RICORDO DI ARTURO FERRARI di Riccardo D'Auro
Arturo Ferrari è morto il 28 gennaio 2003 a Borrello, nel mese che, forse, è stato il più luttuoso degli ultimi anni in cui si è rotto l’equilibrio demografico con il netto sopravvento delle morti sulle nascite. Una realtà inquietante, soprattutto per gli anziani che “sentono”, secondo il gergo militare, l’avvicendamento in prima linea. Di contro, il tessuto urbano del paese cresce ancora e l’anomalia è oggetto di commento specialmente in occasione dei decessi.
Arturo non è stato un uomo importante, come spesso si trovano nei piccoli centri per la politica, la cultura o altro, ma sicuramente è stato un cittadino rappresentativo per l’attività che ha svolto. Quale frequentatore del paese, anche occasionale, non lo ha conosciuto durante un cinquantennio di gestione dell’unico CAFFE’? Chi non lo ha chiamato da fuori, quando i telefoni erano rari, per partecipare o acquisire una notizia, per fissare un appuntamento o per qualcos’altro? Era molto disponibile e di una riservatezza unica e per i tanti emigrati, soprattutto quelli sparsi nelle varie regioni italiane, era la voce amica, il tramite, attraverso il quale sentivano, in sottofondo, il clamore degli amici presenti nel bar, un’occasione, anche, per lenire la struggente nostalgia della lontananza.
Tornato dalla prigionia alla fine del 1945, attese alla ricostruzione della casa ed all’esercizio del mestiere di fabbro dal quale era stato distratto, all’esordio, dalla guerra che gli aveva anche impedito di unirsi con la giovane moglie. Mi aveva narrato la sua odissea per “TORNANO LE RONDINI”, inserita come caso emblematico nel capitolo dedicato al ritorno dei prigionieri. Commovente il racconto del lavoro in una fabbrica che era stato costretto ad accettare per la fame, per poter acquistare qualche patata per integrare la brodaglia del campo. Un anziano operaio tedesco, per rinfrancarlo, qualche volta gli faceva trovare nascosto un gamellino con il cibo, segno che anche in quel popolo vi era umanità. Mi diceva che era riuscito a saziarsi solo qualche tempo dopo il ritorno a casa e che per appagare la sua gran voglia di frutta, di fichi specialmente, gli ci era voluta tutta l’estate.
A Borrello con la ricostruzione rinasceva anche la qualità della vita e Arturo nel 1947 ebbe l’intuizione di aprire il BAR, all’inizio Circolo Ricreativo, che di giorno veniva gestito dalla moglie. Fu una grossa innovazione anche se alcuni, soprattutto i frequentatori delle due bettole presenti in paese, esprimevano le loro perplessità sulla sua tenuta. Ma dovettero presto ricredersi.
La posizione strategica del locale, nel punto nodale del paese, non poteva sfuggire alla vista dei passanti e i forestieri, non fosse altro per chiedere un’informazione a quelli che sostavano fuori, si fermavano e l’occasione era buona per prendere un caffè. Ma a far decollare l’attività furono fondamentali il saper fare, la disponibilità e la grande umanità dei gestori. I tempi erano però difficili, si era in piena ricostruzione ed i soldi in circolazione erano pochi, e le consumazioni, oltre ad essere saltuarie, si limitavano ad un caffè o a qualche bicchiere di birra. Però, per aumentare la clientela Arturo spesso doveva surrogare le spese del bar con quelle del proprio lavoro che gli permettevano anche di accordare a qualcuno, talvolta, il credito. A migliorare l’economia locale, e di riflesso a consolidare la sussistenza del bar, provvidero qualche anno dopo i lavori di costruzione del bacino idroelettrico del Sangro. I turni di lavoro assorbirono molta manodopera che percepiva, per la natura dell’opera, una paga più alta del normale. Il bar, anche in virtù di un orario di servizio più ampio, andò via via animandosi, mentre migliorava la qualità dell’offerta del prodotto che raggiunse l’optimum con la produzione del gelato. Incontrò subito anche il favore dei paesi vicini, dai quali venivano numerosi a rafforzare la richiesta già alta per la presenza delle famiglie in ferie, una novità, questa, che il cambiamento dei tempi incominciava ad imporre. Il bar non risentì troppo dell’emigrazione perché i residenti erano numerosi e le famiglie, per gli assenti, costituivano un forte richiamo nella stagione invernale.
