Considerazioni sul Massacro di Altino
22 Febbraio 1799

di Angelo Ferrari

L’uccisione di 5 abitanti di Borrello, Alessandro D’Auro dottore fisico di 65 anni, don Carlo Zocchi sacerdote sessantenne, don Giulio Zocchi sacedote di 39 anni, don Domenico Elisio sacerdote di 33 anni e Silverio Zocchi studente ventenne, avvenne il 22 febbraio 1799 ad Altino e viene indicata come uno dei tanti eccidi massisti avvenuti nell’ambito delle vicende relative al breve periodo della Repubblica Partenopea.

Di questa violenta esecuzione si sono occupati diversi autori: è citata per la prima volta nel 1998 da Eugenio Maranzano nel suo preziosissimo libro “Borrello tra i vicini comuni della Val di Sangro” inesauribile fonte di accurate informazioni; nel 1999 Annamaria De Cecco se ne è occupata nell’articolo “La valle nella tempesta, testimonianze notarili sulla Repubblica Giacobina nel Sangro-Aventino” pubblicato dall’editore Tinari su “Abruzzo – Rivista di storia del territorio abruzzese”; subito dopo la De Cecco insieme a Miria Ciarma è tornata sull’argomento citandolo nel 1° volume de “Il 1799 in Abruzzo”; infine Riccardo D’Auro in un suo scritto pubblicato sul sito web www.borrellosite.com (questo sito, ora borrellosite.it n.d.r.)



BREVE CRONOLOGIA DEL FATTO
(Desunto dalle fonti sopra citate)

All’inizio di febbraio 1799 alcuni cittadini di Borrello, contadini da sempre sfruttati dal persistere di antiche prerogative feudali, si erano appropriati con la forza delle terre di Pilo appartenenti alle tenute del feudo baronale di Borrello. Non siamo di fronte ad una collaborazione con i repubblicani giacobini e nemmeno alla conseguenza di una convinta adesione alle idee francesi di libertà e abolizione dei privilegi, ma piuttosto ad un tentativo della popolazione più povera sottoposta al barone di scrollarsi di dosso i vecchi obblighi feudali, attraverso un atto di forza attuato in un momento di debolezza delle istituzioni del Regno di Napoli.

Il 14 febbraio in una taverna di Borrello vengono sequestrate ad un corriere proveniente da Atessa e diretto a Napoli due lettere del barone di Borrello Felice Mascitelli nelle quali egli esprimeva ai destinatari tutti i suoi timori per l’eventualità di perdere titolo, feudo, potere e prestigio a causa delle nuove leggi della Repubblica Partenopea.

Il 19 febbraio i massisti giungono a Borrello e quattro dei cinque Borrellani coinvolti vengono catturati dalla banda armata proveniente da Altino, senza nessuna motivazione apparente.

Il 20 febbraio dopo l’arresto del quinto prigioniero, l’Arciprete don Domenico Elisio, la banda riparte da Borrello con i catturati, alla volta di Altino, dove arrivano presumibilmente nella giornata del 21 febbraio.

Il 22 febbraio 1799 i cinque Borrellani vengono trucidati ad Altino e sepolti nella locale chiesa di Santa Maria del Popolo.

Poco tempo dopo la morte dei cinque, la famiglia della sorella di Alessandro D’Auro arriva a Borrello e si impossessa di tutti gli averi del morto, compreso il denaro contante della moglie Anna Luisa Romerj, deceduta precedentemente, e subito dopo comincia a mettere in vendita anche le case di proprietà di Alessandro.

Il 26 marzo 1799 Francesco Antonio Corsi notaio e Michelangelo D’Auro, parenti di Alessandro d’Auro, insieme ad altri due testimoni di Borrello, rilasciano una testimonianza al notaio di Rosello, secondo la quale i cinque protagonisti furono effettivamente catturati il 19 di febbraio.

Nel settembre del 1799 Vincenzo Romerj di Chieti, cognato di Alessandro D’Auro ricorre al tribunale di Chieti, la Regia Udienza, cita l’orrendo massacro del cognato e indica il Barone Felice Mascitelli, feudatario di Borrello, di essere il responsabile dell’eccidio, dichiara corrotto il tribunale di Borrello, quello presieduto dal Barone, e sospetta che questi voglia acquistare le case che Alessandro d’Auro possedeva a Borrello dalla sorella di lui.



