Batocchi & batacchi
un racconto di
Autore Ignoto (… ma non troppo n.d.r.)
(tratto dalla raccolta "Racconti Sangritani")


1


Lo chiamavano il paese delle campane: non perché le fabbricassero in loco; quelle erano sempre state monopolio esclusivo di Agnone; ma se ad Agnone le fabbricavano, a Torello le suonavano. Lo facevano continuamente, dal mattino alla sera, con spensierata allegria, anche quando suonavano “a morto”. L’allegria derivava dal fatto che le tre campane, che formavano il “corpus” sonoro della torre campanaria erano accordate fra loro, come se nelle fonderie Marinelli le avesse scelte un maestro di musica, dall’orecchio fino. Il loro suono era gradevole, sia che suonassero da sole sia che lo facessero in coro: un’armonia perfetta! Il campanone possente, col suo batacchio che superava il quintale, faceva vibrare l’aria con una nota cupa e maschia: la campanella l’assecondava armoniosamente, come una donna innamorata, anche se aveva il batacchio; (ma nessuno è perfetto in questo mondo!); infine il “campaniello”, col suo batacchino, allegro ed impertinente: una famigliola perfetta.


Don. Den. Din.


Quell’armonia campanara rendeva accettabili anche i lati negativi della faccenda, a cominciare dal rintronamento delle orecchie degli abitanti, messe continuamente a dura prova (difatti in paese c’erano molti sordi), all’obbligo di parlare sempre ad alta voce, sovrastati spesso dall’allegro scampanio. Non secondario il pericolo che, durante la suonata “ a lungo” potesse sganciarsi il batacchio e fare danni alle persone o cose che si trovassero a tiro. Ne sapeva qualcosa il vecchio Dumparnasse che aveva la casa proprio lì di fronte e in un mattino di festa, mentre il campanone suonava “a lungo” s’era svegliato di botto, per un gran fracasso. Nel suo letto si era ritrovato il batacchio del campanone, che si era sganciato, per l’usura della correggia, e che, dopo aver sfondato il tetto ed il soffitto, gli si era adagiato a fianco, senza pudore, come un ospite indesiderato. Dopo quella brutta avventura il povero vecchio aveva cominciato ad alluccù (a gridare) ogni volta che suonavano le campane e, vista la frequenza di cui si dirà, alluccava dalla mattina alla sera. Infine, ma non ultima per importanza, la stretta connessione fra lo scampanio ed i fastidiosi obblighi quotidiani, ricordati in modo così perentorio. Le campane, infatti, scandivano la vita della comunità in tutti i suoi aspetti: l’ora di alzarsi, di pregare, di fare festa, di iniziare o interrompere il lavoro o di ritirarsi in casa. Spaventavano anche i colombi e le cornacchie, che si alzavano subito in volo, ma passato lo spavento, tornavano presto indietro, a contendersi l’ultima cavuta rimasta ancora libera.
All’alba il povero sagrestano, che abitava abbastanza lontano, si recava alla torre campanaria per suonare il “mattutino”, una scampanellata “a lungo” della sola campanella. Messaggio indirizzato ai galli: potete iniziare a cantare; ai contadini e pastori: “svegliatevi ed andate a lavorare!” (gli artigiani ed impiegati potevano farlo più tardi); alle donne che avevano la giornata del pane: “ammassate”. I vecchi, già svegli da tempo immemorabile aspettavano il segnale per cominciare ad alare (sbadigliare) a voce alta, tossire e scatarrare rumorosamente, tanto che si sentivano fino a Montelapiano; i nullafacenti si giravano dall’altra parte ed iniziavano il secondo tempo di riposo. Poiché di tradizione qualche volta si muore, o al minimo non si progredisce, il mattutino si suonava per abitudine, anche d’inverno, magari con un metro di neve; quando la gente preferiva starsene a letto per non prendere freddo, risparmiando la legna e la prima colazione. Solo il sagrestano sacramentava per quell’abitudine barbara che l’obbligava ad affrontare il freddo, il ghiaccio, o magari aprirsi un varco nella neve, per fare un lavoro che non interessava a nessuno.
Ore sette: campanella e campaniello avvisavano che stava per iniziare la prima Messa, detta anche messa-letta o missitella; (messaggio per le vecchiette).
Se non c’erano feste, morti o incendi si arrivava a mezzogiorno. Senza campane? Ma no! C’erano i campanacci degli armenti che andavano al pascolo!
E l’orologio del Comune?
Una parte minoritaria della popolazione non gradiva che il monopolio della comunicazione fosse appannaggio esclusivo della Chiesa, così s’era fatto di tutto per costruire una torre dell’orologio, proprio a ridosso del palazzo baronale, per scandire un tempo “laico”. Si era disquisito a lungo se mettere solo il quadrante o anche le campane ed era prevalso quest’ultimo suggerimento, perché “mica tutti sanno leggere e fra i pochi che lo sanno fare, ma non vedono bene, non sempre hanno la possibilità di comprarsi un paio di occhiali; per non parlare poi di quelli che si trovano in campagna: come fanno a vedere le ore?” Si decise per due campane: una dal suono più grave per indicare l’ora ed una più piccola per i quarti d’ora, in aggiunta a quelle della Chiesa.
Mezzogiorno: suonata “ad arm” da parte dalla Chiesa e dodici rintocchi dal Municipio. In contemporanea. Se poi era un giorno di festa, con la banda e la processione era un mezzogiorno allucinante. Roba da andar fuori di testa!
Ore 17: suonata detta “ventun’ora”. Rintocchi lenti del campanone per avvisare di fare merenda (chi se lo poteva permettere); gli scolari di lasciare la scuola e recarsi direttamente al catechismo; segnale di rientro ai contadini e pastori che si trovavano nei campi.
Ore 19: tre suonate “ad arm” del “Vespero”: tutti in chiesa!
Ore 21: “ora di notte”: 21 rintocchi lenti del campanone. Servizio destinato a quelli che si fossero perduti nell’oscurità o nella nebbia o si trovassero ancora nel bosco, in mezzo alla neve e non sapessero da che parte andare. Sembra che una volta, stando ad un’antica leggenda, un tale si fosse perso ed avrebbe potuto far ritorno a casa grazie ai rintocchi delle campane. Una sola volta, tre secoli prima, e per quell’unica volta i poveri sacristi, che si sono avvicendati, sono stati obbligati ad uscire da casa tutte le sere, in qualsiasi tempo, bello o brutto e portarsi fino alla torre campanaria per orientare l’eventuale ritardatario.
Cappa sulle spalle, sciarpa al collo, coppola, seconda sciarpa da sotto il mento e legata sulla coppola per tenerla ferma contro le raffiche di vento. Pensieri cattivi: “testa di cavolo! Non potevi rientrare prima che annottasse?”

