Il Soldato Adler

di Raffaello D’Auro




Son passati ormai esattamente settanta anni da quel triste giorno in cui il nostro paese, per la sola ed involontaria colpa di trovarsi geograficamente situato in uno scenario di guerra che vedeva l’avanzare delle truppe alleate Anglo-Americane dalla Sicilia verso il Nord d’Italia e quelle Tedesche attestarsi sulla linea Gustav, fu tragicamente distrutto con la violenza e la ferocia di chi vuol fare intorno a sé terra bruciata.
Ma qui non voglio ricordare quegli eventi drammatici di cui con maestria, con dovizia di particolari, ricordando personaggi, date e luoghi, alcuni nostri compaesani hanno fatto una ricostruzione storica precisa e rigorosa.
La memoria, comunque, in ciascuno di noi, si trova spesso a rievocare quel triste passato e nei bambini di allora, oggi molto avanti negli anni, il ricordo di quella triste esperienza rimane ancora indelebile perché tutto ciò che è spaventoso e drammatico, si imprime come uno stampo in una mente non ancora contaminata dalle dure esperienze che lo scorrere del tempo riserva a tutti gli esseri umani.
Si può ricordare una data, inizio di una lunga tragedia, come un giorno felice che non sarà mai cancellato?
Ebbene, per me che non avevo ancora compiuto nove anni, il dodici ottobre del millenovecentoquarantatre fu il giorno più felice della mia infanzia. Un frastuono improvviso, il rombo nervoso di motori, un vocio frenetico di parole incomprensibili mi spinsero ad uscire velocemente di casa. Uomini, donne, bambini si dirigevano verso la Carenna ed io li seguii spinto da irrefrenabile curiosità.
Che meraviglia, che spettacolo! Rimasi attonito per qualche istante prima di rendermi conto che i soldati tedeschi avevano occupato il nostro paese.
Autocarri con i teloni dei cassoni dipinti con vernice mimetica disposti sotto gli ippocastani, automobili decappottabili, motociclette, sidecars che sfrecciavano freneticamente per le vie del paese, armi di ogni tipo poggiate ai piedi degli alberi e tanti, tanti soldati dalle uniformi grigio-verde con i berretti-bustina con visiera o con l’elmetto. Ormai, era finito il tempo della Balilla tre marce di Diamante D’Amico di Quadri che, di tanto in tanto, portava a Borrello qualche passeggero sceso in stazione dal treno della Sangritana.
Osservavamo il proprietario della Balilla che con un piumino spolverava la sua vettura con la cura e la pazienza di chi ha stabilito un rapporto affettivo anche con un soggetto inanimato. Ma se la Balilla non aveva un’anima, aveva certo un cuore e bastava che il proprietario girasse la manovella posta sotto il radiatore e quel cuore si metteva a battere. L’autista sorrideva soddisfatto e compiaciuto quando, a primo colpo, il motore della sua bella auto si metteva a rombare.
Quella macchina aveva soppiantato le carrozze, le bighette ed i traini1 ed aveva dato inizio ad una nuova era. Sbirciavamo dal finestrino il contachilometri che segnava la pazzesca velocità di ottanta chilometri all’ora. Discutevamo sulla potenza del motore, sulla cilindrata e sul numero dei cavalli senza sapere cosa fossero e dove fossero rinchiusi. Quando la Balilla stava per ripartire ci acquattavamo dietro un albero o dietro l’angolo di una casa ed appena essa percorreva i primi metri di strada, uscivamo dai nostri nascondigli e ci appendevamo al portabagagli.
La sensazione piacevole di fare un viaggetto, se pure di qualche centinaio di metri, su un mezzo così veloce, ci inebriava. Ma ormai anche la Balilla era stata soppiantata da altre novità del progresso ed erano tutte lì a portata di mano.
C’erano autocarri grandi e piccoli a nostra disposizione, automobili italiane e straniere di piccola, media e grossa cilindrata. C’era solo l’imbarazzo della scelta per appenderci e farci scarrozzare su e giù per il paese. Gli autocarri, in particolare, con la lunga sponda posteriore del cassone, offrivano la possibilità a più ragazzi di appendersi e di fare un viaggio più lungo.