IL REGNO DI NAPOLI ALLA FINE DEL 1798

Per contribuire a fare chiarezza sull’accaduto ho ritenuto utile fornire un contributo per meglio descrivere il quadro degli avvenimenti storici che caratterizzava all’epoca il Regno di Napoli e in particolare le regioni abruzzesi. Si tratta di una sintesi generale di ampio respiro rispetto al singolo episodio in questione che spero possa aiutare a comprendere meglio il clima nel quale maturò questo fatto violento.

Nell’ultimo decennio del 1700 il Regno di Napoli è di fatto nelle mani di tre personaggi critici, quali il re Ferdinando IV, che Benedetto Croce benevolmente descrive come “… un uomo pacifico, dedito alla buona tavola e alla caccia alle femmine …”, la regina Maria Carolina, ambiziosa e volitiva, ossessionata da ciò che accadeva in Francia dopo il 1789 e soprattutto dopo l’esecuzione capitale della sorella Maria Antonietta regina di Francia, infine il ministro Acton per il quale la politica è innanzi tutto un mezzo al servizio della propria cupidigia e della propria avidità. In tutto il regno vengono infittiti i controlli di polizia per bloccare sul nascere qualsiasi segno riconducibile alle nuove idee che provenendo dalla regione francese si diffondevano rapidamente fino al sud Italia.

Allo stesso tempo il re si rende conto di non possedere un esercito adeguato per potersi difendere dalle mire espansionistiche della Francia e a partire dal 1794 avvia un vasto progetto di riforma delle forze armate, ma di fronte all’invasione francese di li a pochi anni, il lavoro fatto si sarebbe rivelato insufficiente. Dal 1796 inizia una diffusa militarizzazione dell’Abruzzo, regione strategica per la difesa del Regno, in funzione di opposizione alle campagne francesi nell’Italia del nord; in particolare il centro del sistema difensivo è collocato a Sulmona in considerazione della sua favorevole posizione tra le più importanti vie di comunicazione dell’area.

La situazione precipita quando alla fine di novembre il generale francese Championnet da Roma entra nel Regno di Napoli e il 3 dicembre inizia l’occupazione militare dell’Abruzzo. Invia sul posto il generale Duhesme e il generale Lemoin i quali con azioni fulminee occupano le fortezze strategiche della regione, Civitella del Tronto, Pescara, L’Aquila, Città Ducale e poi convergono su Sulmona. A questo punto l’invasione francese e la guerra sono alle porte della vallata del Sangro, ma per il momento i centri interessati sono essenzialmente quelli dell’alto Sangro.

Prima di questo periodo gli Spagnoli avevano considerato l’Italia meridionale una provincia del Regno di Spagna e di conseguenza nessuno si era adoperato per costituire un esercito italiano locale, Ferdinando IV è vero ci aveva provato, sotto la spinta del pericolo imminente, ma non ne aveva avuto il tempo e difatti di lì a poco avrebbe pensato bene di fuggire con la famiglia e buona parte della cassa dello stato in Sicilia. In conseguenza di ciò a partire dal dicembre 1798, dopo la fuga del re, tocca alla popolazione reagire contro i 12.000 invasori francesi e prendere le armi: fucili, asce, forconi e sassi, per difendere le famiglie, le case, la terra e anche il re. In effetti Ferdinando IV aveva inviato per il regno emissari, per la verità dalla condotta non sempre esemplare, per incitare la popolazione a salvare la patria dai cattivi in nome di Dio e vengono approntate ovunque vere e proprie bande armate in funzione antifrancese, mentre i più colti e una piccola parte del clero osservano con interesse il vento delle nuove idee di libertà e uguaglianza.

Accade però che a questi contadini, improvvisati soldati, armati con poco o nulla oltre il coraggio e la convinzione di combattere per il giusto, si affiancano, spesso sopraffacendoli in numero e in ferocia, reietti, ex carcerati, sbandati, ladri e assassini. La nobiltà, i possidenti e il clero sostengono e indirizzano ai loro fini la reazione antigiacobina del Regno di Napoli e in nome della difesa della patria e della religione, contro i Francesi e i loro simpatizzanti, vengono compiuti omicidi, violenze, tradimenti, sacrilegi, impiccagioni, squartamenti e persino atti di cannibalismo. Non è difficile dubitare della buona fede di tali loschi personaggi, molti di costoro portano dietro coccarde repubblicane e coccarde della monarchia che appuntano sulla giacca a seconda che la situazione militare volga a favore dell’esercito francese o napoletano.

