60° ANNIVERSARIO DELLA GUERRA IN ABRUZZO E MOLISE
Distruzione e Ricostruzione Dei Comuni della Sponda Destra del Medio-Alto Sangro

di Riccardo D'Auro


Il 9 novembre 1943 ebbe inizio, sulla sponda destra del corso medio-alto del Sangro, da Monteferrante ad Alfedena, la distruzione sistematica dei centri abitati della zona di influenza della linea invernale di difesa, Gaeta-Ortona, predisposta dalla Wehrmacht per arrestare l’avanzata alleata. I comuni sacrificati furono 11, più due grosse frazioni, appartenenti: quattro alla provincia di Chieti, cinque a quella di Campobasso (oggi Isernia) e due a quella dell’Aquila, con una popolazione di oltre 20.000 persone. Un’azione fulminea dovuta alla pressione sulla valle dei reparti dell’estremità dell’ala sinistra dell’8^ Armata.
In pochi minuti gruppi di guastatori, controllati dalle SS, si sparsero per le strade ordinando agli abitanti, attoniti, di abbandonare immediatamente le case e di dirigersi, a piedi, in direzione di Sulmona. A molti quegli ordini apparvero inverosimili, ma subito si ricredettero vedendo collocare l’esplosivo nelle prime case. Seguì una indescrivibile confusione dominata dal terrore: grida strazianti di richiamo di figli e di familiari, di disperazione per i malati gravi, di invocazione ai Santi, ma anche di tremende maledizioni all’indirizzo di quegli uomini assatanati. Le prime esplosioni accelerarono la fuga in tutte le direzioni della campagna alla ricerca degli uomini da tempo fuggiaschi, mentre molti vecchi si rifugiarono in Chiesa.
Il periodo di permanenza alla macchia, durato circa 20 giorni, fu durissimo per la fame ed il freddo, soprattutto dopo che dettero alle fiamme le casette rurali e i senzatetto furono costretti a trovare rifugio in ricoveri di fortuna, comprese le grotte. Intanto, i tedeschi estesero la terra bruciata anche ai paesi del versante opposto ed alle infrastrutture. Le pattuglie piombavano in continuazione sui rifugi terrorizzando gli sfollati e depredandoli di ogni cosa, anche dei pochi viveri di cui disponevano, ordinando perfino di tenere spenti i fuochi. Negli ultimi giorni per tenere a freno il movimento degli sfollati ricorsero alle cannonate che ingrandirono il numero delle vittime e quando queste cominciarono a cadere oltre il fiume si capì che gli alleati erano ormai in zona. La valle era scossa anche dagli scoppi degli ultimi ponti e di notte veniva ancora illuminata dal sinistro bagliore delle fiamme che nei paesi divoravano le case scampate all’apocalisse. E, finalmente, alla fine di novembre giunsero i liberatori.
Ma per le comunità della sponda destra si trattò di un vero e proprio abbandono nella terra di nessuno perché le truppe alleate, eccetto un modesto reparto di artiglieria dislocato tra i ruderi di Pescopennataro e di Capracotta, si acquartierarono nei paesi rimasti intatti. Non mossero alcun attacco, cosicché la immane devastazione apparve un atto inutile e disumano.
Un numero esiguo di sinistrati sfollò nelle regioni meridionali mentre tutti gli altri, ingaggiando una lotta con il tempo, si misero subito all’opera scavando materiali per il recupero di quanto poteva essere utile per sopravvivere e per allestire i ricoveri. Ma prima dell’arrivo della neve furono ricostruiti anche i tetti di alcune case danneggiate. Durante l’inverno si lavorò a ritmo incessante, effettuando pause soltanto in occasione di giornate rigidissime, con pochi viveri e tra seri pericoli per le mine, per le cannonate ed i bombardamenti provenienti da entrambe le parti, e, anche per fatalità. Un’opera defatigante, ma proficua ed essenziale per la ricostruzione che ai primi di giugno, quando i tedeschi sgombrarono il territorio del Sangro superiore e l’Abruzzo, risultò in netto vantaggio rispetto alle altre zone colpite. Come pure lo fu il raccolto dei campi, rimessi a coltura, che, oltre a sfamare, costituì un’entrata per pagare il costo della ricostruzione della casa.