Pacati la curiosità e l’entusiasmo del primo momento, mentre gioioso tornavo a casa, fui preso da un forte sgomento. Pensai che quei soldati tedeschi erano stati nostri alleati in guerra e poi li avevamo traditi, quindi, non dovevamo aspettarci niente di buono, anzi, solo odio e vendetta. Ciò nonostante, la curiosità era tanta ed io e il mio amico Enzo Spada decidemmo di alzarci presto al mattino per osservare tutto ciò che succedeva nella Carenna.
Alle otto, tutti i giorni, quasi di fronte alla bottega del barbiere, dopo aver fatto l’alza bandiera un ufficiale leggeva l’ordine di servizio al suo plotone ordinatamente schierato. Poi, i soldati rompevano le righe e frettolosamente si avviavano dove l’ordine dell’ufficiale li aveva destinati. Un soldato si staccava dal gruppo e veniva verso di noi che stavamo sospettosi vicino alla porta di casa di Enzo pronti ad aprirla e rifugiarci se mai qualche tedesco avesse voluto esercitare su di noi la sua vendetta.
Il soldato si avvicinava, ci sorrideva ed entrava nella porta accanto dove una volta c’era una cooperativa di generi alimentari. Subito dopo lo seguiva un soldato più giovane di lui, li sentivamo parlare e li vedevamo affaccendarsi sistemando scatole, pacchi e sacchi di patate in ogni angolo della stanza.
Una mattina il soldato si avvicinò a noi, ci sorrise e trasse dalle tasche due bustine piene di caramelle. Bon-bon? Ci chiedeva se gradivamo quelle delizie. Certo che le gradivamo e offrendone qualcuna anche ai nostri amici, dopo pochi minuti, non ci restava che buttar via il sacchettino vuoto. Le caramelle, per noi, erano una leccornia costosa e potevamo gustarne solo pochissime nell’arco dell’anno.
Questo soldato era un po’ particolare. Doveva essere un sottufficiale, forse un Sergente, a giudicare dai galloni dorati che portava sulle maniche della giacca. Aveva un cappello simile a quello dei nostri Alpini e una grossa nappina verde teneva ferma una lunghissima penna di uccello con la punta ricurva in basso che quasi gli toccava la spalla sinistra.
Aveva un incedere veloce e dinoccolato. Volgeva il capo a dritta e manca tanto che la penna del suo cappello svolazzava di qua e di là spostata dal vento che egli stesso provocava con i suoi movimenti repentini.
Il suo abbigliamento, il modo di camminare, il suo sorriso, lo rendevano oltremodo simpatico. Il soldato che lo affiancava in tutte le faccende doveva essere un suo subalterno. Anch’egli aveva dei galloni sulle maniche della giacca, ma erano scuri. Si trattava, forse, di un graduato di truppa, caporale o caporal maggiore.
Apprendemmo subito i loro nomi. Il subalterno chiamava il suo capo Adler e Adler chiamava il suo sottoposto Schulz. Per noi, comunque, Adler, per via della sua lunga penna sul cappello, era il Soldato Alpino e non osavamo chiamarlo per nome, anzi, per non essere troppo invadenti, non lo chiamavamo affatto.
Il giorno dopo e per alcuni giorni ancora, ci mostrò i suoi sacchettini di bon-bon che noi, con malcelata rapidità, afferravamo. Adler doveva essere addetto al vettovagliamento e lo vedevo spesso recarsi all’albergo di Filminuccia e Pasqualino portando con sé pacchi e pacchettini che contenevano, probabilmente, generi di conforto: sigarette, cioccolata, biscotti e caramelle. Nell’albergo alloggiava un Tenente della Wehrmacht che spesso, passando sotto il balconcino della cucina di casa nostra, stendeva una cioccolata o un sacchettino di bob-bon a mia sorella di appena due anni che con una sediolina andava lì a sedersi per vedere i bambini più grandi che giocavano in strada.
Il Tenente, che dimostrava quaranta, quarantacinque anni aveva un bell’aspetto fisico e i modi molto garbati e signorili. Aveva a cuore che i suoi soldati fossero rispettosi della popolazione ed era anch’egli generoso visto che distribuiva le caramelle che gli portava Adler.
Al centro della Piazza Vecchia c’era un autocarro-officina e ad esso affluivano tutti gli automezzi bisognosi di riparazioni dislocati nella Carenna ed in via dell’Orologio. Quando gli autocarri riparati dovevano affrontare l’erta salita che dalla Piazza Vecchia portava sotto al Municipio, incontravano difficoltà perché la strada brecciata faceva slittare le ruote posteriori. L’autista e il capo macchina ci invitavano allora a spingere il mezzo e siccome anche nella Piazza Vecchia, che rappresentava una zona dove si estendevano le nostre curiosità, c’era sempre un nugolo di ragazzi, accettavamo volentieri la richiesta di aiuto.