Tra la fine del 1798 e gli inizi 1799 vengono rubati gli arredi sacri in molte chiese, sono accusati di simpatia verso i Francesi molti possidenti con il solo fine di derubarli e saccheggiare le loro case, vengono assassinati nemici personali e vicini insofferenti: basta un semplice sospetto o una vaga denuncia per essere dichiarati giacobini, arrestati e impiccati senza alcun tipo di giudizio. Inoltre sciacallaggi, incendi, furti e altre crudeltà sono commessi da tutti i protagonisti: esercito francese, esercito regolare napoletano, masse contadine, giacobini, legittimisti, realisti, municipalisti e sanfedisti.

Come spiegare tutto ciò? Come è stata possibile tanta violenza tra la gente dello stesso popolo in contrade fino ad ora isolate e tranquille? Le masse, vere e proprie bande armate, sono costituite inizialmente da pastori e contadini e sono convinte di combattere per la propria gente, per i propri beni, per il regno e per il re, che garantiva l’ordine sociale messo a rischio dai nuovi conquistatori stranieri, ma esse sono anche manovrate da emissari reali, dalla maggior parte del clero e dai baroni locali. Tutti costoro avversano i Francesi e più ancora le idee di libertà che essi propagano e per questo favoriscono a capo delle bande di massa personaggi violenti, facilmente influenzabili ai loro fini, talvolta reclutati nelle carceri, condannati, nobili diseredati pieni di rancore, disertori, fuoriusciti accecati dall’odio, preti di dubbia vocazione e altri ancora. In particolare molti parroci, per un eccesso di zelo, contribuiscono agli appelli del re, incitando durante le omelie il popolo ad insorgere con ogni mezzo contro i nemici invasori.

Questo è il quadro di sintesi del periodo storico nel quale maturano la cattura, la condanna a morte e l’uccisione dei cinque cittadini di Borrello, ma veniamo alla cronaca di quei mesi e ai fatti più salienti.



IL QUADRO STORICO E POLITICO 1798-1799

Chi sono i capimassa? Quali sono le loro azioni più clamorose e le loro maggiori colpe? Giuseppe Pronio di Introdacqua è senz’altro il più noto, opera tra Sulmona, Roccaraso e l’Adriatico, tra le sue imprese più note la sconfitta inflitta ai Francesi a Sulmona nel gennaio del 1799 e la conquista della fortezza di Pescara alla fine di giugno 1799. A Sulmona agiscono protetti dal territorio delle montagne circostanti Marco Spacone, Pasquale Giannarisca, Domenico Ognibene, Camillo Corvi e tanti altri; Michele Celli, Diego Santarelli, Vincenzo Devera combattono a Popoli; Ilarione Presutti, Pelino Rossi, Epifanio Colella e altri a Pratola Peligna; Gaetano Gatta parroco di Anversa degli Abruzzi; Damaso Recchione a Campo di Giove, Salvatore di Monticchio che riprese L’Aquila ai Francesi; altri capimassa in diversi centri dell’Abruzzo, Citra e Ultra, dall’entroterra alla costa e numerosissimi altri ancora che agiscono in aree che al momento non interessano. I capimassa più vicini a Borrello operano a Castel di Sangro e sono concentrati contro i Francesi che provenendo da Sulmona proseguono verso Isernia, ovviamente ci sono molti altri capetti locali. Da segnalare che molti di costoro una volta partiti i Francesi e tornato Ferdinando IV sul trono furono arrestati e impiccati sulle pubbliche piazze.

