numerosi, caratterizzarono
il Regno dell' Aragonese Alfonso il Magnanimo e riguardarono anche la popolazione
della nostra valle (non poteva essere diversamente).
Si tratta della decisione di riformare la materia fiscale della imposizione diretta,
basandola sulla tassazione per fuochi, e di quella di riordinare l'imposizione indiretta della
Dogana delle pecore transumanti dall'Abruzzo verso la Puglia.
Ambedue le decisioni risalgono all'anno 1447, quando Borrello e decine di altri
Comuni erano feudo di Antonio Caldora.
(6) Cfr. la già citata opera del Pollidori DE BURRELLORUM GENTE, ecc..
(7) Cfr. anche G.B. Masciotta e A. Arduino, rispettivamente in GIACOMO CALDORA (1926) e GIACOMO
CALDORA (1984).
(8) Cfr. R. Colapietra in CHIETI E LA SUA PROVINCIA – STORIA, ARTE, CULTURA (Chieti MCMXX - Amministrazione
Provinciale).
(9) Cfr. Domenico Romanelli in SCOVERTE PATRIE DI CITTÀ DISTRUTTE E DI ALTRE ANTICHITÀ NELLA REGIONE
FRENTANA (Napoli 1805).
(10) Il motto latino del Caldora sta, in sostanza, a significare che la terra spetta soltanto a chi ha la forza
di impossessarsene.
(11) Cfr. A. Cutolo in GIOVANNA II - LA TEMPESTOSA VITA DI UNA REGINA DI NAPOLI (Ist. Geog. De Agostini -
Novara).
(12) Cfr. E. Ricotti in STORIA DELLE COMPAGNIE DI VENTURA IN ITALIA (Torino 1893).
(13) Neanche il Caldora potè esimersi dal cambiare Sovrano. Gli capitò per più motivi. Non bisogna
dimenticare che era capitano di ventura e che, pertanto, militava per chi lo pagava meglio.
Dopo essere passato dagli Angioini agli Aragonesi, ripassò dalla parte della regina Giovanna Il, questa
volta, almeno ufficialmente, anche per seri motivi economici (il ritardo eccessivo nel pagamento
degli stipendi alle sue truppe da parte del Re Alfonso d'Aragona). Nel 1431 pur militando sotto
Papa Eugenio IV contro i Colonnesi si fece convincere da questi ad abbandonarlo per la somma di
ottantamila scudi. Fu grande uomo d'armi, ma non disdegnò le lettere né la convincente eloquenza.
La sua magnanimità sembra indiscussa. Gli storici ricordano in particolare il suo deciso intervento presso Pietro d'Aragona per scongiurare l'incendio di Napoli che quel luogotenente aveva deciso.
Grande magnanimità a fronte… delle immancabili debolezze del… mestiere.
(14) Cfr. "Feudo e milizia: Baroni e condottieri" in IL REGNO DI NAPOLI - lL MEZZOGGIORNO ANGIOINO/ARAGONESE del Galasso
(15) Cfr. -già citato- A. Cutolo in GIOVANNA II - LA TEMPESTOSA VITA DI UNA REGINA DI NAPOLI (Ist. Geog. De
Agostini).
(16) Dice l'Abate Domenico Romanelli nell'opera citata, che Giacomo Caldora "cinse di buone mura
Vasto e l'adornò di fortificazioni. Vi innalzò specialmente un castello, opera per quei tempi non vulgare, con fossi, scarpa, bastioni e torri sulle vestigia di un castello più antico". Racconta il Viti che "la torre di mezzo fosse di tanta elevazione che vi si scopriva la città di Ortona. Omissis… Giacomo Caldora vi eresse ancora superbo palazzo che da qualche scrittore fu annoverato tra gli spettacoli del mondo".
(17) Cfr. N. F. Faraglia in SAGGIO DI COROGRAFIA ABRUZZESE MEDIOEVALE.
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