L’aiuto, però, non era disinteressato. L’autocarro, finita la salita, quasi si fermava all’altezza dell’asilo infantile. Era il momento buono per appenderci. Qualcuno di noi, più audace e temerario, saltava addirittura dentro il cassone e lì dentro spesso roteavano mele e pere che i soldati avevano colte chissà dove o ve le mettevano a bella posta perché avessimo una ricompensa per il nostro aiuto. I due soldati ci guardavano dal finestrino posteriore della cabina e ridevano divertiti. Giovanissimi, con qualche anno in più di alcuni di noi già adolescenti, forse rivivevano alcune comuni esperienze della loro infanzia. Dopo poco più di cento metri, all’inizio della discesa della costa di S. Antonio, l’autocarro si fermava e i soldati ci invitavano a scendere. Danke, crazie, crazie ci dicevano sorridenti.
Si stava stabilendo fra noi e i tedeschi un clima di familiarità anche se essi, essendo soldati, dovevano mantenere un certo contegno e rispondere ad una disciplina che li obbligava ad un voluto distacco dalla popolazione. Una mattina Adler avvicinandosi a me e ad Enzo si fermò di scatto. Si diede una pacca sulla fronte. Aveva dimenticato le bon-bon. Chiamò Schulz e questi rispose: “jawohl, Adler” dirigendosi verso di lui a passo svelto. Parlottarono in modo incomprensibile e Schulz trasse dalle tasche una bustina di bon-bon ed un pezzo di cioccolata. Schulz appariva un po’ scontroso e ci guardava con un certo cipiglio. Forse non gradiva che il suo capo avesse familiarizzato troppo con noi.
Il soldato alpino si stava mostrando molto generoso e pertanto avvertimmo la necessità di contraccambiare le sue gentilezze. Ma cosa potevamo regalare al nostro amico che aveva tanto più di noi da offrire? Ad Enzo venne l’idea di regalargli dei ceci. Ne aveva visti, stesi su una pertica che passava da una finestra all’altra della casa di “zà” Quintilia, mazzetti e mazzetti legati in coppia con un filo e posti a cavalcioni sul lungo palo per farli essiccare. Chissà se Adler avrebbe gradito un umile prodotto della nostra terra, magari sconosciuto in altre nazioni o nelle grandi città. Avremmo fatta una bella figura offrendogli una preziosa rarità. All’imbrunire, visto che “zà” Quintilia e il marito Beatangelo andavano al letto con le galline, salimmo sul terrazzino antistante le finestre e con facilità sganciammo due mazzetti. Portammo la refurtiva nella baracca di legno che il nonno di Enzo, Davide, aveva costruito addossata ad una casa sita all’inizio della mulattiera che porta a Quadri. La chiamava rimessa perché papà Davide (così lo chiamava Enzo), guardiafili del telegrafo, vi rimetteva matasse di filo di rame, bicchieri isolanti di vetro massiccio, ramponi per scalare i pali ed imbracature anticaduta. La rimessa fungeva anche da pollaio e nel timore che polli e galline potessero divorare i ceci, pensammo di piantare un chiodo sopra una trave che reggeva il tetto. Trovammo un chiodo ed io salii su una scala dai pioli sconnessi, ma nella rimessa non si trovava un martello. Enzo, che era un ragazzo dalle tante risorse, prese dal canestro dove le galline deponevano le uova il lence2, e me lo porse. Fissato il chiodo ed agganciati i mazzetti di ceci ci rendemmo conto che avevamo commesso un furto. Poveri noi, avevamo da poco fatta la Prima Comunione e già ci trovavamo ad aver disobbedito al settimo Comandamento. Don Oliviero voleva che ci confessassimo tutte le settimane e noi decidemmo di liberarci di quel grave peccato. Forse ce la saremmo cavata con una penitenza di recitare una ventina di Pater-Ave-Gloria e una lieve sofferenza corporale ricevendo dal prete dei colpi sulla testa con le nocca delle dita. Il mattino seguente ci dividemmo la refurtiva e, dirigendoci verso la cooperativa, tenevamo i mazzetti di ceci ben nascosi dietro la schiena.