Abbiamo lasciato i soldati Francesi che ai primi di dicembre 1798 entravano in Abruzzo, l’11 dicembre il generale Duhesme occupa Teramo e si dirige verso Pescara e Chieti, qui, pensando di portare soccorso alla fortezza pescarese, vengono liberati tutti i detenuti a prescindere dalla gravità del reato commesso, ma mentre vengono armati costoro si danno immediatamente al saccheggio della città per poi fuggire. Il generale francese Lemoin conquista L’Aquila il 16 dicembre, si rimette in marcia e il 24 dicembre giunge a Popoli dove si incontra con le truppe del Duhesme. Entrambi i generali risalgono lungo la Valle della Maiella e da qui si spostano lungo la valle del Sangro dove si tengono pronti a raggiungere il generale Championnet in marcia verso Napoli lungo la costa tirrenica. Il 23 dicembre 1798 si arrende la fortezza di Pescara e la notte dello stesso giorno il re fugge da Napoli e si imbarca verso Palermo. Il 30 dicembre al generale Duhesme viene ordinato di concentrare il grosso delle truppe a Sulmona e di tenersi pronto a partire alla volta di Capua lasciando in Abruzzo i militari limitatamente alle azioni di polizia e di sorveglianza.

Il 5 gennaio 1799 il generale francese Rusca, sfuggendo alla sorveglianza della banda del capomassa Pronio, da Sulmona sale a Roccaraso e sceso a Castel di Sangro prosegue alla volta di Isernia. Diversamente le più numerose truppe del Duhesme il 9 gennaio sono intercettate dal Pronio all’imbocco della gola di Rocca Valle Oscura (Roccapia), ma vengono lasciate passare in cambio della promessa di non attaccare nel corso delle ostilità Introdacqua, paese natale del Pronio, sacrificando in tal modo la vallata del Sangro. Il giorno 11 i Francesi arrivano a Castel di Sangro dove contano di requisire le case per la sistemazione delle truppe, siamo in pieno inverno, ma gli abitanti hanno sbarrato le strade con barricate costruite con ogni genere di materiale. I Francesi sono costretti ad assalire più volte il centro abitato e sempre sono investiti da spari e lanci di sassi, mattoni, tegole, carboni accesi, olio e acqua bollenti e non pochi soldati della 64a legione e della legione Cisalpina rimangono sul terreno. A fine giornata l’11° reggimento dei Francesi aggira gli insorti di Castel di Sangro che sbandano e sono uccisi per lo più a sciabolate; per ore continua il linciaggio militare, come lo chiamò nel suo diario il generale Thiébault, finché tutti coloro che sono trovati con un arma in pugno (anche il forcone è un’arma) o sono riconosciuti per aver partecipato ai combattimenti sono sterminati. L’abitato di Castel di Sangro è risparmiato perché devono alloggiarvi le truppe del generale Monnier anch’esse in arrivo da Sulmona. Quest’ultimo è rimasto bloccato a Pettorano da una bufera di neve e tutta la sua avanguardia viene ritrovata alcuni giorni dopo morta assiderata all’inizio della gola che sale verso Roccaraso. Finalmente Duhesme e Lemoine superano il Sangro e proseguendo in territorio molisano si ricongiungono con lo Championnet a Venafro, l’armata francese così ricostituita giunge a Capua il 14 gennaio 1799. Contemporaneamente alla diminuzione della pressione francese nelle prime settimane di gennaio comincia a manifestarsi in Abruzzo l’azione sempre più violenta dei capimassa.

Questi in una sintesi molto concentrata gli avvenimenti che si svolgono nell’Abruzzo interno nel periodo preso in esame, ma cosa accade nello stesso tempo lungo le coste abruzzesi dell’Adriatico?

Il 1° gennaio 1799 Lanciano si schiera con i Francesi, vengono affissi proclami con le parole libertà e uguaglianza in evidenza, contrari al re e alla sua famiglia, contro i baroni e lo sfruttamento dei contadini e di conseguenza in città tutti indossano le coccarde tricolori della repubblica, anche perché sono presenti i soldati della nuova Legione Napoletana filo francese e un reparto di quaranta dragoni di Francia. Anche altri centri della costa, tra i quali Casalbordino e Torino di Sangro, seguono l’esempio di Lanciano e si dichiarano favorevoli ai Francesi.

Intanto, il 23 gennaio 1799, il generale Championnet entra a Napoli ormai abbandonata da ogni vertice istituzionale e proclama la nascita della Repubblica Partenopea. In men che non si dica i Francesi ristrutturano le amministrazioni locali, particolarmente complessa quella dei due Abruzzi più volte modificata, aboliscono la feudalità, dichiarano decadute tutte le giurisdizioni baronali, annullano le prestazioni di servizi personali.