Ciò valeva per i giorni feriali. Si aggiungano 52 domeniche, con relative Messe cantate, tre suonate l’una, modalità “ad arm ” (o “a lungo, a seconda dell’importanza della festa) e che comunicavano tre distinti avvisi:
prima suonata: guarda che tra poco comincerà la Messa;
seconda suonata: avviati sennò arrivi tardi;
terza suonata (con “accennata” finale): è l’ultimo avviso! Ritardi per fare passerella e mostrare a tutti la gonna nuova o non arrivi per niente?”
Solo nelle sere dedicate alla preparazione delle quarant’ore le donne arrivavano in anticipo, con l’intento di occupare la navata di destra della chiesa, proprio sotto il pulpito su cui salivano i frati per la predica. Il pulpito non aveva la scalinata di accesso: era appeso al muro come un nido di ‘mbriacone e per accedervi, il sacrista vi appoggiava, una scala a pioli. Pericolosamente fragile per il peso di fra’ Girolamo (al sec. Asinio Cialone), grande e grosso come il campanone, che saliva piano piano, con grande prudenza ed ogni tanto si attardava in lunghe pause, terrorizzato dai sinistri scricchiolii dei pioli; mentre le pie donne, col capo coperto dal chador, alzavano gli occhi al cielo, come rapite, la bocca ad O per la meraviglia. Solo dopo il suo atterraggio sulla piccola piattaforma del pulpito le loro espressioni passavano dalla meraviglia allo sconcerto, perché costrette ad una comparazione da cui i loro mariti risultavano irrimediabilmente soccombenti.

A seguire: Vigilia, Natale, Ultimo dell’anno (per il Te Deum di ringraziamento), Capodanno, Pascarella, Candelora, Pasqua, Ascensione, Corpus Domini, Sant’Antonio, San Rocco, San Egidio, Assunta. Santa Lucia, e vari tridui, mese Mariano ed accompagno di tutte le processioni; e dove mettiamo l’avviso di morte, di incendio, di terremoto? Insomma i Torellesi, tra sacro e profano, non si facevano mancare mai una suonata, tanto che i Tondesi, che ce l’hanno sempre avuta con quei vicini aristocraticamente sospesi nel cielo, malignavano nei loro confronti: “chissi du Turiell fenne le feste ‘nghe le cambène” insinuando che lo facessero per risparmiare sulla banda musicale ed i fuochi d’artificio. Pura maldicenza!