Un lontano rombo di motori che si faceva sempre più vicino, greve e minaccioso, sollecitò Adler ad uscire dalla porta. Tutti guardammo in alto e vedemmo uno stormo di grandi aerei da bombardamento in formazione a delta che stava sorvolando il nostro paese. A nulla servivano i colpi della contraerea tedesca, appostata sulle colline di Rosello. Le cannonate esplodevano molto al di sotto dei grandi aerei quadrimotori che gli adulti chiamavano Fortezze Volanti. Adler scuoteva la testa sconfortato dalla inefficacia della reazione vanamente opposta. Gli aerei si dirigevano verso ovest e dopo averli visti sparire dietro le montagne di Pizzoferrato, non sentimmo più gli scoppi cupi e lontani delle bombe che gli aerei, qualche tempo prima, avevano sganciato su Sulmona. Chissà in quale altra città italiana andavano a sganciare il loro carico mortale?
Cessato il frastuono degli aerei che ormai non si scorgevano più, porgemmo i mazzetti di ceci al soldato alpino con la gioia di aver fatto un regalo quantomeno singolare.
La reazione di Adler fu sconcertante. Si mise a ridere freneticamente. Chinava il tronco del corpo e con la mano destra si dava delle pacche sulla coscia. Rideva, e rideva ancora. Poi si calmò. Con l’indice della mano destra si sollevò il labbro superiore a mostrare che gli mancavano molti denti e che le gengive erano rosse e tumefatte. Conosceva, dunque, i ceci e ci fece intendere che non avrebbe potuto masticarli con la sua dentatura disastrata. Si allontanò per rientrare nella cooperativa e prima di varcare la soglia, rivolse uno sguardo verso di noi. Gli occhi gli lacrimavano ancora per il gran ridere, ma, apparivano ora appannati da un velo di tristezza.
La bocca socchiusa, le rughe contratte del volto sembravano preludere al pianto. Varcò la soglia e lo sentimmo armeggiare con nervosismo fra i tanti scatoloni che aveva nel suo deposito.
Io ed Enzo ci guardammo in faccia delusi per la scelta del regalo ma anche rattristati per la nota di sconforto apparsa negli occhi del soldato alpino. Dovevamo riprovarci. La pessima figura fatta con i ceci non doveva scoraggiarci. Si, ma cosa può regalare chi non ha nulla? Pensammo a lungo, ma ogni idea veniva presto scartata per non rischiare la figura fatta con i ceci.
Qualcuno aveva regalato a mio padre dei grossi tocchi di favo grondanti di miele dolcissimo e mia madre li aveva messi in una scodella e sistemati nello stipo della cucina. Ecco il regalo che ci voleva per Adler. Il miele, la cera e la propoli avrebbero lenito il dolore delle sue gengive piorroiche. Come avremmo potuto, però, trasportare un regalo così molliccio ed appiccicoso? Potevamo strappare qualche pagina di quaderno ed avvolgerci i tocchi di favo, o farci dare qualche vecchio giornale dal barbiere, ma questi supporti si sarebbero presto inumiditi e rotti. Bisognava pensare ad altro.
Quel giorno stesso, mia madre mi mandò a comprare un chilo di maccheroni presso la bottega di Antonio Evangelista. Entrai nel negozio e già molti avventori erano lì ad aspettare il loro turno.
Una mescolanza di odori penetranti impregnava tutto l’ambiente. Prevaleva l’odore di baccalà essiccato ma si avvertivano anche quello salmastro delle sardelle, quello acre delle conserve di pomodoro e quello dolce, gustoso dei confetti racchiusi in un contenitore di vetro trasparente. C’era chi comprava, pagava e riceveva qualche spicciolo di resto e due o tre confetti per fare conto pari. C’era anche chi comprava maccheroni e non chiedeva un quantitativo preciso. Diceva a “zà” Ascenzina: “dammene una ciambata”. La “ciambata” non aveva un peso definito, ma, nella vana illusione di risparmiare, non doveva essere troppo scarsa e non doveva essere troppo abbondante per non spendere molto. “Zà” Ascenzina guardava in faccia l’avventore, sorrideva, indugiava un attimo, forse per contare a mente il numero dei componenti del nucleo famigliare dell’ acquirente e prelevava la “ciambata” giusta per consentire il pranzo di mezzogiorno. Con un po’ di carta di colore blu scuro avvolgeva la “ciambata” al centro ed alle due estremità uscivano i lunghi maccheroni. Con un filo di refe legava la misera confezione facendo un fiocco che dava l’immagine delle ali piccole di una farfalla e nello stringere elegantemente il filo, le ultime tre dita allargate delle sue mani sembravano completare la figura dando alla farfalla anche le ali più grandi.