A fine gennaio 1799 le truppe francesi sono concentrate a Napoli, il re Ferdinando IV è in Sicilia e sta meditando la spedizione del Cardinale Ruffo che dovrà liberare il regno partendo dalla Calabria e dalla Puglia, gli Abruzzi, Citra e Ultra, sono di fatto nelle mani delle bande dei capimassa. Questi sono aizzati principalmente dai baroni contro quei notabili, possidenti, contadini e semplici cittadini che avevano simpatizzato per le idee francesi. I baroni in particolare sentono ormai seriamente minacciati il proprio potere e la propria autonomia, quello che era accaduto in Francia è ormai alle porte di casa e dentro casa. Non meno preoccupato è quasi tutto il clero che nelle nuove idee rivoluzionarie vede minacce ancor più spaventose.

Ai primi di febbraio 1799 ebbe inizio lo sterminio programmato dei filo francesi: tra il 2 e il 6 febbraio in seguito a convulse terribili vicende vengono assassinati i repubblicani di Vasto: un prete capomassa Angiolo de’ Minori compila una sua lista di Giacobini e fa arrestare e uccidere molti cittadini con il solo scopo di depredare le loro case.

Sempre in quei giorni ed esattamente il 7 febbraio 1799 inizia in località lontanissime dall’Abruzzo un evento che si sarebbe rivelato risolutore di tutta la situazione caotica fin qui descritta nel Regno di Napoli a favore del re Ferdinando IV: la spedizione del cardinale Ruffo. Questi sbarcato sulle coste calabre l’8 gennaio inizia una lunga marcia per liberare Napoli dallo straniero, tutti i paesi attraversati forniscono uomini e mezzi all’armata sanfedista che risaliva il regno in nome del re e della religione sotto le bandiere bianche della Santa Fede. I sanfedisti del cardinale Ruffo, il cui numero ormai è arrivato a circa 8.000 uomini, percorrono la Calabria non senza ostacoli e allora il cardinale promette il perdono per coloro che a qualsiasi titolo hanno collaborato con i Francesi e simpatizzato con le loro idee, allo scopo di attenuare i contrasti.

A fine marzo 1799 la Calabria è riconquistata e il Cardinale Ruffo passa in Basilicata e quindi in Puglia. Qui Bari con qualche altra importante città si è schierata con i Francesi ed ha approntato un discreto reparto di soldati della nuova repubblica, ma a maggio lo sbarco di un notevole contingente di militari russi con artiglieria, in aiuto del cardinale, costringe i repubblicani alla fuga e a risalire rapidamente verso l’Abruzzo per rifugiarsi nella fortezza di Pescara. Subito entrano in funzione le bande massiste con il Pronio in testa, che ha ricevuto l’ordine dal cardinale Ruffo di non attaccare eventuali Francesi in ritirata. Ovunque costoro abbandonano al loro destino quegli Italiani che fino a qualche giorno prima erano stati loro alleati: infatti man mano che i Sanfedisti risalgono verso nord si verificano ancora violenze, uccisioni e anche condanne a morte ufficiali.

L’11 giugno un reparto di Turchi dà man forte al Ruffo per conquistare Nola alle porte di Napoli dove il cardinale fa il suo ingresso trionfale il 13 giugno 1799: il regno di Ferdinando IV è riconquistato e i Francesi si stanno ritirando verso nord, rimangono le bande armate dei capimassa. In Abruzzo molti tornano a fare i pastori e i contadini, ma molti altri sono rimasti armati e per un non nulla scoppiano liti violente che spesso terminano con ferimenti e omicidi. E’ urgente fare qualcosa: le masse sono dichiarate fuori legge, coloro che si erano dati al brigantaggio sono arrestati e quasi sempre impiccati, le carceri di Chieti e di Pescara sono di nuovo strapiene di delinquenti che si sono macchiati di crimini orrendi e che a loro insaputa erano stati abilmente manipolati dal re, dal cardinale Ruffo e dalle baronie locali. C’è da dire anche che molti capimassa vengono inglobati nell’esercito regolare borbonico con il grado di ufficiali, il Pronio diventerà addirittura generale. Il processo di pacificazione non fu immediato, il clima di sospetto, di persecuzione e di vendetta si protrae per un paio di anni fino al 28 marzo del 1801 quando il re promulga un indulto generale.

