PER RICORDARE IL 70° ANNIVERSARIO DELLA DISTRUZIONE DI BORRELLO
di Riccardo D'Auro


Il 9 novembre prossimo ricorrerà il 70° anniversario della distruzione di Borrello, una data che non può e non deve essere dimenticata. E’ questo il senso del presente scritto.

Fu un anno funesto il 1943, il quarto dall’inizio della guerra, che fece svanire completamente i sogni di gloria di Mussolini responsabile della partecipazione dell’Italia al conflitto scatenato dal suo amico Hitler. La decisione di intervenire fu determinata dagli straordinari successi che stavano ottenendo, dappertutto, le armate tedesche. Giustificò un atto di tale importanza, che poteva avere delle conseguenze imprevedibili, dichiarando che gli occorreva qualche migliaio di morti per potersi sedere al tavolo della pace. Dunque, a parere del Duce, quella sarebbe stata una guerra di breve durata. Seguirono, invece, cocenti delusioni che fecero subito apparire l’inconsistenza e l’impreparazione del nostro esercito, di potenza ed armamento assolutamente inferiori a quelli degli eserciti moderni. Due modesti banchi di prova rivelarono subito, infatti, le sue deficienze in ogni settore: la campagna di Grecia e la perdita dell’Impero, che era stato conquistato con enorme dispendio di uomini e di mezzi appena cinque anni prima. Altrettanto accadde con la guerra in Libia in cui, come in Grecia, fu necessario l’intervento dei tedeschi.
Oltre agli insuccessi il numero delle perdite umane divenne enorme, sui vari fronti e per i violenti bombardamenti aerei sul territorio nazionale che causarono danni ingenti e sacrifici della popolazione civile. Una catastrofe che annullò quanto di buono Mussolini aveva fatto durante il ventennio di potere assoluto.

Il 1943 iniziò con la ritirata dalla Russia dell’ARMIR, un’armata di circa 300.000 uomini che comprendeva anche tre divisioni alpine – la Julia, la Cuneense e la Tridentina – inviata nel mese di agosto dell’anno precedente in sostituzione del Corpo di spedizione di dimensione ben più ridotta. Il Duce aveva insistito per farlo partecipare al conflitto, mentre la forza successiva era stata richiesta direttamente dal Fuhrer per essere impiegata nella conquista del Caucaso dove gli alpini avrebbero dovuto avere un ruolo preminente. Invece, per esigenze strategiche impreviste tutta l’armata venne schierata sul Don a presidio di una linea di 270 chilometri, che aveva alle estremità quelle romena e ungherese.
La travolgente avanzata iniziale dei tedeschi si era già arrestata nel corso della prima invernata a causa dei duri rigori stagionali. Alla vigilia di quella del 1942-43, però, vennero bloccati dall’imponente contrattacco dell’Armata Rossa, che tra dicembre e gennaio ebbe ragione di Stalingrado e dell’ intera linea del Don.
Al primo impatto le nostre divisioni di fanteria vennero travolte mentre il Corpo d’armata alpino resistette all’urto. Alla Julia, spostata più a sud dello schieramento, oltre la Kalitva, venne ordinato di resistere al massimo per cercare di evitare la manovra avvolgente dei russi. Dopo oltre un mese di aspri combattimenti le tre divisioni, con la Vicenza di fanteria aggregata, furono costrette alla ritirata. Il 17 dicembre iniziarono su itinerari diversi “l’avanzata all’indietro” verso Ovest, che si concluse il 30 gennaio. La marcia estenuante, con una temperatura tra i 30 e i 40° sottozero, e spesso anche oltre, la fame e i continui attacchi nemici, stremarono gli alpini. Dei circa 60.000 uomini tornarono a casa, alcuni anche dieci anni dopo, soltanto 20.000. Una percentuale, questa, di entità circa pari a quella subita dall’armata.
La partecipazione dei soldati italiani alla campagna di Russia fu l’ultimo atto inconsulto dovuto alla vanità del nostro dittatore attorniato da uno Stato maggiore formato da generali vanagloriosi, carrieristi ed incoscienti, che non lo avevano mai messo al corrente delle reali condizioni dell’esercito. Unico a farlo, ma fu inascoltato, il generale Giovanni Messe, comandante del Corpo di spedizione originario. E così l’ARMIR, inviata con armamento ed equipaggiamento antiquati ed inadeguati alle condizioni ambientali, rientrò dalla Russia massacrata.