Qualcuno, per pagare, esibiva la “libretta” di credito che di solito presentava il bordo inferiore destro delle pagine consunto, sudicio ed arrotolato. Un altro avventore chiese due sardelle (ancora un quantitativo indefinito) da mettere dentro la pizza di granturco e “zà” Ascenzina prelevò da un “tarro”3 il giusto quantitativo per insaporire la focaccia. Un altro chiese del Rhum e sull’etichetta della bottiglia che gli venne consegnata c’era scritto “Rhum Jamaica-Kingston”. Un altro ancora chiese duecento grammi di conserva e “zà” Ascenzina avvolse un rettangolo di carta oleata di color grigio-cenere e ne fece un cono. Affondò un cucchiaio in una buatta4 che portava la scritta “ELVEA” -estratto di pomodoro - “Triplo Concentrato”, prelevò della conserva e riempì il cono di carta. Ecco, finalmente avevo trovato cosa poteva avvolgere i pezzi di favo senza farli gocciolare. La carta oleata.
Il giorno successivo alla felice intuizione feci due imbuti di quella carta ed in ciascuno vi misi due tocchi di favo . Un imbuto per me ed uno per Enzo. Mi accorsi di aver rubato ancora e questa volta a casa mia. Avrei confessato, poi, tutto a mia madre. Avrei detto a chi era servito quel miele e perché. Forse sarei stato perdonato e magari avrei ricevuto anche un elogio per aver ricambiato le gentilezze del soldato tedesco.
Ci presentammo davanti alla cooperativa tenendo nascosti i coni dietro la schiena, ma Adler non si vedeva, né si sentiva. Attendemmo un po’ e poiché anche la carta oleata cominciava a dare segni di cedimento, varcammo la soglia della porta ed entrammo. C’era solo Schulz ed aveva il volto pensoso e corrucciato. Gli chiedemmo dove fosse il soldato alpino ed egli, per tutta risposta, ci scacciò in malo modo. “Via via, raus il soldato alpino kaputt, morto”. Piangeva e singhiozzando pronunciava parole incomprensibili. Forse erano imprecazioni per il triste destino che lo aveva privato del suo capo al quale, pur nella sua ruvidezza di comportamento, doveva voler bene. Non proferimmo parola. Sconvolti e increduli per quella notizia impossibile, uscimmo dalla cooperativa chiedendoci come e dove fosse morto il nostro amico. Cominciammo a renderci conto che, per noi, come per tutti, la guerra non era divertimento, ma qualcosa di tragico di cui non ancora avevamo assaporato gli effetti nefasti e dolorosi che dopo pochi giorni il destino aveva riservato pure a noi bambini. Una volta, nel tentativo di estendere timidamente la nostra confidenza con Adler, gli chiedemmo: “Dove sta il tuo paese?” Egli, allungando il braccio destro, puntò l’indice verso la Majella.”Lassù, lontano, molto lontano, a nord”, disse e sorrise compiaciuto per la nostra infantile curiosità. Capiva bene l’italiano anche se rispondendo si notava un accento marcatamente straniero.
Dopo qualche giorno, si sparse per il paese la notizia che alcuni soldati tedeschi, di stanza a Borrello, trasferiti nella zona di Cassino, avevano trovato la morte in un incidente lungo una strada tortuosa che stavano percorrendo.
Il destino aveva riservato al soldato alpino non la morte gloriosa in combattimento, ma una beffarda e quasi banale fine dei suoi giorni. Dopo le truppe della Wehrmach vennero i soldati del Genio-Guastatori che, coadiuvati da quelli delle S.S., rasero al suolo il nostro paese. Cominciò per noi l’Odissea che, per certi versi, ancora oggi, dopo tanti anni, spesso ripresenta strascichi di dolorosi ricordi . Tante volte ho ripensato al soldato alpino risentendo la sua risata gioiosa venire da lontano, vedendo i suoi occhi, prima pieni di lacrime e poi coprirsi di tristezza.