Il numero delle vittime fu molto alto, ma quando si apprese delle stragi che i tedeschi avevano compiuto nei paesi appena liberati fu ringraziato il Signore per la protezione da altre sciagure. Avevano infierito soprattutto contro i civili che avevano disatteso l’ordine di abbandonare la zona di operazione per trasferirsi nelle retrovie. Emblematico l’efferato eccidio di Pietransieri, che fece rabbrividire ricordando che l’ordine di sfollamento era stato impartito a tutti contestualmente a quello di evacuazione. Forse, il comando era stato indotto a soprassedere dal ristretto tempo a disposizione.
Nei comuni di cui trattasi la liberazione anticipata influì positivamente sui lavori di pronto intervento. In alcuni di essi, quando nell’autunno del 1944 venne emesso il primo decreto legge a favore dei senzatetto, che prevedeva interventi solo a favore dei fabbricati riparabili, era in corso anche la ricostruzione di molti fabbricati distrutti. Nella primavera successiva, con l’emanazione di nuove norme, anche se ancora poco favorevoli dal lato finanziario, la ricostruzione decollò in tutta la zona montana dove la casa era di importanza vitale. Continuò con pari fervore fino al 1949, anno in cui ebbe termine la fase dei lavori di pronto intervento, anche se per ricostruire il patrimonio immobiliare nazionale occorsero ancora molti decenni. Indubbiamente, il sollecito operato di questi montanari doveva ritenersi encomiabile per aver fatto risparmiare, in un momento difficile, grosse somme alle casse esauste dello Stato. La ricostruzione di interi paesi rasi al suolo fu considerata dagli addetti ai lavori un’autentica ed esaltante impresa per le ristrettezze economiche e le condizioni ambientali in cui venne realizzata.
Ma di questi avvenimenti di straordinaria importanza storico-sociale le Istituzioni, nel complesso, non ne tennero troppo conto, quasi che fossero state normali sventure o calamità contro le quali i poveri montanari erano abituati a combattere. Peraltro, non era stato loro concesso un risarcimento? Un contributo assolutamente insufficiente a coprire la spesa di ricostruzione della casa, pertanto non ottennero dallo Stato né il sostegno materiale e né quello morale. Gli storici, dal canto loro, hanno appena accennato alle azioni belliche che investirono quel territorio, sì che numerosi abruzzesi hanno ignorato la sua distruzione sistematica e la conseguente ricostruzione. Di contro, hanno maggiormente considerato gli eventi dell’altro versante del Sangro, della valle dell’Aventino e di altri centri più importanti.
Però negli ultimi anni, prima che si perdesse la memoria dei fatti, alcuni appassionati studiosi di storia locale hanno cercato con i loro volumi, pubblicati con notevoli sforzi personali, di collocare sul piano della grande Storia i due grandi avvenimenti: la distruzione e la ricostruzione, di cui furono protagonisti gli undici Comuni della sponda destra. Una doverosa puntualizzazione storica, un atto di devozione ai Caduti e agli Autori della rinascita, un atto di giustizia reso a migliaia di persone che si sono sentite dimenticate.
L’Associazione Culturale “La Fonte” di Borrello ha saputo raccogliere il sentimento e la passione espressi in questi scritti, organizzando sul tema, il 10 agosto scorso, un interessante dibattito storico-culturale, patrocinato dall’Istituto Abruzzese per la Storia della Resistenza e dell’Italia Contemporanea, al quale hanno preso parte numerosi studiosi, autorità ed un folto pubblico costituito anche da molti giovani. A supporto del Dibattito, che ne ha completato il successo, è stata allestita una Mostra su un “Progetto di rinascita ideale del centro storico di Borrello” ricostruito solo per il 50%. Gli autori hanno fatto rinascere il tessuto urbano originario mediante un pregevole lavoro tecnico ed iconografico.



Pescara, 26 ottobre 2003


Riccardo D'Auro


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