Intanto i soliti scrocconi di Montelapiano avevano licenziato il proprio campanaro: ormai si servivano abbondantemente delle campane suonate a Torello.
Tanta era l’abitudine alle percussioni, che i ragazzi, nel tempo libero giocavano al batocchio: si divertivano a percuotere il batocchio dei portoni e scappare a nascondersi, o, se di notte, legarlo con una lunga cordicella ed azionarlo standosene nascosti fra i rami degli ippocastani.

C’era un periodo dell’anno in cui “si legavano le campane”, per evitare che potessero suonare, neanche per un’eventuale folata di vento. Si trattava del mercoledì, il giovedì ed il venerdì della settimana Santa, durante i quali, a causa del lutto per la morte del Signore, si osservava il silenzio. Non si pensi ad un silenzio assoluto; intanto, perché l’orologio del Municipio seguitava il suo martellare laico ogni quarto d’ora, ma perché anche la Chiesa non rinunciava al suo diritto di scandire il tempo ai suoi fedeli, ed aggirava l’ostacolo del suono bronzeo, momentaneamente bandito, mandando in giro per il paese qualcuno col batocchio (detto anche battocchio).
Era una tavola di legno spessa, a forma di adaccialard, con una finestrella in cui infilare la mano e quattro cerniere, due per parte in cui alloggiavano due ferri a “C”. Con un secco roteare della mano, ora a destra ora a sinistra i ferri sbatacchiavano sul legno, producendo un suono cupo e sordo. Per rendere meglio l’idea: il battocchio era identico alle piastrelle che ha usato la NASA come rivestimento esterno dello Shuttle. Considerato che un assiduo suonatore di quello strumento era stato Enrico di Damasina, viene il sospetto che quel geniale compaesano, diventato fisico di gran fama e progettista presso quell’Ente spaziale, abbia preso ispirazione dal battocchio per il design di quelle mattonelle!
Anche i ragazzi davano il loro contributo suonando tirrecini e raganelle.
Le campane venivano “sciolte” il Sabato Santo, per festeggiare la resurrezione.
Si ricominciava tutto da capo: allegria! Allegria!



