“BRUTO PRIMO”
di Riccardo D'Auro


In occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia l‘Archivio di Stato di Chieti ha pubblicato, per i tipi dell’Editrice Tinari, un interessante volume dal titolo “Dai Gigli al Tricolore”. Tra i temi trattati uno dei più importanti riguarda la Vendita carbonara che esisteva a Borrello nel periodo dei moti del 1820/21, che annoverava ben 82 affiliati. Le notizie e i nominativi dei Carbonari esistenti nei comuni della Comunità Montana le apprendiamo dal famoso libro di Eugenio Maranzano, dal quale risulta che la Vendita di Borrello, con i suoi 23 componenti, era la più numerosa.
Il suddetto Ufficio per l’importante evento ha voluto rendere pubblici alcuni documenti versati dalla Prefettura in questi ultimi anni, classificati Intendenza - Polizia, tra i quali quelli relativi alle società segrete. Suscitano un interesse eccezionale le carte che costituivano l’archivio della “Vendita carbonara” di Borrello denominata “Bruto primo”, uno dei tanti nomi strani coi quali venivano contrassegnate le vendite. Il fascicolo, intitolato “Notamento delle carte”, fu nascosto nella volta della Chiesa Madre dopo l’insuccesso dei moti suddetti e ritrovati in seguito per la denuncia di un certo Domenico Di Francesco di Basilio. Il pezzo forte dei documenti era costituito dall’“Allistamento dei Cugini Carbonari”, ossia l’elenco degli 82 cittadini su citato, appartenenti a tutti i ceti sociali con a lato di ciascuno il grado ricoperto, vistato dal Gran Maestro Andrea Carusi e firmato per copia conforme dal Maestro S. Diodato Di Nardo. Dopo quello del Gran Maestro seguono altri 9 nominativi coi gradi più alti: il 1° ed il 2° Assistente, i Maestri con le varie qualifiche di Oratore, Esperto, Patrino di Cerimonie, Terribile, e, infine, Maestro G. B. E. S. Inoltre, 44 nomi contrassegnati con la A e i restanti 27 senza gradi. C’è da precisare che nel totale sono compresi 20 della lista citata da Maranzano, pertanto il numero dei Carbonari di Borrello era di 85 unità. Facevano parte dei documenti settari verbali di sedute, corrispondenza, libri contabili, modelli di diplomi, il sigillo, ecc.
Un altro documento importante pervenuto all’Archivio è un esposto, datato 14 maggio 1821 e sottoscritto dal sacerdote Don Severino D’Auro, con il quale il ricorrente informava l’Intendente di Chieti dell’esistenza a Borrello di una “vendita carbonara” di cui faceva parte, sin dal 1814, l’Arciprete della chiesa suddetta Don Giustino Maria Carosella. Una setta che comprendeva alcuni notabili con a capo il Gran Maestro Dottor Andrea Carusi. Lo accusava di aver osato predicare contro il “real Trono”, di aver acquistato fucili dai soldati sbandati e di essere stato da lui malmenato in chiesa con perdita di sangue. Secondo il ricorrente questo ultimo fatto, segnalato al Vescovo di Trivento, avrebbe dovuto causare la scomunica del Caroselli e l’interdizione della chiesa, senza che il superiore, però, fosse intervenuto. Accordò a Don Severino soltanto il trasferimento ad altra parrocchia lontana avendo egli espresso anche il timore di essere pugnalato.
Ma delle gravi accuse del religioso l’Intendente non tenne conto. Molto tempo dopo, però, provvide ad inviare a Borrello un Funzionario di polizia in seguito alla denuncia su citata del Di Francesco. Questi, nel proprio rapporto del 22 dicembre 1823, riferì che dai sopralluoghi esperiti in chiesa e presso le abitazioni di Diodato Di Nardo e di Raffaele Di Nunzio non era emerso alcunché di strano, concludendo che gli indiziati, pur essendo stati dei settari, “attendono pacificamente alle loro professioni”. Nel frattempo, precisamente il 19 dicembre, il Dottor Carusi, i Sacerdoti Don Mariano Di Luca e Don Giustino M. Carosella, nonché Vincenzo Vecchiarelli, avevano inviato una supplica all’Intendente. Anche il secondo eletto al Comune, Tommaso Spagnuolo, in assenza del Sindaco, il 22 detti, lo aveva informato che “tra il denunciante e i denunciati vi è una notoria inimicizia”. A Borrello, comunque, non c’era stata alcuna sommossa, né la partecipazione dei settari a fatti delittuosi.
In effetti si trattava di persone di notoria integrità morale, appartenenti alle famiglie più influenti del paese. Inoltre, c’erano dei Religiosi, che, in genere la Monarchia teneva in debito conto. Le istituzioni erano consapevoli che i tempi stavano maturando in favore dei dissidenti, che, in sostanza, erano gli elementi più evoluti della borghesia: intellettuali, militari e artigiani con un programma mirante alla costituzione. Nei piccoli centri, poi, un’incriminazione per fatti politici avrebbe potuto sottoporre, presto o tardi, gli accusatori a ritorsioni o a conseguenze pesanti.
Viene ora da chiedersi come si concluse questa vicenda e soprattutto se la società segreta continuò ad operare a Borrello, tenuto conto che difficilmente un personaggio come il Dottor Carusi, ritenuto da tutti un autentico patriota, si fosse potuto astenere dal propagare i suoi profondi sentimenti di libertà. Altrettanto il reverendo Caroselli, che rimase Arciprete della Parrocchia fino al 1838, ed alcuni altri affiliati di spicco della “setta”.
Abbiamo avuto, inoltre, modo di constatare che la consorte dell’illustre Dottore, Donna Lucia Salvi, e i figli continuarono l’opera di affermazione dei suoi ideali, con iniziative umanitarie ed altro, anche dopo il compimento dell’epopea risorgimentale.
La Carboneria cessò di esistere nel 1848 e la maggior parte dei suoi affiliati confluì nella Giovane Italia, la quale andava affermandosi con un programma organizzativo e politico più concreto. Ciò dovette accadere anche a Borrello perché è certo che nel periodo in cui i sussulti risorgimentali divennero più marcati esisteva una società segreta, che nel 1855 corse il rischio di essere scoperta dalla polizia. Il fatto l’ho descritto nel precedente intervento “Borrello e l’Unità d’Italia” , ma oltre alla notizia non si sa altro. Non è detto, però, che da uno delle decine di faldoni in corso di esame presso l’Archivio di Stato di Chieti non venga fuori qualcos’altro di grande interesse.