Arturo era paziente ed assecondava in tutti i modi la clientela, soprattutto la parte più avanzata negli anni che spendeva poco, ma che assicurava una presenza costante. La loro consumazione abituale era la tazzina di caffè o qualche bevanda che, in genere, costituiva anche la posta del giuoco spesso girata dal vincitore a chi lo aveva da ultimo battuto. Si rifaceva, però, con i tavoli forti, numerosi d’inverno e nei giorni di festa, dove imperversava “la legge”. Intorno si radunava un folto capannello di assistenti attenti alle requisitorie dei principi del foro i quali, con il passare delle ore, finivano per inciampare nelle insidie del codice.
Arturo annotava la galleria di personaggi, spesso protagonisti di gustosi quadretti, che sfilavano davanti al suo bancone. Il ricco avaro che sbirciava con invidia, mentre pagava, le monete nel tiretto, un’entrata che gli sembrava cospicua e sulla quale azzardava anche un commento. Il gobbetto beone, che già alticcio, non voleva uscire per la sosta del pranzo di un giorno di festa e che si disse ben felice di rimanere chiuso nel locale. Ma, si ritrovò fuori di peso dopo un…. saggio ripensamento. Gli sfottò successivi alle sconfitte elettorali. Famosa la battuta diretta all’elettore di un partito che aveva perso tutti i seggi: “cumpà, e che diavre c’èrréviete, ntenete cchiù manche na preserelle pass‘ettarve…!” E, di rimando, un bel vaffa. E tante altre che amava raccontare agli amici durante le pause distensive per una sana risata.
I giovani intrattenevano con Arturo un rapporto privilegiato perché, da buon sportivo, era rimasto giovane anche lui. A Castel di Sangro, dove aveva imparato il mestiere, aveva giocato con profitto nella squadra di calcio locale, allora la migliore di tutto il territorio, e se avesse continuato sarebbe diventato sicuramente un calciatore famoso. Per questo lo rispettavano e tenevano in considerazione il suo parere sulle squadre del campionato, ma soprattutto i suoi consigli in occasione delle partite che saltuariamente si giocavano d’estate con gli altri paesi, o di tornei locali che si appoggiavano al suo bar. Non per niente il locale aveva assunto il nome di BAR DELLO SPORT. La domenica era possibile ascoltare la radiocronaca di una partita che seguiva, con uno orecchio, anche lui. Una volta che lo chiamavano con insistenza al tavolo, mentre era concentrato sugli ultimi istanti di una partita che la sua Juventus non riusciva a raddrizzare, ci andarono di mezzo dei bicchieri…. Qualche volta, però, i giovani lo facevano arrabbiare, ma per l’affinità di intenti che aveva con loro finiva sempre per rabbonirsi rapidamente. I nuovi giuochi di cui il bar si dotava erano spesso la causa.