2




Durante l’anno, verso la fine di maggio, a Torello si celebrava il secondo scioglimento delle campane. Un avvenimento assolutamente laico questa volta, quasi un baccanale: i giovani diciottenni andavano a sciogliere le loro campane al casino di Chieti. La chiamata alla visita di leva coincideva col raggiungimento della maggiore età e la cartolina di precetto (di colore giallo) fungeva anche da carta d’identità: un attestato inequivocabile della raggiunta maturità sessuale, un pass per varcare quel misterioso portone oltre il quale si favoleggiavano mirabilie!
Viaggio pagato e documento gratuito. L’avvenimento era atteso da una vita, perché le loro campane erano rimaste legate sin dalla nascita. Niente avrebbe potuto scioglierle se non il matrimonio. Parlare ad una ragazza significava comprometterla agli occhi della comunità; il fidanzamento, ferocemente sorvegliato, non permetteva di raggiungere lo scopo e la vita per quei giovani era davvero dura!
Coll’avvicinarsi alla maggiore età il problema risultava sempre più drammatico e poiché si trattava di fatti rigorosamente personali, ognuno si gestiva da se, come meglio poteva, in attesa della visita di leva.
Quello era un viaggio d’iniziazione; ma anche di collaudo sulla virilità dei giovani. Non si diceva che “chi non è buono per il re non lo è neanche per la regina”? Chi non avesse superato quell’esame sarebbe diventato subito oggetto di scherno da parte dei coetanei ed avrebbe visto retrocedere la propria autostima a livelli di gran lunga sotto lo zero.
L’imperativo categorico era: “non farsi riformare.”
I regolamenti vigenti stabilivano che ad accompagnare i coscritti al Distretto Militare dovesse essere il Podestà.
L’anno precedente, a Chieti, le cose non dovevano essere andate in maniera troppo soddisfacente, tanto che il Podestà, allora in carica, era rientrato a Torello con la faccia scura e pieno di malumore. Ai primi di febbraio dell’anno seguente convocò nel suo ufficio Filippo Pappacola, detto Ostrega e, in via del tutto confidenziale gli parlò per un’ora abbondante.
- Lasciato faro a me, ostrega! – lo aveva rassicurato il convocato – puteto staro tranquillo ché ci penzerò io. –
Filippo, classe 1896, durante la prima guerra mondiale si era sfangato tre anni nelle trincee del Pasubio, col battaglione Monte Berico, gomito a gomito con gli alpini del Friuli. Con loro aveva imparato a parlare un po’ italiano e un po’ furlano, compreso il repertorio di tutte le bestemmie, la cantilena e l’intercalare della parola “ostrega”; termine che al suo ritorno gli era stato affibbiato come nomignolo, soppiantando quello di Pappacola.
Filippo Ostrega era, a suo modo uno sveltone, un uomo pieno di buona volontà, che la guerra aveva emancipato rispetto a quelli rimasti in paese. Come segno di distinzione, ed anche per adeguarsi ad un certo clima di cambiamento, si piccava di parlare in italiano ed aveva elaborato una sua teoria, per certi aspetti non del tutto campata in aria, secondo la quale il dialetto di Torello discendesse direttamente dalla lingua italiana; solo che, una volta arrivata in montagna, quest’ultima aveva perso quasi tutte le vocali, forse a causa del vento, come un albero che ha perso le sue foglie. Sarebbe stato un gioco da ragazzi riattaccarle ai rami. L’inghippo stava però nel fatto che egli le riattaccava a casaccio, a prepacchia, e ne veniva fuori una parlata che stava tra il volgare ed il grammelot: il torrelot.
Filippo aveva convocato, in maniera molto riservata, una diecina di visitandi, scelti fra i più a rischio, per indottrinarli a dovere. Luogo di convocazione: il pagliaio di Sanghitte. Qui di seguito si riporta il suo intervento, trascritto da anonimo, ed ora consultabile presso l’archivio comunale.

Trascorsero tre mesi ed i futuri giovani coscritti si aggiravano nervosi nei pressi del muro di zì ‘Ndrije, con la speranza di vedere il Messo comunale attaccare il manifesto della chiamata a Chieti. Facevano i turni di guardia con l’intesa di passarsi la notizia l’un l’altro. E finalmente il grande giorno! Il Messo si diresse verso la cantonata, col tragno della colla ed un pennello: spalmò la colla sul muro e vi attaccò il manifesto che si era sfilato da sotto il ditillo.



DISTRETTO MILITARE DI CHIETI
CHIAMATA ALLA VISITA MILITARE.


Tutti i giovani della classe Millenovecento….. Ed appartenenti al II° III° e IV° scaglione sono precettati a presentarsi il giorno 15 maggio, alle ore 9, nei luoghi sotto indicati per sottoporsi alla visita di leva.
Visti gli art. uno e due del Regio decr. Legge ecc. ecc.



Omissis….



Allo scopo di rendere più agevoli gli spostamenti dai luoghi di provenienza, e su interessamento di S.E. il Prefetto di Chieti vengono accolte le richieste delle Municipalità della valle di Sangro, pertanto una commissione “ad hoc” si recherà nei luoghi interessati.


SI STABILISCE:



che i giovani di leva della valle di Sangro debbano presentarsi non più al Distretto Militare di Chieti, bensì presso la Scuola di Avviamento di Villa Santa Maria.


Firmato: Il Generale responsabile del Distretto.



I coscritti rimasero impietriti davanti alla ferale notizia. Non volevano credere a ciò che avevano letto. Era possibile una tale sciagura? Ciascuno chiedeva conferma al vicino - ma ho letto bene?-
Peppe Cocciammuoije cominciò a dare delle capocciate contro il muro, fino a ridursi la fronte come una grattugia. Luigi Flascone dispiegò tutto un rosario di bestemmie, che avrebbe fatto arrossire persino un Toscano; a molti s’inumidirono gli occhi; uno pianse senza ritegno.
Al mattino seguente tornarono sul luogo incriminato per sincerarsi di non aver fatto un brutto sogno.
Si avvicinarono al manifesto, ma notarono una novità. Durante la notte una mano ignota, non si saprà mai se di persona sconsolata o ironica, aveva tracciato sul manifesto una scritta con vernice nera:







Fine


Torello, 2 gennaio 2015.


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