Viene da chiedersi cosa fosse cambiato nell’Italia meridionale dal dicembre 1798, anno di inizio dell’occupazione francese, al luglio 1799 quando Ferdinando IV si reinsediò ufficialmente sul suo trono. Praticamente quasi nulla: i signori e i possidenti continuano ad essere tali e a sfruttare fino all’eccesso i contadini più poveri, i braccianti e i pastori. I problemi sociali, gli equilibri di potere, la situazione economica, tutto torna come prima. Anzi no, qualcosa di diverso c’è, quasi ogni famiglia ha il suo lutto, ognuno è un po’ più povero, ognuno ha subito il suo piccolo o grande danno economico, ovunque qualche ferita da rimarginare: tutti hanno perso qualcosa.



ALCUNE CONSIDERAZIONI

L’armata francese in Italia meridionale contava circa 12.000 uomini e per questo il successo poteva dipendere in larga misura dall’abilità di concentrare le truppe di volta in volta su un obiettivo strategicamente o politicamente importante, per poi spostarle rapidamente e ricongiungerle altrove per una nuova impresa e così via. Queste azioni dovevano essere condotte con estrema rapidità lungo le direttrici nevralgiche del Regno di Napoli e cioè lungo la rete della viabilità, la quale negli Abruzzi si presentava particolarmente articolata e complessa. Nel caso in questione è da considerare che all’epoca non esisteva una arteria vera e propria che collegasse Castel di Sangro alla costa. Oltre Villa Santa Maria i viaggiatori erano costretti a guadare continuamente il fiume Sangro e soprattutto in inverno non era cosa da poco, per poter utilizzare i tratti di strada ora a destra ora a sinistra del fiume.

La prima considerazione che ne consegue è che i Francesi in Abruzzo si mossero e operarono lungo le direttrici che percorrono la costa adriatica da nord a sud, lungo la linea che da Pescara, passando per Popoli, si dirama verso L’Aquila e la Marsica, verso Sulmona e da qui in direzione di Roccaraso, Castel di Sangro e Venafro. Se ne deduce che i Francesi non agirono, se non in maniera marginale, nella media valle del Sangro, mentre rimasero a pieno coinvolte la zona della foce del fiume e l’area dell’alto Sangro a partire da Castel di Sangro. Quasi certamente è da ritenere che non ci siano stati importanti contatti diretti tra i militari francesi e gli abitanti di Borrello.

La seconda considerazione è che le azioni più eclatanti della guerriglia delle bande massiste si concretizzarono ovviamente nelle stesse aree in cui operavano i Francesi e cioè solo marginalmente nel medio Sangro, dove certamente si verificarono episodi sporadici. Ne consegue che gli abitanti di Borrello non furono particolarmente invisi alle bande massiste in quanto queste agivano altrove e che l’assassinio dei cinque Borrellani non fu concepito all’interno di una banda massista particolare, con la quale tra l’altro era poco probabile che i cinque avessero a che fare.

La terza considerazione riguarda gli effetti della spedizione del cardinale Ruffo in relazione all’eccidio dei Borrellani; i due eventi non possono essere collegati tra loro, infatti il 3 aprile 1799, l’eccidio era avvenuto il 22 di febbraio, l’armata del cardinale stava attraversando il territorio di Matera per recarsi in Puglia contro la città di Bari. Solo nel mese di maggio 1799 il Ruffo coordinò la sua azione nell’area abruzzese con il capomassa Pronio e gli altri capimassa dell’Abruzzo Citra per intercettare i repubblicani pugliesi che fuggivano in direzione di Pescara, ma si trattava di una azione che si svolgeva lungo il litorale adriatico e non verso l’interno. E’ assolutamente da escludere l’assassinio dei Borrellani in relazione all’avanzata dell’armata sanfedista in quanto questa arrivò negli Abruzzi solo molto più tardi. Se vi fu un collegamento esso fu solo indiretto in quanto il rapido diffondersi della notizia che la spedizione del Ruffo era iniziata in Calabria l’8 febbraio del 1799 e stava avendo un grande successo potrebbe aver incoraggiato delazioni, vendette e linciaggi perpetrati localmente.

