PERCHE' “CASA GRANDE”
di Riccardo D'Auro
Subito dopo l’8 settembre del 1943 i tedeschi intensificarono la loro presenza nel nostro territorio. Una notte i conducenti di un camion, dopo una lunga scampanellata, chiesero se erano sulla strada giusta per Agnone. Non fu semplice spiegare che dovevano tornare indietro e salire da Sant’Angelo. Quello fu il nostro primo contatto dovuto alla posizione isolata della casa.
La guerra, arrivata nel vicino Molise, dette origine al passaggio dei prigionieri britannici del campo di Sulmona, che avevano sostato sulla Maiella in attesa dell’avvicinarsi del fronte. Il 12 ottobre mio padre nelle prime ore del mattino aveva mostrato a cinque di essi, che avevano pernottato accanto al fuoco nel nostro scantinato, la linea elettrica diretta a Castiglione M. M. Sul tardi arrivarono i tedeschi, i quali condivisero coi proprietari le case migliori del paese. Una delle prime ordinanze che emanarono riguardò proprio il divieto di avere contatti di qualsiasi genere con il nemico!
Il giorno prima un maresciallo, durante la visita sopralluogo per la requisizione, ripeté più volte, facendo ampi segni di compiacimento, “Casa Grande”, un nome distintivo che subito si diffuse tra i commilitoni. Nel frattempo l’autista aveva disegnato con un gessetto, su uno dei pannelli in basso del portone, il faccione del Premier Britannico, con l’immancabile sigaro, al quale, disse il superiore con un sorriso sarcastico, era dovuta la loro presenza a Borrello. Aggiunse anche che l’indomani sarebbe giunta ad occuparla K4, una compagnia di 60 uomini. Per nozione l’altro reparto presente in paese, denominato K3, era accampato nel centro storico e 5 suoi uomini avevano preso possesso della nostra vecchia casa sita tra via Dell’Orologio e via Del Popolo. Inoltre va detto che le due compagnie, appartenenti entrambe all’autocentro, effettuavano la spola continua con il fronte per i rifornimenti e la riparazione degli automezzi che veniva eseguita nei numerosi ampi spazi, alberati e non, del paese.
Oltre a K4 si alternò nell’occupazione un’altra compagnia di “tedeschi buoni”, così chiamati per distinguerli dagli ultimi, i quali ci lasciarono a disposizione il primo piano, eccetto lo studio in cui si insediò il Capitano. Una persona corretta che consigliò mio padre di imboscare viveri e masserizie perché il fronte avrebbe fatto sosta nella nostra valle. Al momento le bandierine delle mappe, attaccate alle pareti, lo posizionavano nella valle del Trigno. Dal 1° novembre, mentre il rimbombo cupo del cannone si udiva sempre più distinto, si instaurò un grave clima di guerra con le razzie degli animali e la caccia agli uomini, che venivano deportati dove erano in corso opere di difesa. Mio padre, con il cavallo ed altri uomini, si rifugiò al Casino dell’Arciprete, la nostra casa di campagna, in cui rientravano a notte fatta mentre io ed altri famigliari nel pomeriggio portavamo loro i viveri con grande cautela.
Il 3 novembre K4 abbandonò precipitosamente “Casa Grande” in cui arrivarono alcuni autocarri carichi di casse di esplosivo, un ospedale da campo segnalato da una vistosa croce rossa sul tetto e un’autoambulanza con qualche ferito leggero. Poiché la situazione si era fatta difficile, il nonno fece trasferire mia madre e mia sorella presso gli zii mentre io dovevo raggiungere mio padre.
Entro il 5 novembre quasi tutti i reparti presenti lasciarono Borrello ed il 6 fu la volta dell’ospedale. La casa venne occupata da un reparto diverso dai precedenti, per l’aspetto marziale e l’equipaggiamento; erano le famigerate SS, che predisposero subito un corpo di guardia con numerose sentinelle disposte dentro e fuori casa. Ed ecco, nel pomeriggio dell’8 novembre, il prologo del terribile evento che incombeva su Borrello: la tragedia sfiorata al casino con la sparatoria, la cattura di alcuni uomini e del cavallo e l’ultima notte trascorsa anche da me, a causa di una profonda ferita al ginocchio, nella casa degli Avi.