Prima il campo di bocce, dove le partite si giocavano con un agonismo vigoroso e chiassoso, anche per il tifo dei numerosi spettatori. Poi il calciobalilla in cui, specialmente nei primi tempi, la forza prevaleva sull’abilità, fastidiosissimo per gli attempati tressettisti che spesso venivano raggiunti da palline impazzite. Per taluni la passione era travolgente, una vera ossessione dalla quale venivano assaliti perfino nel sonno. Seguì il bigliardino che prudenzialmente fu allogato in un locale annesso al bar, ma pure lì si disputavano sfide accese, anche se tra i contendenti spesso figurava qualche giovane professionista. Ma presto si passò a qualche scherzo pesante, d’estate, con la presenza massima degli studenti. Accadeva che, spenta la luce con un tocco di stecca, il predestinato veniva fatto oggetto di un gavettone, mentre gli autori si defilavano tra schiamazzi inauditi. Arturo una sera si trovò ad entrare proprio mentre era in atto l’insano rituale impattando con i fuggiaschi che, guarda caso, erano proprio i sunnominati professionisti che si limitò a seguire con uno sguardo raggelante. Fissò, scuro in volto e senza parlare, gli astanti, tra i quali vi era, incredibilmente, anche qualche maggiorente, ma girò i tacchi e se ne andò sbattendo la porta. Seguì presto il sereno, dopo tutto i giovani rappresentavano la clientela eletta del futuro ed anche perché non è possibile concepire un bar senza la loro vitalità, in fondo si trattava di ragazzi semplici. Molti di essi frequentavano le scuole alberghiere, altri lavoravano già nel settore, a Napoli in prevalenza, coi quali Arturo si divertiva interloquire nel pittoresco vernacolo di quella città. Riprese, una volta, alcuni di loro alquanto irrequieti e si sentì rispondere, dal più calmo, una vera sagoma: “donn’Artù, ma chille è Raféle che fa ammuine”, una battuta che scatenò una risata generale.
Il bar si arricchì della televisione che trovò subito un alto gradimento, anche delle famiglie che in occasione di spettacoli interessanti accorrevano numerose. La novità meravigliò un vecchio avventore, forse il decano, che, all’esordio, non si capacitava che uno schermo così piccolo potesse contenere una grande banda musicale…Più oltre arrivò il jukebox, che presto cominciò a richiamare anche le ragazzine, ma che tolse la pace a quasi tutti gli avventori. Infine, i videogiochi, strumenti fracassoni che interessarono non solo i ragazzi ma anche i più grandi.
Intanto, la comunità perdeva sempre più gente ed il bar diventava il punto dove gli anziani si sentivano in compagnia. Anche Arturo invecchiava e dopo una vita di lavoro aveva, come tutti gli altri, il diritto di godersi il meritato riposo, così decise di smettere l’attività entro il 31 dicembre 1996. Una decisione necessaria, ma sofferta e man mano che la data si avvicinava aumentava la sua tristezza, infatti nemmeno la persona più insensibile non può non risentire dell’interruzione netta di un rapporto avuto con la gente per ben cinquant’anni. Durante gli ultimi giorni dell’anno, quelli che di solito erano stati più gioiosi anche per la vita del bar, Arturo, pur sforzandosi, non riusciva a mascherare completamente il suo malessere. Uno stato d’animo che trasmetteva anche a tutti quelli che vedevano svanire un grosso pezzo della loro vita. Alcuni di noi che eravamo stati, nello stesso tempo, la sua gioia e la sua disperazione decidemmo di andare a trascorrere, nel luogo che ci era stato così caro, il pomeriggio dell’ultimo dell’anno, per fargli sentire il nostro calore e per gli auguri di ogni bene. Ma forse Arturo non se l’era proprio sentita di riaprire e così la chiusura di mezzogiorno fu anche quella definitiva del glorioso BAR DELLO SPORT che rappresentava anche la fine di un’epoca!