A fine gennaio del 1943 le forze italo-tedesche, subita la disastrosa sconfitta di El Alamein, dettero inizio alla ritirata dalla Libia, che si concluse in Tunisia ai primi di maggio con la sconfitta definitiva per mano degli americani pronti all’invasione dell’Italia. Fu l’addio definitivo della nostra avventura colonialista

Il 10 luglio, precedute da intensi bombardamenti sulle grandi città e specialmente sulla Sicilia, due armate anglo-americane sbarcarono sull’isola annientando il grandioso sistema difensivo che la propaganda faceva credere fosse invalicabile. La guerra dai fronti lontani ci raggiunse causando, in circa due anni di permanenza sul suolo italiano, enormi disastri e gravi perdite di vite umane.

L’inatteso evento ed il bombardamento di Roma provocarono la riunione del Gran Consiglio del Fascismo, che nella notte del 25 luglio votò la sfiducia a Mussolini ritenuto responsabile della situazione catastrofica in cui era venuta a trovarsi la nazione. L’esercito continuò a combattere e a retrocedere a fianco dei tedeschi, i quali, prevedendo la nostra resa avevano da tempo preso le debite misure che scattarono l’8 settembre contestualmente alla richiesta di armistizio e allo sbandamento dell’esercito. Cercarono di resistere con l’intento di arrestare l’avanzata nemica sulle montagne dell’Abruzzo, un piano in cui fu compreso anche Borrello, che venne raso al suolo per la sua posizione ricadente nel territorio della famigerata linea di resistenza Gustav. Seguirono per il nostro paese la macchia e poi sei mesi trascorsi nella terra di nessuno a lavorare come dannati per rimetterci sotto un tetto, sotto le bombe di entrambi i contendenti.

Chi avrebbe mai creduto che il nostro sperduto paese sarebbe stato travolto da una guerra cominciata tanto lontano? Che avremmo perso tutto e dovuto penare tanti anni per ritornare nelle condizioni di esseri civili? Fu un’esperienza terribile dalla quale uscimmo profondamente colpiti soprattutto noi giovani.
Sono ormai trascorsi settanta anni dal passaggio della guerra in Abruzzo, che investì per primo il territorio alto della sponda destra del Sangro messo a ferro e fuoco dai tedeschi prima di ritirarsi sull’altro versante. La distruzione di 11 comuni ebbe poca risonanza e quando saranno scomparsi i sopravvissuti, che hanno cercato in ogni modo di divulgarne la memoria, di essa non si parlerà più. Borrello in occasione del compimento del sessantesimo rievocò la tragedia con un dibattito storico patrocinato dall’Istituto Abruzzese per la Storia della Resistenza e dell’Italia Contemporanea. All’Amministrazione comunale, quindi, spetterebbe di tenere viva con altre iniziative la memoria di un avvenimento così importante.
Dovrebbe fare in modo che il crescente numero di visitatori richiamati dalla bellezza delle cascate, molti dei quali sono attratti anche dal paese, sia informato dell’evento più grande della sua storia millenaria. Pochi di essi conoscono che gli ampi spazi verdi del centro storico ricoprono i ruderi del paese antico in cui la mattina del 9 novembre del 1943 ebbe iniziò la distruzione. Sull’area in cui sorgeva il fabbricato che saltò in aria per primo, a ridosso del complesso monumentale, il Comune ha in programma di apporvi una stele a ricordo imperituro di quel giorno funesto.
Gli anziani auspicano che questo monumento sia pronto in occasione della celebrazione del giorno della memoria.

Gennaio 2013


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