La cronaca dettagliata di quello che accadde dal 9 al 26 novembre 1943 è descritta in “IX Novembre 1943 La Distruzione di Borrello”. Non è comunque possibile non tornare in questa sede, almeno per sommi capi, sull’accaduto.
I tedeschi rimasero a “Casa Grande” per quasi tutto il periodo della distruzione dopo avere cacciato fuori i nonni e zà Carmela, i quali si accamparono per alcuni giorni all’addiaccio, nella paglia del Colle della Fonte, finché la pioggia ed il freddo fecero decidere il nonno a raggiungerci al casino.
Venivano condotti alla casa, in particolare per eseguire servizi, i trasgressori delle ordinanze che vietavano il rientro in paese; i malcapitati erano terrorizzati alla sola pronuncia del nome preceduto dal doppio “raus”. Nel pomeriggio del 19 udimmo due potenti esplosioni in direzione del paese che il nonno attribuì subito alla distruzione della nostra casa. Ne era stato perfettamente informato ma non aveva potuto fare nulla per scongiurarla. Il nostro dolore fu alquanto mitigato dalla certezza che i tedeschi stessero ormai per abbandonare Borrello e, quindi, l’intero versante destro della valle. Non fu affatto possibile dissuaderlo dal proposito di fare un sopralluogo il mattino seguente, quantunque fossimo stati rassicurati che non era stata rasa al suolo. Tonino Beviglia aveva assistito, da dietro l’angolo della propria casa, all’accensione della miccia avvenuta a mezza strada dalla curva di via Roma raggiunta di corsa dagli artificieri. Per la sua posizione isolata era stata abbandonata, per motivi di sicurezza, qualche giorno prima della ritirata generale; si era infatti appreso che verso Rosello c’era stato uno scontro di pattuglie e che avevano subito una vittima.
Nel nostro rifugio, ubicato qualche chilometro più a valle, noi trascorremmo alla macchia 17 giorni soffrendo la fame e il freddo. Eravamo stipati in 60, terrorizzati dalle frequenti incursioni delle pattuglie, provenienti anche da Quadri, che lo incendiarono. Non riuscimmo a salvare il tetto e qualche giorno dopo subimmo anche dei colpi di cannone che causarono tre morti e dei feriti nel gruppo che occupava la casetta sita a pochi metri di distanza.
E nella notte tra il 25 ed 26 novembre, finalmente si ritirarono dalla sponda destra del Sangro sulla quale, oltre ad eseguire la terra bruciata, avevano sostenuto violenti combattimenti che non permisero al nemico di conquistare il versante opposto. Un tremendo scoppio che fece sussultare il portone dello scantinato, attribuito alla distruzione del ponte di Quadri, ci rassicurò della ritirata generale. Con l’incendio di Civitaluparella iniziò la terra bruciata del versante che mantennero fino ai primi di giugno.
Al mattino, subito dopo la conferma che eravamo liberi, gridato dall’alto della rupe, i miei genitori, il nonno ed io raggiungemmo trafelati il paese e, tra montagne di macerie, la nostra casa. Dalla svolta di via Roma ci apparve senza il tetto e con le facciate laterali squarciate da due ampie falle. Ai lati del portone, che a detta del nonno i tedeschi tenevano spalancato giorno e notte, i due grandi locali avevano subito lo sfondamento dei solai di copertura e l’incendio degli infissi e del contenuto, che emanavano ancora un forte odore di bruciato. La gradinata, ingombra di macerie, per fortuna non aveva subito danni.
Il primo piano, oltre ai gravi danni citati, causati dalle mine collocate nei due camini contrapposti, il rigonfiamento dei rispettivi solai di copertura con oltre mezzo metro di freccia, e il crollo di tutti i divisori, in pratica era da considerare anche esso distrutto.
Il secondo piano aveva subito soltanto il danneggiamento dei due vani predetti i cui solai erano da demolire e ricostruire mediante l’impiego delle travi di ferro, alla pari dei due solai precitati del 1° piano sfondati.
Al grande disastro, infine, si dovevano aggiungere il tetto ed il vano-deposito dell’ultimo piano, dove venne deciso che avremmo potuto abitare dopo aver eseguito i necessari lavori di riparazione.