Cosa pensava Adler in quel momento? Aveva, chissà in quale paese o città lontani, dei figli grandi come noi ed era triste pensando che poteva succedere di non rivederli più? Sapeva già che il nostro paese sarebbe stato distrutto ed era dispiaciuto perché andavamo incontro ai disastri della guerra che lui già conosceva? Aveva già saputo che lo avrebbero trasferito a Cassino, in zona di operazione, dove si prevedeva che ci sarebbe stato uno scontro durissimo fra schieramenti di truppe tedesche ed anglo-americane? Nel corso degli anni ho appreso che Adler, in tedesco, significa aquila. Adler era, dunque, il nome del soldato alpino, il cognome o addirittura il soprannome, visto che la lunga penna de suo cappello rievocava il nobile rapace?
Quando la storia è scritta dai vincitori, il nemico perdente viene sempre dipinto come barbaro, crudele e disumano. E’ giusto pensare questo quando il nemico è stato veramente crudele e disumano come lo furono i soldati tedeschi delle S.S. che dietro solenne giuramento ad Hitler accettarono di rispettare tutti gli ordini criminali impartiti. Ordini che la Wehrmacht si rifiutava di eseguire. Come in tutte le guerre c’è sempre un capo che decide di farle creandosi intorno un grosso nucleo di sostenitori che spesso hanno innato il senso dell’odio e della violenza. Altri, invece, che, magari, neanche sanno perché si faccia una guerra o che non condividono l’aggressione ad altri popoli, vengono estrapolati dalle loro realtà ambientali, culturali e famigliari e costretti ad eseguire tutto ciò che la propria coscienza ripudia. Vinti e vincitori, comunque,in tutte le guerre, hanno sempre commesso crimini ingiustificati ed inenarrabili. Guerre contro la tirannide, guerre contro l’oppressione della libertà dei popoli, forse, sono le uniche a trovare giustificazione nelle coscienze umane.
Era quasi l’imbrunire, ormai,ed io ed il mio amico Enzo andavamo confabulando per il paese pensando alla tragica sorte toccata al soldato alpino, quando percepimmo il fruscio veloce delle ali di tanti uccelli che a volo radente passarono su di noi. Era uno stormo di uccelli migratori. Due lunghe file oblique congiunte al vertice, sembravano imitare la formazione a delta dei bombardieri americani. Non udimmo colpi di artiglieria né quelli delle doppiette dei nostri cacciatori che, per paura di vedersele sequestrate dai tedeschi, le avevano ben nascoste in cantina o in soffitta. Il volo procedeva lento e all’interno della sua formazione, non vi erano quadrimotori, ma quattro o cinque uccelli quasi privi di moto. Le due lunghe ali dello stormo sembravano voler proteggere quei poveri compagni ormai stremati. Nella fervida e ingenua fantasia di noi due ragazzi, il volo stava acquisendo un tocco di struggente poesia. Gli uccelli, volando al di sopra delle umane sofferenze e delle passioni terrene, sembravano riaccompagnare a casa le anime di Adler e dei suoi commilitoni. Riaccompagnavano a casa chi li aveva nobilitati in terra appuntandosi, con orgoglio, sul cappello d’alpino una loro penna. Lo stavano portando “lassù, lontano, molto lontano, a Nord”.
Quando vediamo certi films sull’ultima guerra mondiale ed in particolare quelli in cui il corpo delle S.S. agisce nella più grande spregiudicatezza, commettendo crimini di ogni sorta, come lo sterminio del popolo Ebraico, si è inconsciamente ed ingiustamente portati ad assimilare questi fanatici personaggi a tutto il popolo tedesco. Ci assale tristezza e sconforto nel vedere tante nefandezze e si avverte un profondo turbamento dell’animo. Ma io, per tutto ciò, quasi a voler esorcizzare certi eventi che deprimono lo spirito, ho un antidoto. Sospinto dall’alito, ormai quasi sopito, della memoria, rievoco il ridere divertito dei due soldati dell’autocarro, i modi cordiali ed il tratto signorile dell’ufficiale della Wehrmacht, il carattere scontroso di Schulz, ma, soprattutto, il sorriso ineffabile del buon soldato Adler.


Borrello 9-11-2013

1 Traini = carretti
2 Lence = endice - pietra levigata a forma di uovo che posto nel nido delle galline serve a stimolarle a deporre le uova
3 Tarro = grosso recipiente di latta di forma cilindrica con diametro di base di cm 30 e altezza di cm 20
4 Buatta = grosso recipiente di latta di forma cilindrica con diametro di base di cm 20 e altezza di cm 30


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