Quarta considerazione: la data dell’uccisione, il 22 febbraio 1799. Si può riflettere sul fatto che, come è stato prima esposto, ai primi di febbraio era iniziata nei centri lungo la costa abruzzese l’uccisione sistematica di coloro che avevano appoggiato i Francesi, con tutte le sfumature che sono state narrate e che sfociarono nelle violente uccisioni di Vasto. Si tratta però sempre di eventi che si susseguono nelle zone teatro degli scontri che sono state indicate nella prima e nella seconda considerazione. Si può invece presumibilmente ipotizzare che sin dai primi di febbraio si fossero sparse anche fra i piccoli centri dell’interno le voci dei massacri dei giacobini filo francesi ed è ipotizzabile che a Borrello, anche se non vi è nessun accenno all’innalzamento dell’albero della libertà o ad aiuti di qualsiasi tipo forniti ai Francesi, ci siano stati dei simpatizzanti delle nuove idee rivoluzionarie.

Di sicuro c’erano, e questa è la quinta considerazione, un barone che si sentiva in pericolo e un clero conservatore atterrito dalle notizie che provenivano, deformate e ingigantite, dalla chiesa francese. Ovviamente coloro che maggiormente erano in grado di avvicinarsi alle innovazioni che arrivavano con i militari stranieri sono da ricercare in un segmento sociale medio alto, di una certa cultura, capaci di sognare come un giovane studente o in grado di intravedere comunque nelle recenti trasformazioni un momento di frattura con il vecchio statico mondo dello sfruttamento dei più deboli.

Sesta considerazione: perché i capimassa e perché Altino. E’ stato già detto che il 23 gennaio 1799 i Francesi proclamano la Repubblica Partenopea, il grosso del loro esercito è a Napoli e il cardinale Ruffo non è ancora sbarcato in Calabria, i capimassa sono i veri padroni del campo in Abruzzo. Costoro però, abbiamo visto, operano solo in zone strategicamente importanti, non certo a Borrello lontano da vie di comunicazioni significative. Allora bisogna andare a chiamarli e segnalare che in paese qualcuno guarda con troppo interesse ai cambiamenti apportati dai Francesi. Inoltre la richiesta di intervento avrebbe dovuto essere fatta da un’autorità importante del luogo. Le masse armate più vicine disponibili sono quelle che stanziano lungo il basso Sangro e più precisamente nella zona di Casoli che comprende anche Altino, è vero che ci sarebbe anche Castel di Sangro, ma a febbraio la cittadina aveva aderito alla Repubblica Partrenopea. Forse non era possibile organizzare una spedizione fino a Borrello e appendere ad una forca i cinque sparuti repubblicani, ma come facevano ad Altino a sapere che erano solo cinque? E quali erano i loro nomi? I capimassa non svolgevano certo indagini di polizia; meglio arrivare in paese all’improvviso, catturare i Giacobini (il termine arrestare, più volte usato, è improprio per questa circostanza) e portarli ad Altino dove giungeranno già processati sommariamente e condannati a morte, pronti per una rapida esecuzione.

Settima ed ultima considerazione: domande. Chi fornì i nomi dei Repubblicani di Borrello? Perché la popolazione non intervenne in difesa dei loro cinque paesani in grave pericolo? E perché non intervennero il barone e il clero che pure, almeno ufficialmente, erano legati alle sorti delle bande armate in questo particolare momento ed erano in grado di influenzarle? Chi si avvantaggiò dalla loro morte? Il fatto contribuì a ristabilire equilibri di potere recentemente messi in discussione? Quale conseguenza ci sarebbe stata, per il controllo della situazione e il ristabilimento dell’ordine, da una azione così violenta, soprattutto in vista della piega che stavano prendendo gli avvenimenti dopo l’esaurirsi della spinta iniziale dell’avanzata francese? In quelle settimane si erano verificati altri episodi locali che potrebbero essere messi in relazione con l’eccidio del 22 febbraio 1799?



CONCLUSIONE

Il massacro dei cinque Borrellani potrebbe rientrare, ma con scarsa probabilità, in una azione antigiacobina volta a decimare il clero dei centri filo francesi, ma non si spiegherebbe l’incolumità del quarto sacerdote presente a Borrello don Luigi Evangelista. La banda massista rimase a Borrello due giorni e infatti il sacerdote più anziano don Carlo Zocchi fu di fatto catturato il secondo giorno, dunque c’era tutto il tempo di prendere tutti i preti e in ogni caso due dei perseguiti non erano religiosi.