Gli esperti conclusero col dire che la casa non era crollata, non solo per la resistenza delle strutture, ma anche per la dispersione della potenza delle mine avvenuta attraverso le canne fumarie, che avevano provocato il così detto “effetto sfiato”: una vera e propria beffa giocata ai tedeschi da “Casa Grande”!.
Inoltre, era stato incendiato l’enorme quantitativo di legname per l’armatura di opere stradali depositato lungo il muro di cinta laterale. Sulla cenere, ancora fumante, restavano le ruote di decine di carriole. sul nostro terreno vicino casa il nonno aveva sistemati il calesse ed il carretto con i finimenti, da azionare purtroppo a mano. L’unico dato positivo era un carico di cemento salvatosi in una cantina sita nei pressi dell’edificio scolastico in costruzione.
La situazione catastrofica riscontrata scatenò in noi una reazione rabbiosa che permase durante l’esecuzione dei lavori di pronto intervento, in particolare del rifacimento del tetto eseguito con il materiale di recupero delle case distrutte, eccetto i 4 grandi puntoni tagliati nel bosco degli abeti, il Marsimone, che fu provvidenziale per la popolazione. Noi sostenemmo una lotta contro il tempo che si concluse con l’arrivo della neve: un lavoro disperato che risentì fortemente della mancanza del cavallo. la sua ricerca, estesa da Papà anche fuori regione, ebbe fine a giugno con la notizia della morte di Barone sulle “Tre Cime” di Gamberale nei pressi della postazione dei mortai, che ci avevano fatto sentire spesso la loro voce terribile. Durante l’esecuzione di questo lavoro durissimo, a tratti spasmodico, in molti fecero richiesta di asilo nel secondo piano sebbene fosse alquanto danneggiato; fu concesso, in cambio di prestazione d’opera, alle famiglie: Beviglia-Mariani, Di Luca Antonio ed Evangelista Albino, che si aggiunsero alle altre due che abitavano con noi al terzo piano. Fu, dunque, un grosso contributo di solidarietà dato ai senzatetto da “Casa Grande” in un periodo così critico di abitazioni. Inoltre, il grande vano di sinistra del piano terreno, riparato alla meno peggio, ad ottobre del 1944 ospitò la scuola fino a tutto il 1946, anno in cui furono ultimati i lavori di riparazione del Palazzo Comunale. “Casa Grande”, dunque, nei primi anni della sua esistenza contribuì fattivamente alla rinascita della comunità.
Quando nell’autunno del 1944 venne emanato il primo provvedimento governativo per la riparazione delle case danneggiate, molti tetti di Borrello erano stati rifatti. Noi avevamo eseguito, inoltre, anche la chiusura degli squarci delle facciate ed il rifacimento dei solai del 1° piano. Tutto il resto fu ultimato entro l’autunno del 1945 in cui tornammo ad abitare al 1° piano. Va chiarito che il contributo dello stato, del tutto inadeguato alla spesa sostenuta, riguardò esclusivamente i lavori di riparazione dei fabbricati danneggiati con l’obbligo, inizialmente, del reimpiego dei materiali di recupero. La prima legge relativa alla ricostruzione dei fabbricati di abitazione distrutti, fu pubblicata soltanto nel 1960, pertanto la maggioranza dei senzatetto, pur di rientrare nelle case, si accontentò di un contributo ridotto. Una perdita alla quale, nel tempo, si aggiunsero altri grossi costi per consolidare le strutture eseguite con i materiali di recupero. pertanto, invece di essere premiati per la sollecitudine ed il risparmio che avevano fatto conseguire allo stato, numerosi sinistrati furono penalizzati da ulteriori spese.
Accadde la stessa cosa per “Casa Grande”, con il pianterreno ed il primo piano, che avrebbero potuto fruire del contributo di ricostruzione. Ma noi potevamo attendere 17 anni per tornare ad abitare al primo piano?
Per numerose stagioni la casa fu un cantiere aperto: un onere pesante che ho sopportato “con passione” perchè l’ho vista nascere, ho sofferto per la sua distruzione e per avere collaborato a lungo e fattivamente alla sua laboriosa rinascita.
Pescara, Giugno 2021
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