La cessazione dell’attività fu per Arturo traumatica, come pure per i numerosi suoi amici che passando, quasi ubbidendo ad una forza irresistibile, ne venivano ancora attratti. Nelle giornate di sole lo si incontrava quasi sempre nella piazzetta antistante casa intento a parlare con qualcuno, un gruppo che si infoltiva man mano anche per il richiamo della invitante fontana per una bevuta ristoratrice. La conversazione, a lungo andare, scivolava quasi sempre sul bar e sui ricordi, un discorso che lui, me presente, spesso introduceva con un: “t’arcuorde de quanda savame povre?”. Un intercalare che ricorreva spesso e che ci riportava ai primi tempi del bar, agli anni difficili del dopoguerra, una chiara allusione alla mia generazione di ragazzi esuberanti, insofferenti e squattrinati, ma, in fondo, buoni e leali. Vedevamo qualche lira al ritorno delle vacanze natalizie e quasi tutte le sere tiravamo a far tardi, mentre Arturo approfittava per le pulizie. Una volta il rumore dei tavoli spostati, quello del compressore, il denso fumo richiamato dalle lampade, suggerirono, in analogia con l’atmosfera suscitata dai cantieri del Sangro, l’accostamento dell’ambiente ad una di quelle gallerie. Ridevamo tutti del paragone e delle altre spiritosaggini dette prima e durante lo svolgimento della legge a torroni, che il “padrone” era costretto a mangiare tra lazzi e sberleffi di ogni sorta e con gli auspici …che gli fossero andati di traverso. Uno, particolarmente fortunato, si ingozzava a crepapelle, e, per non incorrere nella maledizione, si sforzava di trattenere il riso ed i pezzetti di torrone che cominciavano ad uscirgli dalla bocca. Emetteva anche strani sibili che furono definiti molto simili a quelli di un groviglio di serpi in amore, una definizione che rafforzò le risate ed il rischio del soffocamento. Arturo, smesso il ruolo del “capocantiere” solerte, divertito, partecipò al gran finale della nostra notte brava e da allora noi lo abbiamo spesso chiamato, confidenzialmente, con l’epiteto, che lui ricambiava, di “Capo”.
I ricordi, a quel punto, si spostavano sui tempi migliori, quelli della crescita del Paese alla quale era legato anche lo sviluppo della nostra comunità. Tanti e bellissimi. Una sera, anzi una notte, chiuso il bar fu deciso di andare a chiudere la Festa di Rosello. La Topolino cominciò a gemere dopo il ponte, e ne aveva ben donde, perché all’arrivo i passeggeri non finivano mai di scendere, con grande meraviglia che gli astanti esprimevano anche per la notorietà dei passeggeri. Don Orlando aveva celiato sulle taglie di Ciro e del Barbiere, inferiori alla sua, senza però nulla aggiungere su quelle di Arturo, di Peppe Di Renzo e del sottoscritto. Era divertente anche rievocare gli scherzi frequenti e qualche volta pesanti, come quello che combinammo ad uno che era solito farsi il primo sonno nel bar. Venne rivestito con due grossi manifesti, infilati come una pianeta, mentre un terzo fu posto per terra, ritagliato a guisa di miccia. Contemporaneamente alla sua accensione venne lanciato un forte grido, mentre Arturo, riaccendendo la luce e simulando stupore, gridava il suo sdegno all’indirizzo degli autori che si erano dati a fuga precipitosa, non senza, però, rimproverare il malcapitato per essersi lasciato schernire in quel modo! Quello, frastornato, si ritirò mugugnando, ma il vizio non lo perse. E si poteva continuare all’infinito.
Ma i ricordi di Arturo andavano ben al di là della cronaca o degli aneddoti su molti della sua vasta clientela. In mezzo secolo di attività aveva acquisito una certa capacità psicologica che gli permetteva di interpretare lo stato d’animo e le passioni. Una sensibilità che spesso riusciva a scavare nell’intimo trovando nel soggetto delle qualità diverse da quelle che apparivano alla generalità. Ricordava con rispetto e commozione gli innumerevoli scomparsi di quella grande umanità. Insomma, un uomo che con la sua attività non aveva avuto con le persone soltanto un rapporto di lavoro, o meglio commerciale, bensì aveva coltivato con loro una forte amicizia ed un rapporto umano di grande intensità.
Arturo, come tutte le persone buone, non aveva mai parlato delle sue condizioni di salute che ad un occhio attento apparivano in continuo peggioramento. Così, quasi in silenzio, è uscito da questa vita lasciando un grande vuoto, non solo nella sua famiglia.
Pescara, 18 marzo 2003
Riccardo D'Auro
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