Se invece si considerassero i cinque come degli attivi Giacobini ciò risulterebbe difficile da sostenere data la posizione decentrata di Borrello nelle vicende del regno in quel periodo e inoltre la percentuale di tre sacerdoti su quattro filo francesi sarebbe eccessiva. Non si spiegherebbe in tal caso l’inerzia del barone Mascitelli e ancor più non si spiegherebbe la mancanza di qualsiasi tentativo di intervento da parte della popolazione in difesa degli arrestati. Tutt’al più dall’atteggiamento dei cinque potevano essere emerse delle simpatie per i recenti cambiamenti, che ad ogni modo non giustificano il massacro e ancor meno la sua elaborata progettazione.

Proviamo a costruire una ipotesi, da considerarsi tale in attesa dell’esame di ulteriore documentazione.

A Borrello il barone Felice Mascitelli era da sempre l’autorità in nome del re, governava su tutto: terre, case, uomini e animali, in lui si concentrava il potere economico, quello politico e quello giudiziario. Sempre a Borrello, accanto ad una ristretta cerchia di possidenti e di piccoli artigiani, sopravviveva la gran parte della popolazione di contadini e braccianti nullatenenti costantemente sull’orlo della miseria. Nel corso del 1799, durante l’occupazione francese, la popolazione più povera cercò di impadronirsi con la forza delle terre di Pilo, mettendo a repentaglio l’esistenza stessa del feudo baronale.

Se si ipotizzasse un ruolo di primo piano del barone Mascitelli si potrebbe ritenere che questi si sia rivolto alle masse di Altino, non per sedare fermenti popolari in favore della repubblica partenopea, ma essenzialmente per riprendersi le terre del feudo di Pilo che gli erano da poco state sottratte. Si capirebbe perché la banda di Altino arriva a Borrello con i nominativi già noti e si spiegherebbe la mancanza di qualsiasi cenno di reazione da parte della popolazione, la quale certamente sapeva da chi era venuto l’ordine relativo a ciò che stava accadendo in quei due giorni, tra il 19 e il 20 febbraio, a Borrello. Da quel momento nessuno ebbe il coraggio di opporsi al barone e nessuno osò più commentare l’accaduto, nemmeno i familiari delle vittime.

Possiamo pensare che i tre sacerdoti uccisi fossero quelli più sensibili verso la miseria della popolazione e potrebbero aver avuto un ruolo nelle vicende del feudo di Pilo. Per quanto riguarda Alessandro D’Auro, dal suo testamento uomo giusto e religioso, se si considera che quasi tutte le notizie sin qui riportate derivano dalla documentazione prodotta da tribunali, ricorsi e avvocati in relazione alla sua eredità (il barone era sospettato di volerla acquistare direttamente dalla sorella del defunto) non è difficile immaginare quale sia stato almeno uno dei motivi del suo coinvolgimento.

E’ singolare che una ulteriore testimonianza riguardi anch’essa una altra eredità, quella di don Carlo Zocchi, il quale mentre veniva condotto via da Borrello continuava a ripetere che lasciava i suoi beni ai suoi nipoti. Perché l’anziano sacerdote, più che della propria vita, avrebbe dovuto preoccuparsi di chiarire ciò ai propri concittadini?

Rimane Silverio, lo studente di venti anni, forse era l’unico che era stato affascinato dalla libertà e dall’uguaglianza proclamate dalla rivoluzione francese e dalla Repubblica Partenopea.

Che dire del sacerdote economo don Luigi Evangelista? Il suo passato non era stato sempre limpido e in ogni caso perché scrisse nel registro dei morti della parrocchia che i Borrellani morti ad Altino erano stati fucilati e non massacrati come annotò sul proprio registro il parroco di Altino don Giuseppe Verlengia? Forse la fucilazione poteva sembrare più la conseguenza di una azione processuale mentre il massacro faceva pensare più a un atto di banditismo.

Con il ritorno alla situazione precedente alla breve parentesi francese nell’Italia meridionale questa triste vicenda cadde nel dimenticatoio, come del resto molte altre simili, e nessuno vi fece più riferimento, neppure gli interessati più diretti come i parenti delle vittime e persino presso l’archivio della diocesi di Trivento nei due raccoglitori che riguardano Borrello vi è traccia di ciò.


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