Invito alle cascate

Il valore naturalistico - si potrebbe dire patrimoniale - della Riserva “Le Cascate del Verde” è un dato oggettivo di grande importanza, singolare più che raro.
Non è di questo che voglio parlare: voglio parlare, invece del rapporto particolare di fruizione estetica di cui il visitatore può fare esperienza entrando nella Riserva. E questo valore è caratterizzato dalla molteplicità. Mi spiego. Di solito la situazione è semplice: di fronte c’è il paesaggio o il fenomeno, qui sono io spettatore; quello che il paesaggio mi deve dare è lì, e io lo prendo.
Le Cascate del Verde, invece, chiamano l’uomo a esperienze diverse, da punti di vista diversi, che richiedono disposizioni e stati d’animo diversi.

Si può scegliere di attraversare il Ponte Vecchio e seguire il viottolo che costeggia il torrente sulla sponda destra. Lo sciabordio delle acque è una compagnia di voci e risa cristalline come di bimbi, che ti accompagna sotto una lunga volta di chiome di alberi. Superata l’erta finale, si scende dolcemente verso un ampio terrazzo panoramico, tra carezze pungenti di ginepri.
Intanto lo sciabordio è diventato un rombo cupo ma ovattato.
Quando ti affacci sul terrazzo balaustrato, lo sguardo si perde giù per i dirupi della valle di fronte a te; oppure, alla tua destra, plana su un tappeto di boschi senza strappi né squarci che, al tramonto (i dolci, lunghi tramonti estivi di montagna!), scolora il suo verde intenso in un verde più pallido e quasi rosato.
Le Cascate, qui, restano castamente in disparte. Sono il sottofondo, il tenero bordone del tuo protenderti sulla valle e sui boschi quasi in volo, quasi dimentico di essere appoggiato a una ringhiera di solido ferro; mentre un vento sapido, robusto, ma non invadente, ti scivola sul corpo per accrescere la sensazione del volo.

Se scendi la lunga scalinata che, sul greto sinistro del fiume, conduce fin sotto le Cascate, vuol dire che hai scelto di mettere queste al centro della tua esperienza. E esse ricambiano, offrendosi in tutta la loro imponenza (soprattutto nel periodo del disgelo, com’è caratteristico dei fiumi appenninici).
Lo sprofondo è terribile nel disgelo, con la gran massa d’acqua spumeggiante che rovina con rombo di tuono nel precipizio, e sembra protendersi fino a te e volerti imprigionare nel suo gorgo e trascinarti.
Nella bella stagione, invece, e ancora nei miti autunni mediterranei, la cascata ti affascina con la sua venustà. L’acqua scivola con dolcezza e quasi gioiosamente sui sassi divenuti tondeggianti nell’usura del tempo e della liquida carezza, mentre il rombo che ti atterriva all’epoca del disgelo, è un lontano vocìo confuso verso il quale tendi l’orecchio a catturarne il senso indistinto.

Infine, puoi arrivare alle Cascate dopo una lunga escursione tra boschi ormai impenetrabili, dolorose mulattiere sassose e viottoli scoscesi. Avrai sopportato la stanchezza e le scudisciate dei rami mossi dal compagno che ti precede. Avrai dovuto fidarti ciecamente della sagacia della guida che ti conduce. Ne valeva la pena. La Cascata la senti su di te più che vedertela di fronte, ma del resto essa stessa si fa da parte per porre te al centro dello scenario. Uno scenario di gravare impervie, svettanti come guglie verso un cielo lontano. Alzi lo sguardo verso le forre, verso il cielo, seguendo il richiamo dell’acqua e vedi che lassù volteggia un nibbio. Ti senti mancare il respiro dalla gioia perché senti che potrebbe essere tuo l’occhio di quel falco che ti scruta al centro del paesaggio.

Quando si è completata la visita (che dico: l’incontro), si è messo in vibrazione tutti e cinque i sensi e anche il senso del cuore.
Ci avviamo alla macchina, alle case, alla vita di tutti i giorni e i cinque sensi vibrano ancora, mentre dentro, nel cuore, la nostalgia della bellezza ci fa sentire spossati.

Donato Di Luca

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