A proposito dello scritto su citato mi corre l’obbligo di precisare che, oltre al giovane Alessandro D’Auro, un altro borrellano combatté per l’indipendenza dell’Italia. Si chiamava Leonardo Di Francesco nonno materno di Guerino Tiberio, l’ultracentenario scomparso di recente, che nel 1859 partecipò alle battaglie di Solferino e di San Martino. Al fatto avevo accennato nel mio libro sull’emigrazione, ma una riflessione fatta scorrendo l’elenco dei Carbonari in cui risultano tre Di Francesco, uno dei quali, Domenico, Maestro Terribile, mi ha indotto a credere che il nostro potrebbe essere parente di uno di questi uomini di azione.
Sorgono delle perplessità su come Leonardo, suddito borbonico, si trovasse nelle file piemontesi: da volontario o da coscritto aggregato agli austriaci, che, come tanti altri disertò sul campo di battaglia? Tornò a Borrello col grado di Sergente riportando con se la propria sciabola, che per decenni appesa alla volta della cantina del nipote fece bella mostra, per testimonianza straordinaria ed orgoglio della famiglia. Ma tornato dalla lunga prigionia e non trovandola al suo posto, Guerino si adontò con i suoi familiari quando gli dissero che era stata presa dallo zio per farne uno “scannaturo”. Che fine ingloriosa aveva fatto quel cimelio!


Pescara, Maggio 2011


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